Eugenio Montale

Nasce a Genova il 18 ottobre 1896.

Trascorre la giovinezza in Liguria, tra la città natale e Monterosso, paese d’origine del padre.

Frequenta le scuole tecniche e consegue il diploma di ragioniere.

Tra il 1917 e il ’18 partecipa alla prima guerra mondiale, in fanteria.

Nel primo dopoguerra, frequenta i poeti Angelo Barile e Camillo Sbarbaro e il critico letterario Giacomo Debenedetti.

Nel 1925 pubblica la sua prima raccolta di liriche, Ossi di Seppia.

Sempre nel ’25 firma il manifesto degli intellettuali antifascisti, di Benedetto Croce.

Entra a far parte del gruppo di “Solaria”, fino al 1934, anno di soppressione della rivista per motivi politici.

Nel 1932 pubblica presso Vallecchi La casa dei doganieri e altri versi.

Nel 1939 pubblica a Torino Le occasioni.

In questi anni svolge un’intensa collaborazione con le riviste dell’ermetismo fiorentino.

Nel 1946 comincia a lavorare al “Corriere della sera” e si trasferisce a Milano.

Nel 1956 pubblica a Venezia La bufera e altro e riceve il premio Marzotto.

Nel 1971 pubblica per Mondadori Satura e, infine, le ultime raccolte: Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi.

Tutta la sua produzione poetica è raccolta in L’opera in versi, 1980.

Muore a Milano nel 1981.

 

 

Dora Markus

 

Fu dove il ponte di legno
Mette a Porto Corsini sul mare alto
E rari uomini, quasi immoti, affondano
O salpano le reti. Con un segno
Della mano additavi all'altra sponda
Invisibile la sua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
Della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s'affondava
Una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un'antica vita
Si screzia in una dolce
Ansietà d'Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
Agli uccelli di passo che urtano ai fari
Nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare.
E i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
In quel lago
D'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
Ti salva un amuleto che tu tieni
Vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio; e così esisti!

Ormai nella tua Corinzia
Di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
Sull'umida conca non porta
Col palpito dei motori
Che gemiti d'oche e un interno
Di nivee maioliche dicembre allo specchio annerito che ti vide
Diversa una storia di errori
Imperturbati e la incide
Dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta nell'ora
che abbuia, sempre più tardi.

E' scritta là. Il sempreverde
Alloro per la cucina
Resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
Veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
Voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.

 

 

 

 

 

da "Ossi di seppia" (1920-1927)

 

Forse un mattino andando in un’aria di vetro

 

 

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

 

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi case colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

 

11 luglio 1923

 

 

da "Le occasioni"(1939)
                

La casa dei doganieri

 

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.

 

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

 

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.

 

 

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende...).

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

 

 

28 sett. 1930

 

 

 

 

 

 

 

da "Satura" (1962-1970)

La poesia

 

I

 

L’angosciante questione

se sia a freddo o a caldo l’ispirazione

non appartiene alla scienza termica.

Il raptus non produce, il vuoto non conduce,

non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.

Si tratterà piuttosto di parole

molto importune

che hanno fretta di uscire

dal forno o dal surgelante.

Il fatto non è importante. Appena fuori

si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:

che sto a farci?

 

II

 

Con orrore

la poesia rifiuta

le glosse degli scoliasti.

Ma non è certo che la troppo muta

basti a se stessa

o al trovarobe che in lei è inciampato

senza sapere di esserne

l’autore.

 

 

da "Ossi di seppia" (1920-1927)

 

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale

siccome i ciottoli che tu volvi,

mangiati dalla salsedine;

scheggia fuori del tempo, testimone

di una volontà fredda che non passa.

Altro fui: uomo intento che riguarda

in sé, in altrui, il bollore

della vita fugace — uomo che tarda

all’atto, che nessuno, poi, distrugge.

Volli cercare il male

che tarla il mondo, la piccola stortura

d’una leva che arresta

l’ordegno universale; e tutti vidi

gli eventi del minuto

come pronti a disgiungersi in un crollo.

Seguìto il solco d’un sentiero m’ebbi

l’opposto in cuore, col suo invito; e forse

m’occorreva il coltello che recide,

la mente che decide e si determina.

Altri libri occorrevano

a me, non la tua pagina rombante.

Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli

ancora i groppi interni col tuo canto.

Il tuo delirio sale agli astri ormai.

 

 

 

 

 

 

da " Ossia di seppia"( 1920-27)

 

Felicità raggiunta, si cammina

per te su fil  di lama.

Agli occhi sei barlume che vacilla,

al piede, teso ghiaccio che s’incrina;

e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

 

Se giungi sulle anime invase

di tristezza e le schiari, il tuo mattino

è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.

Ma nulla paga il pianto del bambino

a cui fugge il pallone tra le case.

 

da "OSSI DI SEPPIA" (1920-1927)

 

Meriggiare pallido e assorto

 

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

 

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

 

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

 

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’e tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 

 

1924

 

 

 

 

 

 

da "Satura" (1962-1970)

 

Mentre ti penso si staccano

veloci i fogli del calendario. Brutto

stamani il tempo e anche più pestifero

il Tempo. Di te il meglio

esplose tra lentischi rovi rivi

gracidìo di ranocchi voli brevi

di trampolieri a me ignoti (i Cavalieri

d’Italia, figuriamoci! ) e io dormivo

insonne tra le muffe dei libri e dei brogliacci.

Di me esplose anche il pessimo: la voglia

di risalire gli anni, di sconfiggere

il pièveloce Crono con mille astuzie.

Si dice ch’io non creda a nulla se non ai miracoli.

Ignoro che cosa credi tu, se in te stessa oppure

lasci che altri ti vedano e ti creino.

Ma questo è più che umano, è il privilegio

di chi sostiene il mondo senza conoscerlo.

18/9/1969