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Indice

Prefazione di Maurizio Rizza
1. Il pensiero di lei
2. Quadro d'autore
3. Il viaggio, ovvero quando scoprii Milano
4. La buriana, ovvero lo strano caso del bambino che bruciò il suo violino
5. Madame Regina
6. Il santo in Paradiso, ovvero le raccomandazioni, come gli esami, non finiscono mai

la buriana

e altri racconti

 

1. Il pensiero di lei 

«Mi piaci quando taci perché sei come assente

e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.

Lascia che ti parli pure col tuo silenzio

chiaro coma una lampada, semplice come un anello.

Sei come la notte, silenziosa e costellata.

Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perché sei come assente.

Distante e dolorosa come fossi morta.»

(Pablo Neruda)

  

 «Gentile Chiara,

aspetto ormai da troppo tempo una tua risposta, anche telefonica, alle mie ultime lettere. Inizio seriamente a dubitare che esse ti arrivino e che tu le legga.

Dolce Chiara, il tuo silenzio mi preoccupa e mi ferisce. Ma ti confesso che non posso fare più a meno di te, anche se volessi... ma non voglio.

Il pensiero di te fa ormai parte del mio quotidiano vivere. Anima, come spirito vitale, le mie giornate, accompagna il mio cammino, impregna e vivifica tutto ciò che faccio. Tutto ciò che faccio solo per te, Chiara.

Se ho deciso di cambiare vita, d’incominciare a lottare in questa selva che chiamano consorzio umano per conquistare anch’io un posto per noi due, ebbene Chiara, è solo per te che l’ho fatto. Tu sei l’alba, non sperata né attesa, che finalmente è sorta nell’inutile, impazzito, squallido ruotare di questo mondo e che ha dato senso al mio inquieto, già lungo vagare.

L’alba che ha dato luce e colore a tutto ciò che mi circondava e che prima non vedevo. Se una cosa, forse l’unica, può spingerci a durarla ancora, a proseguire un cammino che già avevamo deciso di non continuare, questa cosa è l’amore di una donna.

Il tuo amore, il pensiero di te.

Lo so, forse in questo momento starai sorridendo... Ma cosa posso farci io se questo tipo di lettere risultano essere sempre così ridicole? È l’amore allora che è ridicolo? O siamo noi che l’amore rende ridicoli? Vorrei dirti, scriverti che “ti voglio bene”... Sarebbe più prudente... Ma sarebbe una mezza bugia...

L’amore non è il semplice voler bene, vuoi bene ad un amico, ad un parente, ma non gli dirai mai che lo ami, che per lui daresti te stesso, solo per lui.

L’amore non conosce misura, l’amore straripa, sempre, l’amore abbatte e fa crescere in abbondanza, l’amore non fa calcolo alcuno, dà dimenticando il suo stesso dare, nell’amore non siamo più noi stessi, perché l’altro occupa ogni parte del nostro essere. Noi c’incarniamo in lui, ci perdiamo nei suoi gesti, nei suoi umori.

L’amore è come il sole, sorge non atteso, scalda e scopre tutto ciò che la sua luce copre.

Non riesco a non pensare alla tua voce, arcana melodia, alle corvine onde dei tuoi capelli che ti lambiscono il volto, amo persino il modo in cui gli occhiali ti pendono leggermente a destra, il modo in cui guardi le persone sbirciandole di sopra gli occhiali, mi perdo nel mare dei tuoi occhi color...».

«Il mare dei tuoi occhi...» Il mare è azzurro, blu, verde vicino alla costa... i suoi occhi erano castani, anzi quasi nocciola. Che collegamento poteva esservi fra il colore del mare e quello dei suoi occhi? L’unico liquido che poteva, per colore, esservi accostato, era quello delle acque fognarie. Così come le aveva viste una volta che era passato vicino ad un tombino scoperchiato. Era rimasto tanto di quel tempo a fissare quelle acque lutulente, che d’un tratto gli era sembrato come se quell’enorme ammasso di rifiuti urbani avesse cominciato sinistramente a fissarlo, e ad attirarlo irresistibilmente nel suo perenne corso. E vi sarebbe davvero caduto se un passante non l’avesse violentemente urtato, gettandolo a terra sopra la carogna di un gatto.

Avrebbe potuto quindi scriverle: «I tuoi occhi color di fogna»? Oppure, eliminando definitivamente l’idea del liquido: «I tuoi occhi sembrano noccioline essiccate». No! Ogni volta che pensava a quegli occhietti curiosi, non riusciva ad allontanare dalla sua mente l’idea della fogna. Era un’equazione: occhi = liquido, occhi nocciola = acqua di fogna.

Rimase per un po’ di tempo sovrappensiero, incerto. Indubbiamente era giunto ad un punto morto, una situazione di stallo.

Avvicinò lentamente la stilografica alla bocca, e cominciò prima a passarsela voluttuosamente sulle labbra, poi, con vero gusto, a masticarla nervosamente con gli incisivi.

Scacciata l’idea della fogna, prepotentemente si fece strada nel suo cervello una frase di Céline che da mesi lo ossessionava diabolicamente: «L’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini, e io ci ho la mia dignità, io!».

Ma Céline non aveva mai amato nessuno veramente, nemmeno se stesso e se non si era mai ucciso, era stato solo perché gliene era mancato il fegato. Che ne poteva sapere lui dell’amore.

Però ciò che diceva Céline in parte era vero, l’amore rincretinisce e ci fa un po’ barboncini, eccome.

La stilografica gli era esplosa in bocca, silenziosamente, macchiandogli le labbra e la lingua, e lasciandogli sulla lingua  un sapore piacevolmente amaro. Spazientito, la spezzò in due, annerendosi così anche le mani, l’avvolse accuratamente nel foglio sul quale stava scrivendo, appallottolò il tutto e lo scagliò in un cartone dove giacevano dei romanzacci gialli destinati al macero.

Guardando verso l’orologio da muro, che solerte picchiettava, si accorse che il pomeriggio era già passato e il giorno volgeva al termine.

Alzò svogliatamente lo sguardo verso la finestra e, attraverso la lieve tenda lattea, vide il disco solare che, dopo aver incendiato ogni cosa, s’inabissava lentamente nelle profondità della terra. Era quasi buio. Soltanto due uccelli continuavano,  come incuranti di tutto, a inseguirsi, mentre attorno a loro tutto il creato taceva attonito dinanzi ala morte di quel giorno.

Socchiuse gli occhi e restò per qualche minuto pensoso, rigirandosi in mente quella frase di Céline, come per cavarne il vero succo e poi gettarne definitivamente l’involucro di parole.

Invece si mise a demolire colui che, fino a poco tempo prima, era stato uno dei suoi numi tutelari. Uccisolo, infine, gli sembrò che si stesse lentamente accasciando ai suoi piedi.

Cominciò finalmente a stiracchiarsi sulla sedia di vimini, che accompagnava ogni suo movimento scricchiolando come a condividere con lui quel casto piacere fisico che si stava concedendo dopo un’impresa utile all’umanità intera: aveva ucciso un antisemita, un folle, Céline.

Come a chiudere definitivamente quella giornata, ripensò allo scrittore. Rivide i capelli scarmigliati e candidi, le guance incavate, gli occhi accesi e lo liquidò con un coglione, proferito rabbiosamente a mezza voce.

Il cadavere ai suoi piedi parve sussultare. Adesso, solamente adesso, finalmente era solo, solo e vuoto. Il sole era definitivamente scomparso, era sera. Lo avvolse la penombra, rifiutò il suo languido abbraccio e accese la lampada da tavolo, premendo sull’untuoso tasto rosso.

Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un altro foglio profumato di carta giallina, decorata con dei fiorellini color pastello, cercò poi un’altra penna nel cassetto, la trovò e quindi l’aprì. Si rimise in posizione, volendo, anche quel giorno, spedire una lettera alla sua Chiara. Ma invano. Poggiò diverse volte la punta della penna sul foglio, come ad aspettare che i pensieri defluissero da essa. Ma nulla.

In attesa che gli venisse qualche bel pensiero da trascrivere, scrisse accuratamente la data, l’intestazione sulla busta e aspettò: nulla. Ancora nulla.

Non gli era mai successo, le scriveva ormai da quasi un anno, ed ogni giorno le aveva mandato una lettera. Cercò allora di pensare a Chiara, ma gli apparve immobile, le labbra sottili, serrate, gli occhi di ghiaccio, vuoti, che lo fissavano. Non riuscì ad immaginarla in movimento. Immobile, eterea, ecco come gli appariva. I suoi lineamenti si dissolvevano nel buio che la circondava, che la penetrava e lentamente la divorava. Il buio dei suoi silenzi, dei suoi gesti, dei suoi pensieri.

Decise che le avrebbe parlato lungamente di ciò che aveva fatto in quel giorno per lei. Ma che cosa aveva fatto?

«Gentile Chiara,

oggi ho dato una materia all’università. Poi ho cercato di scriverti due righe, ma non ci sono riuscito.

Ho ucciso quel coglione di Céline».

Qui si sarebbe dovuto fermare concludendo col solito: «tuo...»

Avrebbe però anche potuto scriverle:

«Mia Chiara,

questa è la duecentocinquantanovesima lettera che ti scrivo...».

La duecentocinquantanovesima, tante ne aveva scritte, lei non gli aveva mai risposto. Nulla, nemmeno un biglietto con due righe, una telefonata. Nulla. Eppure le aveva scritto ben duecentocinquantotto lettere, ogni giorno, solo a lei. Aveva cercato in tutti i modi di avere una risposta da parte sua, aveva usato toni talmente dolci da risultare mieloso, oppure duri, provocatori, per suscitare una risposta, anche risentita, nulla.

Neanche la sua voce riusciva più a ricordare, si era persa nel tempo. Quella stessa voce che lo aveva incantato quella sera sul pullman sul quale si erano incontrati.

Tornavano entrambi da ***. Lui era stato male per tutto il viaggio, perché solo dopo alcune centinaia di chilometri, si era ricordato che soffriva maledettamente il mal d’auto. Per quasi tutto il viaggio, era rimasto semi disteso sul sedile pieghevole, ingoiando tante di quelle pasticche, da aver cominciato ad avvertire un gran bruciore allo stomaco. Per più di trecento chilometri, aveva visto solo il soffitto di stoffa lurida del pullman, non badando per nulla agli altri passeggeri.

Come si accorse dopo, lei sedeva sul sedile posteriore. Dando l’impressione di leggere un libro, al buio. Era molto carina, ma lui stava troppo male per accorgersi di lei. Riusciva, in quel momento, a pensare solo a Scorsese e al suo film L’ultima tentazione di Cristo. Lui non era un credente, si riteneva troppo intelligente per esserlo. Però in quel preciso frangente, una sottilissima intuizione lo folgorò.

Scorsese era un grandissimo regista deficiente. Se non lo fosse stato, non avrebbe girato un’ingenuità di quel tipo. Perché, quando un uomo sta male e soffre veramente, ha solo un desiderio, che il dolore gli passi presto.

Pensare ad una donna?

Come farlo dall’alto di una croce?

Anche Scorsese, in fondo, era solo un coglione che un’orda di idioti senza cervello aveva proclamato “maestro”.

Verso gli ultimi cento chilometri, aveva iniziato a sentirsi meglio, la testa si era fermata finalmente sul collo, era scomparso il senso di vomito ed aveva notato quella graziosa ragazza con lo sguardo fisso sulla stessa pagina da ben trecento chilometri.

Osservandola bene, si potevano formulare due ipotesi. O la ragazza era talmente stupida da metterci ben tre ore per capire una pagina, allora dopo un primo approccio, constatata l’insipienza della stessa, si sarebbe girato disgustato mandandola in un mondo migliore: l’altro. O il suo atteggiamento era appositamente studiato per suscitare interesse ed avviare una piacevole conversazione, servendosi come ausilio anche della pagina letta.

Per sapere quale delle due ipotesi sarebbe risultata veritiera, rimaneva da fare solo una cosa, la più elementare: domandare. Fingere di interessarsi alla lettura di lei.

Rimessosi i mocassini, alzò un po’ la spalliera del sedile e col miglior sorriso, distrattamente chiese:

-    Cosa stai leggendo?

Lei, come ridestandosi da una lunga attesa, ritornò alla copertina del libro, fece per leggerlo e rispose:

Dedalus di James Joyce.

Lui riprese:

– A che punto sei arrivata?

Rimase un po’ titubante, poi continuò:

– Quando c’è quel dialogo fra lui e la madre. La madre gli rimprovera di aver letto troppi libri e che questi gli hanno fatto male. E nel frattempo gli prepara la valigia. Allora Dedalus le risponde che lui ha letto poco e capito ancor meno.

L’aveva detto tutto d’un fiato, fissandolo attentamente attraverso i suoi cerchi dorati e battendo lievemente, ritmicamente le palpebre. Però, mentiva spudoratamente. Quel brano infatti era alla fine del libro e lei teneva il dito alla metà del volume.

Probabilmente aveva letto quel passo dalla quarta di copertina o dall’introduzione, oppure aprendo casualmente il libro. Sì, lei mentiva, quindi, e gli aveva teso una femminina trappola. Da buon lettore, quale era o si credeva, se ne accorse subito, ma fece finta di nulla, non gli interessava proprio umiliarla, se non avesse avuto però quel musetto adorabile, l’avrebbe fatto volentieri.

Era una questione di sana giustizia.

L’aveva letto lui, Joyce, e veramente, nella traduzione mai superata di Cesare Pavese. Quella invece che lei teneva tra le mani era una di quelle edizioni super-economiche che la gente compra e che non legge mai, pessime traduzioni per risparmiare sui diritti d’autore dei traduttori.

Cercò velocemente qualche argomento per poter avviare con lei una piacevole conversazione su Joyce, che non risultasse troppo noiosa e accademica. Rapidamente gli passarono per la mente le pagine che sul romanziere avevano scritto Svevo, Pound e Miller.

Si soffermò per un momento sulla geniale intuizione di Thomas Merton sull’essenza tomista della poetica joyciana. Ma, indubbiamente, lei non lo avrebbe seguito e lui avrebbe proseguito da solo, saltando da una citazione all’altra, fino al termine del viaggio. E questo voleva evitarlo.

Così le rivolse la classica, banale, inutile domanda, la più stupida che si possa rivolgere ad un lettore che riemerga da una lettura della qualità di un Joyce.

– Ti piace? Che ne pensi?

Buttò lì la domanda, quasi distrattamente e lei la raccolse come impacciata nella semioscurità del pullman.

– Penso che, come scrittore, sia molto bravo, però è un pochettino confuso, ecco, sembra talvolta che...

Parve quasi sospesa in attesa che qualcuno la imbeccasse.

– Ecco, sembra che...

Riprese timidamente. Non sapeva, pur volendolo veramente, venirle in aiuto, completare la sua frase. E poi, non poteva fare questo al povero Joyce!

Così, come a farle intendere che aveva compreso il suo pensiero, le disse:

– Credo che tu in fondo abbia ragione. Anche la Woolf ha dato un giudizio di questo tipo.

Giocava maledettamente sporco. Si guardò attentamente intorno per vedere se qualcuno li stesse ascoltando, ma scorse solo un vecchietto che dormiva a bocca aperta con la testa riversa all’indietro. Nessuno poteva ascoltarlo. Poteva continuare a barare bassamente.

Lei si rivolse pensierosa verso l’esterno del veicolo, sussurrò perplessa:

– La Woolf? Forse è così...

Una lucina si accese, erano entrambi su un binario morto, bisognava uscirne al più presto. E anche se avesse voluto continuare su quella strada e infierire su di lei, gli bastò guardarla per un attimo di profilo, per accorgersi che gli stava succedendo qualcosa di talmente nuovo da lasciarlo disorientato e disarmato: si stava innamorando di lei. E credette che la cosa fosse reciproca quando, voltandosi, offrendogli il suo tre quarti, gli chiese:

– E tu, come ti chiami?

Si, lui come si chiamava? Rimase incerto, non gli sovveniva più, rischiava di apparire ridicolo.

 

Il resto del viaggio trascorse fra i suoi occhi che lo fissavano tra un battito di palpebre e l’altro, le sue parole che non percepiva più distintamente e il rincorrersi delle pietre miliari che inesorabilmente li avvicinavano alla loro destinazione.

Arrivati, quasi stordito, inebriato, le chiese di vederla ancora, lei gli scrisse il suo indirizzo sul palmo della mano e gliela strinse, mollemente.

Appena a casa, le aveva scritto subito, ogni giorno, senza ricevere però alcuna risposta. Pensando a lei, aveva ripreso gli studi interrotti, ora voleva avere qualcosa da offrirle. Lui che diceva che la vita in fondo non vale la pena di essere vissuta, perché la verità della vita è la morte, tanto valeva quindi togliersi dai piedi il più presto possibile, senza far troppo rumore per non disturbare nessuno.

Il pensiero di lei lo aveva cambiato, perché, come dicono i mistici, solo l’amore può redimere.

Con le sue lettere la inseguiva ogni giorno, sentiva che gli sfuggiva. Lei era la meta, e questa si spostava sensibilmente ogni giorno. Le sue lettere erano funi di parole che li legavano, che le impedivano di dileguarsi.

Da quella sera non l’aveva più rivista né sentita, solo la certezza che lo leggeva e che lo amava gli avevano dato il coraggio e la forza di scriverle per circa un anno, per duecentocinquantotto lettere.

Ma quella sera, al buio, con il cadavere di Céline che ammorbava la stanza, si rese conto che quella fune, intessuta pazientemente di parole e d’amore, si era definitivamente spezzata. Ritornò indietro su tutta la vicenda, come da vecchi si ritorna ai ricordi d’infanzia con il dubbio di aver più immaginato che vissuto davvero.

Sulla vecchia scrivania, fuori dal cono di luce che la lampada proiettava sulla sua superficie, giaceva una foto sbiadita di Franz Kafka che gli aveva regalato suo padre poco prima di andarsene. Accese un fiammifero e fissò quel viso sottile, enigmatico, quel suo sguardo ironico, beffardo.

Lo sguardo di un Buddha. Sembrava averla capita veramente lui la vita, per questo sorrideva a quel modo. Il fiammifero si consumò lentamente, poi si spense, così anche il pensiero di lei.

Quel sorriso sornione gli aveva fatto comprendere, in un attimo, tante cose, una vita intera, e una in particolare: lei non era mai esistita.

Una certezza, solida come un blocco di granito, freddo, compatto.

Lei non era mai esistita, tutte le sue lettere non erano mai arrivate ad alcuno. Partivano bianche, senza destinatario.

Prese un altro fiammifero dalla scatola umidiccia, lo sfregò contro il muro, si accese. Aprì il cassetto, ne estrasse un lumino votivo, lo accese e lo pose dinanzi alla foto del mite Franz. Lo fissò intensamente, sorridendo a sua volta, chinò il volto su di lui, poggiando il capo sui dorsi freddi delle mani e chiuse gli occhi stanco.

Una lacrima gli solcò il volto triste e si addormentò, ma non pensò più a lei.

 

2. Quadro d’autore

«Arthur, l’amore è l’infinito abbassato

al livello dei barboncini e io ci ho la mia dignità, io!»

(L. F. Céline - Viaggio al termine della notte)

  

– ’Sera! È andato bene il viaggetto di nozze?

Tullio e Liliana si trovavano nel posto più imbarazzante del mondo: l’ascensore. Avevano visto e visitato di tutto in ben tre settimane di viaggio di nozze.

Una volta erano pure entrati per sbaglio in un lurido bordello, avendolo scambiato per una sauna a buon mercato, popolato da prostitute bambine, pingui vecchi lascivi e una sorridente vecchietta grinzosa che amministrava l’azienda, come avevano subito intuito alle generose offerte di lei verso Liliana. Ne erano fuggiti biascicando un timido disculpe che aveva suscitato l’ilarità dei frequentatori del suddetto luogo. Ma mai si erano sentiti tanto in imbarazzo come in quel momento.

Tullio cercava con gli occhi una di quelle rassicuranti etichette metalliche che negli ascensori recitano: «Portata massima 365 Kg». E che sotto specificano: «Capienza 4 persone». Ciò significa che ogni individuo dovrebbe pesare ben 91,25 Kg, il che presuppone una popolazione particolarmente alta e corpulenta o che naviga verso una obesità patologica. Ma in quell’ascensore, per un fortuito ed inspiegabile caso, non c’era alcuna etichetta. Tullio allora si volse ai numeretti che stavano l’uno dietro l’altro in fila indiana come tanti diligenti scolaretti. Lesse: «Uno, due tre, quattro...», poi più su: «A... A – pensò – come Aperol, A come aspirina, A come astemio... ecco: A come attico! Sì, deve essere proprio così!» e, come ogni stupido, si meravigliò della propria perspicacia.

Guardò trionfante Liliana e, siccome erano ancora sposini e conseguentemente pazzi d’amore l’uno per l’altra e viceversa, lei abbozzò un sorriso e gli socchiuse un occhio.

– Allora, come sono le Bermuda?

L’ometto con il cappello di feltro e l’alito pesante stringeva prepotentemente il suo assedio. Qualcuno doveva aver fatto la spia e ora il nemico sapeva.

«Mia madre», pensò Liliana. Si guardarono intimoriti. Rispondere? Chi avrebbe preso l’iniziativa? L’intrepido e viscido ometto sferrò nuovamente il suo attacco:

– Sono belle le Bermuda? Lì fa caldo, vero? Alcuni dicono anche troppo...

La situazione precipitava, erano circondati, bisognava prendere l’iniziativa sul nemico e ricacciarlo nelle sue posizioni: Liliana levò verso Tullio lo sguardo implorante.

Tullio, schiacciato dal grave compito che lo premeva, era ritornato ai suoi composti numeretti che s’illuminavano l’uno dopo l’altro. Gli scolaretti si passavano educatamente la loro palla luminosa: il 4 al 5, il 5 al 6... «Ancora tre piani – calcolò – non è possibile sfuggirgli».

Liliana si volse nuovamente verso Tullio, capì di non potere contare su di lui: occorreva un atto d’eroismo puro. S’irrigidì tutta, un leggero fremito le percorse il corpo flessuoso e, con voce suadente, disse:

– Sono meravigliose, il posto più incantevole della Terra e ci siamo divertiti moltissimo, stupende – concluse.

Tullio allora, confortato e pungolato dall’ardimento di Liliana, rientrò nel suo ruolo e lanciò una severa occhiata all’indirizzo di quello per zittirlo. L’ometto, ormai sconfitto, abbassò lo sguardo e alzò la sua lacera bandiera bianca mormorando fra sé:

– Tanto devo scendere, e poi era solo così per sapere.

Difatti appena il diligente scolaretto numero nove ebbe ricevuto la palla luminosa, l’omuncolo si cavò il cappello dalla testa in segno di resa, mostrò la vergognosa canizie senile e, a passi veloci e leggeri, si diresse verso il suo rifugio, dove avrebbe dovuto rendere conto del fallimento della sortita al suo stato maggiore che, con un eufemismo, ancora chiamava moglie. Ma forse la sua guerra non era ancora finita e sarebbe ricominciata, in maniera assai più cruenta, appena varcato l’uscio del suo rifugio.

Queste rapide riflessioni causarono a Tullio un fastidioso senso di colpa che il suo psicanalista, il dottor Altiero Spinello, avrebbe poi dovuto rimuovere. Il che, tradotto in cifre, significava almeno due settimane di terapia, ovvero 630 mila lire di spese non detraibili.

Nonostante il leggero aggrottamento delle sopracciglia, Liliana portò la mano alla fronte e lo salutò militarmente. Tullio, orgoglioso di lei e dell’ardimento mostrato, si pose leggermente sull’attenti e rispose al saluto, ricordando i vecchi tempi del servizio militare quando, al ritorno dalla corvée nelle patrie latrine, si presentava al caporalmaggiore con gli stracci ancora gocciolanti, faceva il suo bel saluto e urlava:

– Soldato Pendolino – così ahimè! si chiamava – agli ordini, signor caporalmaggiore.

La lucina si spostò sul 10, lo scolaretto tratteneva pazientemente la palla tra le mani, e compresero di essere finalmente giunti al loro “nido d’amore”. Piccolo particolare di non secondaria importanza che ci era prima sfuggito: chiediamo venia per questo e speriamo che non ce ne vogliate. I due innamorati indossavano vistosi abiti estivi fabbricati in Cina e comprati alle Bermuda. L’efficientissima compagnia aerea Vololestoesicuro aveva, «per uno spiacevole disguido» mandato le loro valigie in Nuova Zelanda. Così si erano trovati con due borsoni di tela nera ricolme di Bibbie plurilingue della Abu (Alleanza biblica universale) e di clergyman neri per uomo e donna. Essendo cattolici praticanti – anche se naturalmente sul fatto del sesso per loro il Papa aveva torto – non avevano osato accomodare con quelli e avevano preferito girare per Roma in calzoncini fiorati e magliette fosforescenti, sulle quali campeggiava spavaldo un Bermuda for Lovers. E tutto questo in pieno inverno con sei gradi sotto zero. Ritornando diremo che i due inseparabili si ritrovarono “finalmente insieme” sul pianerottolo di casa illuminato da una tremula luce al neon e che si sentivano «terribilmente felici», come in seguito Liliana ebbe testualmente a dichiarare in tribunale, tre anni dopo, al momento della causa della separazione.

Ma in quell’attimo, sbronzi di immagini pubblicitarie che ritraevano sposini felici e consumatori, e di amici e di amiche che gli gridavano ancora alle orecchie: «Tanta felicità», pensavano, fanciullescamente, creduli che tutto dovesse durare veramente in eterno. Avrebbe poi avuto ragione il saggio don Genesio Scafazza che, dopo la cerimonia nuziale, gli aveva detto, fra il serio e il faceto, scrollando la testa: - Ma cosa avete fatto! Cosa avete fatto!

Click, clack, track, track, tock... la lunga chiave dentellata entrò nella toppa della porta corazzata, questa pesantemente si aprì, sostenendosi faticosamente sui robusti cardini. Tullio, come nei migliori films americani, prese Liliana fra le braccia muscolose, entrò di traverso nell’intima oscurità dell’appartamento, cercò di arrivare a tentoni all’interruttore della luce e... «cai, cai, crack, tump», cadde rumorosamente sul pavimento, lanciando Liliana verso il portaombrelli di Capodimonte e ferendo, prima col piede destro poi mortalmente col peso del corpo, un tenero – forse un po’ troppo tenero – barboncino nero, al collo del quale, accesa finalmente la luce, sarebbe stato trovato un cuoricino di cartone rosso con sopra scritto: «A Lilly da Mamy perché Pallino la consoli quando il suo Tullio sarà al lavoro».

Rimessosi in posizione verticale, Tullio, da bravo “Socio Emerito” del PuPuEffe, sollevò Pallino, ormai lo era anche di fatto, e lo adagiò dolcemente sul tavolo in stile lasciando che col suo sangue sporcasse il tappeto Made in Iran dono della zia Clotilde (vi siete mai chiesti perché le vecchie zie zitelle debbano chiamarsi proprio Clotilde?).

Liliana, invece, dolorante cercò di trovare un punto d’appoggio tra i cocci per potere dar leva e risollevare la sua massa corporea. Si era graffiata un braccio e aveva un taglio netto sulla fronte che aveva battuto violentemente contro lo stipite della porta.

– Tutto in vero mogano – aveva orgogliosamente detto il padrone di casa il giorno in cui avevano stipulato il contratto per l’affitto.

Dolorosamente stupita, guardò prima il tavolo in stile, poi il tappeto Made in Iran e per ultimo Pallino al quale Tullio stava ancora cercando gli occhi per carezzarlo. Scossa dall’emozione provata e dal pericolo corso, gli si gettò fra le braccia piangendo:

– Oh, Tullio, Tullio... che paura ho avuto!

Tullio sentì il calore del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, le sue lacrime sulle spalle e le ripeté con tono monotono e rassicurante:

– Lilly, Lilly, dai, non fare così, ricompreremo un altro tappeto uguale a questo, così la zia Clotilde non se ne accorgerà, dai...

Pallino dal tavolo in stile li fissò per l’ultima volta da sotto il folto pelo e spirò contento di lasciare loro una carogna putrescente per casa.

Allontanata da sé Liliana che ormai cercava di asciugarsi le lacrime, Tullio si fece forte e corse a prendere dal ripostiglio il sacchetto nero per riporvi dentro la carcassa esanime di Pallino e, chiusolo per bene, lo fece ricadere davanti la porta di casa, dove un solerte portiere l’indomani sarebbe passato per prelevare i rifiuti solidi.

A sua volta Liliana, con passo deciso, si diresse verso la cucina all’americana ritornandone sventolando uno straccio verde con un cagnolino bianco chiazzato di marrone, sotto il quale era scritto, in caratteri gotici, Pallino. Lo spiegò e lasciò cadere sul tavolo dove, in poco tempo, s’imporporò. Tullio chiuse la pesante porta corazzata, badando a non produrre alcun rumore, con un piede spinse verso il muro i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde (ma è davvero assai generosa questa zia Clotilde, anche se ha pessimi gusti, come tutte le vecchie zitelle, del resto), e si lasciò sprofondare nella poltrona in vera pelle, come esibiva il certificato di garanzia ancora allegato.

Cercando di risollevare un po’ Liliana, che appariva palesemente scossa, ricomponendosi ed assumendo il tono e la posizione di un attore americano, che una volta aveva visto seduto su una poltrona di pelle simile alla sua, evidentemente anch’essa in vera pelle, esclamò con aria quasi gioviale e certamente “giovanile”:

– Ora ci vorrebbe un whiskino.

Sì, doveva aver detto proprio così quell’attore americano, che si era sempre sforzato d’imitare in ogni cosa, ed al quale era riuscito ad assomigliare talmente che Liliana non gli «aveva resistito» (come risulta dagli atti per la separazione). Liliana si calò anch’essa nel suo ruolo di mogliettina carina, allegra ed amabilmente stupida, oltre che giovanile, e rispose come da copione:

– Penso che sia proprio una buona idea.

E, sebbene nessuno dei due fosse mai andato oltre la birra fredda e il vino in brik, continuò chiedendo:

– Liscio?

Tullio, preso di sorpresa, di rimando rispose:

– Si, certo, amore.

Un dubbio però lo assalì subito: «Il whisky col ghiaccio è sempre liscio, oppure si chiama in un altro modo?»

Non volendo chiedere, preferì tacere.

Liliana aprì il mobiletto laccato (piccolo scatto della calamita), individuò il whisky con quella bizzarra etichetta di sghimbescio e l’omino in tenuta di cavallerizzo, lo agguantò, ne forzò il tappo e, vinta ogni resistenza, cominciò a versarne il contenuto.

«Quanto sarà un po’ di whisky? – si chiese preoccupata –. Mezzo, un bicchiere, oppure un dito? Andiamo per il mezzo. In medio stat virtus, diceva Aristotele».

La sua formazione classica non era andata perduta. Il whisky correva placido dalla bottiglia al bicchiere oblungo.

«...è bello guardarlo scorrere – pensò –, come è tranquillo, dà un senso di pace... di calore familiare. Ha proprio ragione la TV quando ci mostra gente allegra e serena con le bottiglie con l’etichetta di sghimbescio in mano».

Nel frattempo però Tullio non era rimasto inoperoso, mentre Liliana versava il whisky, pensando se avrebbe fatto male alla linea prenderne un po’ anche per se, lui, da buon ragioniere contabile quale era, aveva iniziato a passare in rassegna tutti i regali ricevuti, momentaneamente confinati nel lato ovest del soggiorno-sala da pranzo-ingresso.

«Dunque: i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde, il tappeto Made in Iran della stessa, il televisore da 75 pollici stereo con videoregistratore incorporato e televideo parlante dello zio Arturo, il BravoTritak della vicina, il servizio da tè per 120 di suo zio Augusto, le due sedie stile Luigi della sorella di Liliana, Angela, il lampadario di cristallo e murano verde di Antonella e Ahmèd («Non siamo razzisti, anzi siamo cristiani, però un arabo!» aveva detto zia Clotilde), c’è qualcosa che non quadra... il pacco verde, verde pacco, fiocco giallo, giallo, allo, lo... ecco!»

– Ma che cos’è questo pacco verde col fiocco giallo? – chiese gentilmente.

Nessuna risposta.

– Lilly! – urlò.

Liliana si era fermata a contemplare il whisky che si agitava nella bottiglia con l’etichetta di sghimbescio...

– Lilly!

Qualcuno la chiamava come dal di fuori di un sogno... «sì mamma, mi alzo, ancora cinque minuti...».

Il liquido giallastro si increspava nella bottiglia, le sue onde si innalzavano fino al tappo, ne fuoriusciva qualche goccia, ricadevano su se stesse per naufragare nella tranquillità del fluido, strinse il tappo e inclinò di più la bottiglia, ora era in posizione orizzontale, come sarebbe stato bello mettervi dentro una nave con le vele, sognò, e vederla dibattersi fra i flutti del mare in tempesta. Una voce quasi le venne in soccorso da dentro se stessa e le suggerì strane parole: «Come sei piccolo Achab sulla tua baleniera, io sono il grande burattinaio e ti osservo mentre tu non capisci che esiste un “altro” al di fuori della bottiglia che non riuscirai mai a vedere e conoscere...»

– Lilly.

«Mamma, ancora cinque minuti, è bello sognare...»

– Lilly.

«... cinque minuti...».

– Liliana, ma che ti sei intontita?

«È una voce dura, sonora... non puoi esser tu mamma, la tua voce è dolce, invita, sussurra...».

– Sì, sì, Tullio, che c’è? – rispose finalmente.

– Liliana – la voce si fece più suadente, era uno specchio d’acqua.

Lei si tranquillizzò:

– Sì, amore?

– Hai visto quel pacco verde sotto il tavolo? –. Era meraviglioso quando faceva domande, sembrava uno di quei professori che intervengono ai talk-show dove dicono cose quasi intelligenti.

– Quale pacco? –. Stupore misto a femminile innocenza.

– Quello sotto il tavolo, non lo vedi? Me lo prendi per favore? Io sono stanco morto.

«Lo adoro quando dice per favore», pensò Liliana. Obbediente si chinò sotto il tavolo, evitò con attenzione la macchia di sangue del tappeto coi piedi, osservò per un attimo le gocce di sangue che colavano dall’alto come una pioggerella primaverile, afferrò il voluminoso pacco verde, uscì da sotto il tavolo e lo porse al suo lui.

Tullio lo scartò con cura, lentamente, con delicatezza. Voleva aumentare il gusto della sorpresa. Ripensò ai sue sere di Natale di quando era bambino, la gioia di scartare i regali e di riporli in un angolo, per continuare a scartarne ancora. Era questo in fondo il suo regalo di Natale: scartare i regali, tanti, grandi con le loro carte variopinte e fantasiose, coi loro biglietti bizzarri e affettuosi, con i loro fiocchi sgargianti e sfrontati. Mise via la carta ai piedi della poltrona in vera pelle, lo tenne fra le mani, la fronte gli si aggrottò leggermente. «È un quadro», pensò, lo girò e lo rigirò fra le mani, se lo avvicinò al viso, ne cercò un gancio.

«Non c’è... come si fa a capire da che parte guardarlo? Cani sono, cani, cani!».

Non riuscì egualmente a capirvi nulla: tutti quei colori male accoppiati, quelle linee spezzate, ci fosse stata almeno una firma, una data. Nulla. Con una faccia da cassintegrato lo passò a Liliana. Stessa scena di prima: lo avvicinò al viso, lo mise a distanza, lo girò, lo rigirò. Nulla. Nemmeno una freccia con su scritto «alto». Nulla. Sembravano due primati che scoprono la civiltà.

Tullio, nel frattempo, aveva ripreso la carta per cercare un biglietto o qualcosa del genere. Si fece pensoso: «Chi può essere stato a farci un regalo così? Zia Carmela non può essere stata, quella ha sì e no la terza elementare, pensa se ti va a regalare un quadro». Velocemente passò in rassegna tutti gli invitati al loro matrimonio. Fra i possibili donatori, che si riducevano a tre, soltanto uno, padre Dino Rosso, poteva con certezza essere indicato come reo non confesso.

«Padre Dino – ripeté fra sé – non mi meraviglierei della cosa, con tutti i libri che gli hanno fatto leggere gli si deve essere un po’ spostato il cervello. Purtroppo è un amico di Liliana e non posso parlar troppo. Vaglielo a toccare a quella!».

Terminata la sua sfortunata ricognizione, Liliana volse verso Tullio il suo sguardo da “cerbiatto ferito”. Tullio, per risposta, scrollò le spalle, dilatò le narici e appallottolò la carta gettandola fra i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde, ormai classificato come spazzatura da rimuovere al più presto.

Su una cosa però i due colombini si erano già tacitamente messi d’accordo: quel “coso” non sarebbe stato appeso alle pareti, già peraltro piene, del loro nido d’amore. E poi bisognava pensare ai bambini venturi: e se un giorno posando incidentalmente gli occhi su quel coso fossero rimasti traumatizzati? Dovevano pur ricordarsi di quell’articolo, comparso su “Io Bambino e tu?” di Gian Gianni Piagetto, che avevano letto insieme durante una partita amichevole allo stadio.

No, era stato già deciso, quel coso non si adattava per nulla all’arredamento in stile. E del resto come presentare quell’oggetto così colorato agli amici curiosi? Già se li immaginava i loro commenti:

– Uhm, un bel quadro, ha un suo messaggio.

– Di chi è?

– Che rappresenta?

– Cos’è astratto, futurista?

– È originale?

– Una copia numerata? O semplicemente una buona riproduzione? – avrebbe magari un giorno chiesto il più impertinente e sfrontato di loro.

Tullio allora sarebbe rimasto a bocca chiusa e sarebbe sprofondato in una terribile e frustrante vergogna dalla quale solo il suo psicanalista l’avrebbe potuto un giorno trarre fuori.

– Sarà stato uno dei tuoi amici a farci questo scherzetto – disse Tullio con sarcasmo a Liliana.

Lei ebbe un leggero moto di stizza, ricordò ciò che mamy le aveva riferito circa le piccole rinunzie che in un matrimonio bisogna pur fare. Ripassò mentalmente la lezione, incassò il colpo e produsse un sorriso enigmatico alla Gioconda.

Alla prima occasione che gli si presentò, badando bene ad evitare la cerchia degli amici e dei parenti, riavvolsero il coso in una carta scarlatta, gli posero sopra un enorme nastro verde, e lo porsero ad un collega di Tullio, che compiva gli anni, accompagnandolo con una frasetta di circostanza del tipo: «È un pensierino per te».

Questi, apprezzando al pari di loro, gli cambiò a sua volta la carta, vi incollò un nastro di grandezza quasi imbarazzante e lo accompagnò con un biglietto musicale che diceva: «Ad un amico vero un piccolo pensiero in ringraziamento di una profonda e decennale amicizia. Tuo...».

E così di carta in carta, di nastro in nastro, di biglietto in biglietto, di sorriso in sorriso, di augurio in augurio, fra smorfie delle più varie e divertenti e apprezzamenti diversi sul donatore del momento, che non riferiremo per non incappare nella severa censura, il coso, ovvero il quadro, finì per decorare un tetro sgabuzzino di ferri vecchi, fra un osceno e voluminoso corno rosso e un bisunto calendario porno del 1976.

 

3. Il viaggio

(ovvero, quando scoprii Milano)

 

«Non so da dove vengo

Non so chi sono

Né so quando morirò

Non so dove vado

Mi sorprendo di essere così allegro.»

(Martinus Von Biberach)

 

«Come tu, amando la sapienza

(filosofeon), abbia percorso

molte terre per il desiderio

di sapere».

(Erodoto, «Storie», I, 30,2)

 25 Marzo 1997

  

Scrivo soltanto adesso, dopo essere tornato dal viaggio ad Abano Terme, in provincia di Padova, e a Milano. Sono arrivato alle 17 del 18 marzo e già i ricordi, le sensazioni e tutto il frutto di questo viaggetto un po’ avventuroso stanno per essere seppelliti dal procedere dei giorni, con il loro frastuono e la loro ostentata vacuità.

Così scrivo per fissare, conservare e salvare ciò che di questo viaggio rimane. Sono un paziente amanuense che, nel silenzio del freddo studium, mette in salvo i secoli dal loro oblio copiandone le opere. Ma io so, a differenza del santo monaco, che un giorno io stesso, le opere e lo studium rovineremo e non rimarrà altro che macerie. Ed è necessario che sia così.

Un proposito, uno dei tanti: annotare tutto mentre si  svolge. Non aspettare il ritorno, ma registrare e buttar giù tutto sul momento. Un poco come Bruce Chatwin che riempiva della sua grafia esile e leggera i taccuini che si portava sempre dietro nei suoi viaggi.

Ma ho una scusa, una scusa per la coscienza, piccola: ho avuto un incidente non proprio lieve e la mia testa non funziona per ora tanto bene. Trovo ancora difficile lo stesso atto dello scrivere e non so, in verità, se ciò dipende più dal colpo di frusta o dal mio rincoglionimento presenile che mi ha colto da qualche tempo.

Un altro proposito (non costano nulla, si può esser generosi): non rinunziare mai ad un bel viaggetto. Perché l’itinerare ti ridà il tono, t’insegna quello stile leggero di vivere la vita che è la condizione e il dono di ogni viaggiatore per vocazione. Inoltre, e l’avevano scoperto i greci, il viaggio ti costringe ad aprirti, ad abbattere le barriere mentali, a muoverti con un bagaglio leggero (poche cose, poche idee essenziali), a improvvisare continuamente, a sentire pulsare incessantemente intorno a te il mare indistinto e mobile dell’umanità, a tenere sempre gli occhi e le orecchie aperte per imparare a raccogliere le gemme disseminate per la strada.

L’incidente, o le sue conseguenze, mi rendono difficile concentrarmi adesso. I pensieri, le idee, vengono fuori senza ordine, come confusi, inebriati folletti in lotta fra loro. Ma un pensiero è chiaro in me, un punto luminoso nella notte dell’anima mia oscura (amo Juan de la Cruz, anche da ateo lo amerei): devo saper camminare da solo.

L’altrui mediocrità mi ha sino ad oggi confortato. Un’ottima scusa per la mia beata pigrizia. Cerco altri che m’incoraggino a fare ciò che potrei ben fare da solo. Questa è la mia catena ed io così non volo. Ma si è mai visto un uccello aggrappato ad un ramo volare? Nell’autobiografia di Ignazio di Loyola si dice che il santo decise di camminare da solo per non appoggiarsi in nessuno, ma solo in Dio. Se Richard Burton o Lawrence d’Arabia avessero aspettato qualcuno che li accompagnasse, non avrebbero mai lasciato la placida e sonnolenta Inghilterra. Sarebbero morti di noia. Ciò che in loro io vedo e mi conquista è, però, questa colta solitudine itinerante. L’immagine del colonnello Lawrence che, mentre percorre su un cammello l’ardente deserto, traduce Omero, mi conquista. O quella di Charles de Foucauld, che travestito da arabo-ebreo percorre parlando ebraico ed arabo il Maghréb, e scopre Dio. O quel Richard Burton che, travestito da osservante muslìm, si reca alla Mecca in pellegrinaggio devoto…

Costoro danzavano la vita. Ed era una danza folle per chi stava ad osservarli. Ma essi sentivano in sé risuonare l’armonia di infinite stelle e una musica nuova di millenni.

Torniamo al viaggio… Sento il sangue ancora una volta scorrermi impetuosamente dentro. Un torrente in piena che travolge i miei sensi. Ho asservito il mio corpo ed ho vinto con la forza di una volontà sovrana. Sono partito poche ore dopo un grave incidente. Il medico del Centro Traumatologico mi aveva proibito assolutamente di muovermi:

– Le conseguenze di uno stress del genere dopo lo shock dell’incidente potrebbero essere gravi.

Non gli ho risposto, avevo già deciso e mi sono portato dietro i referti del pronto soccorso. Con Sasà, amico discreto e paziente compagno di cammino, abbiamo fatto più di 3.200 km in meno di quattro giorni. Più di dieci ore di viaggio al giorno. Siamo partiti alle 11 di sabato 15 marzo e siamo tornati alle 17 del 18 marzo.

Ad Abano tutto è andato più che bene. Ero scoppiettante come raramente mi capita. Arrivati in treno alle sette del mattino, ci siamo fatti un giretto per il paese sonnacchioso e deserto. Abbiamo “visto” un pezzetto di messa (Vangelo, omelia e consacrazione). Era una messa silenziosa e triste. Anche la predica era triste e il Cristo di legno, dall’alto della croce, era anche lui triste, come se non fosse domenica e non fosse nemmeno risorto.

Alle otto, Niko, il nostro amico del Nord-est, è venuto a prenderci alla stazione e ci ha offerto il secondo caffè della giornata. I caffè del freddo Nord si bevono facilmente, sono lunghi e leggeri, come i caffè alla turca o quelli albanesi.

In occasione del primo caffè nello stesso bar, in conseguenza di una nostra avventura con una malefica zuccheriera d’argento che non voleva aprirsi, dinanzi alla silenziosa e ostentata indifferenza del barista (non avrà voluto mortificarci), abbiamo ribattezzato, e per sempre, lo stesso col nome di austro-ungarico. Nome che in Veneto ha il suo bel significato, e non positivo.

A casa di Niko. Saluti, baci e abbracci come al solito. Piccola nota a margine del testo: la seconda viene sempre meglio. Infatti, la diffidente (o timida) figlia di Niko, Elena, è stata con me molto più accogliente e cordiale della volta precedente. Più ci si conosce e più ci si vuol bene (è anche vero il contrario), come dice Santa Caterina da Siena nei suoi scritti. Sasà poi è rimasto conquistato dalla bionda fanciulla dai capelli inanellati.

Doccia veloce (per Sasà), un po’ meno per me. E poi montaggio dello stand sulla Croazia al Palazzo del Turismo di Abano.

Pranzo con la sezione del Pds del Comune. Naturalmente ottimo e abbondante con tanto, tanto vino.

Sasà ha avuto il suo momento di gloria: smentendo il fatto che nessuno se lo fila, è stato scambiato da dietro, a causa della folta chioma, per una donna da un veneto armato di orchidea. Ma al vedere il fitto pizzo (o pizzetto) che ornava il suo volto, non propriamente femminino, il valentuomo galantuomo (e avventuriero del sesso) si è presto e vergognosamente ricreduto.

NB. In occasione del pranzo ho ricevuto con un po‘ di solennità la tessera dell’Arciscout, sono anche io associativo, adesso. Contento? Per quel che può valere, sì.

«Post prandium aut stabis aut lente ambulabis», dicevano i saggi della Scuola salernitana. Cioè, dopo pranzo o te ne starai bello fermo a riposare o passeggerai lentamente. Noi invece siamo andati alla conferenza correndo perché eravamo fortemente in ritardo. In tutto quel trambusto non avevo capito se il mio intervento doveva essere dalla cattedra o dalla platea. Arrivando in sala ho subito visto che alla cattedra c’era un posto vuoto. Ho, così, rimediato facendo un intervento dalla platea, ma andando a parlare alla cattedra. Mi sono esibito per circa un quarto d’ora (almeno credo). Ho parlato dell’essere giovani in Sicilia, citando un po’ tutto quello che mi ero letto prima di salire. Alla fine ho strappato pure un applausetto (mia gloria momentanea) dai quattro gatti presenti. L’applausetto (o sitting small ovation) è stato interrotto dal Limoccia dell’associazione Libera il quale, con la scusa di rispondere ad una sollecitazione che non gli avevo posto, ha rimescolato l’insipido discorsetto sul Progetto e la Progettualità, che mi ha ricordato alcuni capetti dell’agesci (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani) che altro non possono e non sanno dire che le quattro paroline imparate nei convegni e sulla stampa associativa. Ma la minestrina scaldaticcia e sine sale ha avuto solo l’effetto di accelerare la conclusione della conferenza-incontro sulla mafia.

L’altro relatore era Augusto Cavadi (bravo e preparato) che ha fatto un provocatorio intervento dal quale doveva scaturire un acceso dibattito che, però, non c’è stato.

I veneti guardano alla mafia così come guardano alla fame nel Terzo Mondo: in fondo, non gliene frega niente. È un problema lontano, lontano, lontano, a Sud, appunto. Ho inoltre scoperto che sull’antimafia ci si può anche campare. I relatori sul tema vanno di qua e di là intascando cospicui gettoni di rimborso spese.

E dopo l’estenuante conferenza, tutti in pizzeria, a spese del Comune.

Nonostante le mie buone abitudini mangerecce, ho dovuto lasciare metà di un gustosissimo calzone farcito di mozzarella di bufala. Cominciava allora quella strana inappetenza che ho ancora.

In compenso ho chiacchierato a lungo con la malinconica Elena, che sembrava dovesse piangere da un momento all’altro.

Dopo la pizza, a casa. Mi sono ritrovato nel mezzo di una verifica familiare che mi ha ricordato i nostri dopo festa della sera.

Tutti sono andati poi a letto ed io son rimasto a chiacchierare con Niko fino alle 2. Abbiamo parlato proprio di tante cose e di nessuna in particolare.

 

Ma ritorniamo al viaggio schematicamente:

·         nanna:   ore 2;

·         sveglia:  ore 6.

 

Niko mi ha svegliato con un tazzone di caffè, gli voglio bene.

Alle 7 e 30 usciamo da casa sua, abbracci e baci, poi il treno per Padova e da lì quello per Milano.

Bellissime ragazze sul treno. Chiare slave dai corpi affusolati.

Arriviamo a Milano.

Il treno è in orario. Queste cose succedono solo al Nord. Scendiamo dal vagone e vedo esplodermi intorno la splendida stazione. È un sogno avveniristico di una mente grandiosa e superba.

Dopo aver lasciato uno zaino (pieno di tutto) al deposito bagagli, usciamo dalla stazione e giriamo senza meta per la città. È primavera, c’è caldo, un sole insolito per la nebbiosa Milano. Prendiamo la métro, usciamo in piazza Duomo. Non ci siamo preparati nessun itinerario. Andiamo a caso. Facciamo colazione, la città è movimentata, ma silenziosa, rispettosa dei suoi abitanti. Entriamo nel Duomo, osservo che ci sono confessori per ogni lingua, una vetrinetta con le opere di Martini, sfoglio il settimanale della Diocesi: è bellissimo, più di quaranta pagine, impostazione grafica da giornale che tira.

Usciamo dal Duomo e andiamo a San Fedele, la chiesa dei Gesuiti. All’entrata, un computer t’illustra le opere all’interno della chiesa. Vedo che a San Fedele ci sono locandine per incontri tenuti dai maggiori teologi italiani e stranieri. Quelli che io leggo sui testi o sulle riviste teologiche. Qui la gente li incontra, qui è il centro dell’Impero, della Cristianità. Noi ne siamo solo la periferia.

Continuiamo a girare: la Scala, infine, corso Vittorio Emanuele II, dove la gente si dà appuntamento, passeggia con il Corsera o Il sole 24Ore sotto il braccio. Ci sediamo. Vediamo passare splendide ragazze, in continuazione. Siamo due provinciali in una città europea. Ci sentiamo Totò e Peppino nella scena di «Totò, Peppino e la malafemmina» nella piazza del Duomo. Sasà “conza”, o “rolla”, due sigarette. Fumiamo, parliamo, commentiamo ciò che vediamo.

Ragazze, donne belle, aggraziate, vestite alla moda. Librerie di tre piani con commessi informatissimi e gentilissimi. Librerie con edizioni in lingua straniera. E stranieri residenti che camminano disinvolti con la valigetta di pelle.

Aspettiamo l’amica di Sasà. Non ricordo più neanche come si chiami. Non arriva. Telefoniamo: nulla! Decidiamo di andare a casa sua. Prendiamo un tram, un altro tram, un autobus e siamo in un altro Comune. Quanti chilometri? Quindici, o forse venti, tanti, in soli quaranta minuti. Il sogno d’ogni meridionale che passa intere ore ad aspettare autobus che non arriveranno mai puntuali.

Scendiamo al capolinea. Dinanzi a noi il Municipio. Sembra uscito da una puntata di Spazio 1999. Dall’altra parte, un albergo di dimensioni imbarazzanti, una costruzione super lussuosa da film americano e, di seguito, una serie interminabile di palazzi tutti uguali e dello stesso colore.

Lei abita ad un imprecisato numero civico che Sasà ricorda appena. Mezz’ora di cammino sotto il sole. Arriviamo a casa sua. Ci apre la nonna pugliese che ci guarda come se fossimo Testimoni di Geova. Sono le sedici, ci lascia fuori casa. Scendiamo, telefono a Manuela: appuntamento alle 17 e 30 davanti al Duomo, porta un’amica per Sasà (non incontrerò mai Manuela1).

Ci sentiamo chiamare da una finestra: è lei, l’amica di Sasà. È tornata, saliamo, bevo tre bicchieri d’acqua, sono disidratato. Sua nonna si siede in un angolo coperto del balcone e ci osserva mentre sorbiamo il caffè. Siamo digiuni e lei ci offre un caffè. Sono le 16 e 20, viene un’amica, scendiamo. Trenta minuti dopo, siamo nuovamente in Galleria. Ci lasciamo, anzi, ci lasciano: lei deve andare in palestra… la stronza!

Io penso: «18 mila e 500 lire di biglietti di tram e autobus, un pasto saltato, per vedere una «…» di sedici anni della quale mio cugino si è invaghito l’anno precedente e che adesso ci lascia attoniti e increduli sulle consunte palle del Toro. Ci guardiamo con Sasà, non commentiamo, ha afferrato al volo. Adesso abbiamo solo un pensiero: mangiare!

Entriamo da Mc Donald’s. Due pranzi standard (hamburger, tante patatine e una coca): 15 mila e 800 lire. Sasà tiene gli scontrini. Mangiamo di gusto.

Siamo due selvaggi che scoprono impacciati la civiltà. Non riusciamo ad usare pienamente il posto. Sasà si alza per cercare i tovaglioli di carta. Gira per il locale guardando in ogni angolo per scovarli, nulla. Seduto, da più di tre metri di distanza, vedo dove sono. C’è un distributore bianco che presume la conoscenza del suo funzionamento da parte dell’avventore. Lo indico a Sasà, mi capisce subito, è un genio. Ne fa razzia. È la sua, la mia, la nostra rivincita di tribali offesi dalla civiltà e dalla sua incomprensibile ovvietà. Non riusciamo, però, a trovare le cannucce. Scoprirò successivamente che sono nello stesso distributore dei tovaglioli. Me lo mostrerà involontariamente un’esile orientale fasciata d’abiti neri.

Mangiamo in fretta: è la fame. Gustiamo il pranzo. Siamo satolli e soddisfatti, veramente, e non per induzione o condizionamento ambientale.

Mentre Sasà va a compiere l’atto piccolo – un atto, forse, un po’ più grande, a giudicare dal tempo che ci mette, o non ha trovato il bagno? – mi accorgo di un’affascinante straniera dai capelli biondo platino. Sarà sulla trentina e sta davanti a me in fila per la cassa. Fuori dall’isola, le ragazze, se le guardi e gli piaci, ricambiano i tuoi sguardi e ti sorridono, non si offendono come da noi. Quante volte ho “abbordato” una straniera guardandola, loro dicono che solo noi siciliani lo facciamo in quel certo modo. La fisso e penso che mi piacerebbe avere una storia con una donna come lei. Una volta l’ho avuta, ma era bruna e incasinata. Però, le ho voluto bene. Abbasso gli occhi, Sasà è tornato. Lei è andata fuori. Ci alziamo, usciamo. La cerco con lo sguardo, è scomparsa, non m’importa veramente e continuo a camminare senza più cercarla.

Dentro di me rimane la sensazione d’averla già vista, di riconoscerla adesso, d’averla già incontrata. È stato il suo stesso rispondere ai miei sguardi guardandomi che me ne ha fatto convincere. Ancora qualche passo ed anche questa sensazione scompare, come un leggero velo che il vento solleva e porta via, lontano. A me basta, poi, saltare da una storia all’altra, senza troppa fatica. Una settimana, due, un mese e poi basta. Non cerco la donna della mia vita e, lo so, non la troverò mai. Sono un maudit2, e basta.

Sono stanco di ragazze “serie”, tranquille e borghesi. Non hanno mai fatto altro che umiliarmi coi loro soldi e castrarmi coi loro pensieri perbene.

Sono le 17 e 30. Trascino Sasà in una libreria di Remainders. Vi scopro libri che cerco da anni. Anche questa è Milano. Compro una corrispondenza Papini-Vallecchi (lire sei mila) e uno splendido «Gesù e Israele» di Jules Isaac (il primo testo mai scritto di cristologia ebraica). Spendo 21 mila lire. Mi son mangiato la cena. Non ho più soldi. Non riesco a comprare la «Vita di Galilei» pubblicata da Nardini e la «Vita di San Tommaso d’Aquino» del padre Spiazzi, domenicano. Ho visto sfogliato e odorato «Il dio di Freud» pubblicato dal Saggiatore. Costa troppo anche se è l’argomento della tesi che mi ha proposto il professor Bellante quando ho dato psicologia.

Esco contento, anche se con un lieve senso di colpa, dalla libreria. Come quando esci dal ristorante dopo aver ben mangiato e avverti quella gastritina un po’ fastidiosa. Ci fai poco caso, sei troppo sazio e troppo contento.

Decidiamo, all’unisono, di andare in via Montenapoleone, il salotto di Milano. Sasà ed io, lo scopriamo adesso, siamo vittime di quel sogno d’immorale agiatezza che è il film «Via Montenapoleone» dei Vanzina (se non erro).

Andiamo a cercare il luogo che incarna i nostri sogni di una vita agiata, “piacevole”, comodamente borghese.

Usciamo dalla Galleria, arriviamo davanti al Municipio e chiediamo al piantone di guardia di indicarci la strada. È vicina, ci assicura, pochi passi a piedi. Camminiamo ancora. Via Montenapoleone, leggo, eccoci. Sopra il nostro capo, una banderuola in legno coi caratteri in ottone. Entriamo nella via, esitanti, quasi in punta di piedi, come un musulmano in una moschea. Per strada c’è un set montato. Una modella si fa cogliere su una lussuosa auto. Le luci sparate, i flash, la gente che guarda senza troppa meraviglia: cose che succedono a Milano.

Cerchiamo i segni di un sogno visto, passivi, in seconda serata. Camminiamo un po’ delusi, le solite chiacchiere fra noi, un’occhiata vergognosa alle vetrine che espongono prezzi da mensile d’impiegato. Vedo una commessa in un negozio postmoderno di calzature. I suoi occhi sono specchi d’acqua, il volto è un ovale di madreperla, il corpo una silhouette che morbida si spiega verso il basso. S’accorge d’essere guardata, alza il suo sguardo verso di noi. Siamo dei ladri affamati di bellezza, fuggiamo.

Arriviamo alla fine della via. C’è un’altra targa uguale alla prima.

Non abbiamo ritrovato i nostri sogni, ma solo un’insultante, monotona ricchezza. Siamo dei fanatici che credono contro ogni evidenza, non si può abbandonare così un sogno covato per tanto tempo. Via Montenapoleone è per noi Milano. La “nostra” Milano. Camminiamo ancora. Siamo a piazza San Babila.

Vi sono in costruzione delle fontane avveniristiche. Mi fermo folgorato a guardarle. Mi perdo in quella esplosione di marmo grigio e bianco. Solidi geometrici, levigate forme deposte dal capriccio di un dio. Circondo la piazza con i miei passi. La imprigiono, la catturo con una ragnatela, una girandola di sguardi. È mia, la possiedo. In me le sue levigate bellezze. In me la sua aerea inconsistenza di marmo.

Un computer. Sasà si ferma a giocare.

Io sono ancora preso dalla visione, in me nasce adesso vergogna, sento la città che mi guarda. Lei lo sa che io sono un corpo estraneo al suo interno. Fra qualche ora, mi eietterà in una scheggia di ferro, con ruote pesanti di grasso e di strada.

Sasà si stanca subito del giochino. Riprendiamo a camminare. Propongo di andare a piedi alla stazione, sono le 20. Sasà è stanco, lo sono anche io. Torniamo a piazza Duomo.

In un angolo della piazza, c’è il Burgy, il Mc Donald’s dei poveri. Entriamo. Il locale è più sporco, le commesse più brutte e dai volti più stanchi, anche la clientela è meno piacevole, gli stranieri sono solo immigrati e non giovani con lo zaino. Compriamo quattro striminziti, asciutti hamburger. Usciamo.

Davanti a noi, fuori, gente seduta che mangia eccessive porzioni di riso, ancora fumante, in piatti di plastica, con forchette di plastica.

La città è splendida, sfolgorante di benessere, pulita. Questa gente puzza, ha una parlata strana (accenti del nostro Sud e di terre lontane, oltre il mare), la pelle scura, in mano come cibo la carità degli altri.

A Milano è facile diventare razzisti. Sono un cortigiano che cerca d’ingraziarsi questa città regina. I poveri, che altrove ho amato, qui mi danno fastidio.

Prendiamo la métro, ci smarriamo nei labirinti della città sotterranea. Sasà riesce a prendere la situazione in mano. Arriviamo alla stazione. Di sera è ancora più bella, i fari, le luci l’ammantano come veli. Preleviamo il bagaglio al deposito. Andiamo fuori.

A Milano, ci sono fontane per gli occhi e fontanelle d’acqua potabile. Mangiamo un po’ del nostro pasto frugale, fumiamo. Capisco solo ora perché in Albania la gente fumava tanto, è la fame, il fumo la fa passare un po’, solo un po’.

Siamo entrambi convinti che il nostro treno parta alle 21 e 45. Stanchi decidiamo di andare ad oziare dentro, sulle panchine. Scopriamo che sono le 21 e 05 e che il treno che ci serve parte alle 21 e 10. Corriamo e saliamo sul treno sbagliato. Non ci vogliono far scendere. Lo facciamo ugualmente mentre il convoglio comincia a muoversi. Si crea del panico per una sciocchezza. Due ferrovieri litigano per noi. Siamo a terra.

Il nostro treno è di fronte. Saliamo. Occupiamo in due uno scompartimento. Il treno per Palermo è semivuoto, nessuno vuole scendere al Sud. Diventiamo tristi. Torniamo a casa e il sogno si sfilaccia.

Ci facciamo, come due combattenti di ritorno dalla guerra, la promessa di continuare ad andare avanti, di lavorar sodo per scappare da Palermo, dal Sud e andare al Nord, a Milano, in quell’altra Italia che molti meridionali, prima di noi, hanno contribuito a costruire anch’essi con le loro braccia e la loro intelligenza.

Siamo insofferenti verso i nostri conterranei, razzisti. Parliamo. Le solite cose e l’amarezza… di essere alla periferia dell’Impero, dove nulla si muove e tutto è eterno, morto. Noi lo sappiamo, torniamo al Sud, alle stazioni vuote, alle facce note e spente, alle parlate dialettali, sonore e orgogliose, ottuse e cantilenanti. Torniamo come richiamati. Il treno procede, corre, troppo.

Il viaggio è monotono, solitario. Nessuno sale alle stazioni. Dormiamo sette ore di fila. Stiamo tornando a casa, noi che, in fondo, a casa cerchiamo di starci il meno possibile.

Si fa giorno, siamo al Sud, il vagone inizia a riempirsi. È gente solitaria, il volto scavato, scuro, triste, come noi.

Anche il sole è diverso. Torrido, violento, sa di fatica e di sudore. Il sole: unico signore sul deserto delle nostre speranze, sulle speranze della nostra gente, morte da secoli.

La sera prima ci ha colto un momento di disperata goliardia. Abbiamo selvaggiamente riso (e babbuinescamente) su alcuni versi indecenti scritti da una pia fanciulla di parrocchia che, «…inerte fiore fra le rocce…», chiedeva d’essere colta dal suo “lui”. Talvolta si è talmente stupidi da dire le cose più volgari senza nemmeno accorgersene. Abbiamo riso fino alle lacrime (cinicamente), liberamente sulla melma di pensiero, o di non-pensiero, o di pensiero molle, nella quale siamo nolentemente immersi. Aurea mediocrità, regola d’oro di questi arroganti profeti del nulla. Le parrocchie sono sentine e postriboli insieme, campi dove si coltiva la stupidità e l’idiozia generosa cresce spontanea. Luoghi di pseudo-misticismo e para-psicologismo deteriore che serve a giustificare una umanità senza spina dorsale né anima. Luoghi lumeggiati da costanti grigiori meridiani e, nell’incertezza dei contorni, ogni compromesso, di ogni tipo, si compie.

E noi, noi sì colpevoli, anche, di non gridare alto lo sdegno. Noi a recitare benevolenza con intima, lancinante vergogna. Noi taciturni e sconfitti, folli sognatori.

È giorno inoltrato, le ore passano lente.

Di tanto in tanto qualche momento di sonno ci coglie. Siamo svuotati, pieni di noia, di stanchezza, delusi, amareggiati. Sasà ha un volto tirato, triste. Neanche i conti fatti la sera prima lo hanno risollevato. Ha diviso tutto, sino all’ultima lira. Ha conservato tutti gli scontrini, anche quello del caffè che mi ha “offerto” ad Abano. Adesso, anche io ho “visto e creduto”: Sasà è un “corazziere” di razza.

Il treno è in ritardo, sono le 17 e 15, siamo a Palermo, a casa.

Elio, il padre di Sasà, muto e solitario, piantato come una lancia sulla banchina della stazione, ci aspetta. Mi accompagna a casa. Salgo le scale, entro, ho le chiavi, poso lo zaino, mi faccio una doccia e mi corico.

Sempre così i miei rientri: silenziosi e solitari.

Dormo tredici ore di fila. Al risveglio, tutta la stanchezza dell’incidente, del viaggio, delle interminabili   camminate e solo un desiderio, come un obelisco che si erge superstite di una città in macerie, un pensiero: voglio tornare a viaggiare, tornare a Milano, continuare a sognare e lavorare per una vita normale.

¿ FINIS ?

_______________________________________

1 È uno dei misteri di Milano il fatto che due persone che si conoscano, alla stessa ora, sulla stessa piazza, non riescano a vedersi.

2 Maudit = maledetto (fr)

 

 

4. La buriana

Perché se tu non ti occupi di politica

è la politica a occuparsi sempre di te, purtroppo

 

“Un sano ricordo dell’infanzia

è forse l’educazione migliore”

(Fedor Michailovic Dostoevskij)

 

«Perché devo far suonare questo coso di legno?».

Pensava Giacomino, fissando con assai poca benevolenza il suo violino. Eppure sembrava che stesse proprio lì fermo, ansioso di venire ghermito dalle mani candide di quel bambino per modulare dubbie melodie che avrebbero allietato i noiosi meriggi materni – eh sì, la noia dei ricchi poverini – e accresciuto, davanti a Dio, di meriti i tolleranti vicini e i famigli.

Sua madre insisteva:

- Il mio Giacomino deve saper suonare almeno uno strumento: è una irrinunciabile tradizione

di famiglia.

Ed ogni volta che lo ripeteva pronunziava le parole con studiata lentezza, come per assaporarle una per una. Poi taceva lungamente e lasciava così ai suoi fortuiti interlocutori il tempo di meditare selle grandi verità che aveva loro dispensato con tanta generosità. O almeno così lei credeva.

Schiacciato, quindi, dal peso della tradizione, Giacomino dovette rassegnarsi a scegliere fra i quattro strumenti di famiglia: il pianoforte del babbo, l’arpa della mamma, il violino della sorella Diana e il trombone del nonno.

E pensando, ingenuamente, che far suonare un “coso” più piccolo fosse più facile, secondo un ben noto principio scientifico che non poteva ignorare, optò con forzato entusiasmo, per il violino della sorella.

Qualche giorno dopo, seguendo tacitamente l’austera, quasi leopardiana, madre, si presentò, con la giacchetta della domenica, i calzoni corti e le scarpe lucide dal celeberrimo maestro Libero Toscanello.

- Il migliore del momento, cara -, aveva asserito languidamente ma con fermezza un’amica materna.

- Ecco il nostro, ehm, aspirante, ehm ehm, violinista – disse il maestro sfoderando uno dei suoi bei sorrisi di circostanza – bene… bene… be… ne! – concluse flettendosi velocemente sulle ginocchia con le braccia in avanti.

Poi si fermò assorto e perplesso a studiare l’infante.

Giacomino mortificato teneva gli occhi bassi inseguendo i bizzarri disegni delle maioliche del piancito.

- Io penso – riprese il maestro riemergendo dalla sua diurna meditazione -. Sì, io dunque

penso che… - indugiò – solo per cominciare, ehm, due orettine giornaliere potrebbero, ehm, essere bastevoli, in seguito, ehm, se il ragazzo mostrerà buona volontà, ehm ehm, si potrebbe anche arrivare a… -

Giacomino lo guardava implorante pendendo dalle sue labbra carnose e umide.

- A… - riprese sospendendo la voce -, ma sì, anche volendo a tre o quattro orettine o più al giorno, esclusi gli esercizi da fare a casa, naturalmente, ehm ehm ehm.

Giacomino ebbe un tonfo al cuore, la vita gli sembrava uno scherzo crudele e di cattivo gusto perpetrato da un giocatore di dadi ubriaco, la madre la perfida strega delle favole che la balia gli leggeva ancora, il maestro l’orribile orco che voleva divorare Pollicino. Girava nervosamente gli occhi intorno e tendeva le orecchie per udire le grida soffocate di bambini rapiti costretti a suonare di continuo enormi strumenti musicali. Era nello stesso tempo però anche sicuro che la bella fatina dai capelli turchini, che gli veniva ogni notte in sogno, lo avrebbe magicamente soccorso.

Ma in quel momento Giacomino ebbe solo la forza di sibilare un «Sì, va bene» che nessuno udì, neppure l’angelo sentiva sempre accanto e che pure pregava ogni sera.

Ed ora, fra l’incontenibile orgogliosa gioia della madre, la benevola indifferenza paterna, l’ostentata ammirazione della amiche materne e la ben retribuita pazienza del maestro Libero Toscanello, il nostro involontario eroe si trovava nella sua spaziosa e silenziosa casa, durante uno degli ultimi meriggi d’estate, davanti a quel “coso” ligneo, mirando ora la campagna che esplodeva fuori della finestra di casa, ora quello strumento di pena che era stato costretto a scegliersi.

Che fare? Eterna domanda d’ogni animo inquieto e di Cernyseskij in particolare.

La campagna o il violino? Obbbedienza-sofferenza o ribellione-gioia? Il dovere o il piacere? La Kultur o la Zivilisation? Accettare millenni di soprusi padronali e borghesi ipocrisie o con un coraggioso atto sovvertire l’ordine della storia e marciare verso il sole dell’avvenire?

Dopo essersi sprofondato negli abissi della sua tumultuosa coscienza, cercando una luce che lo orientasse nel difficile scelta, a seguito un profondo e sudato travaglio, intravide un timido bagliore e si decise a seguire ciò che una voce interiore sembrava prepotentemente dettargli. (1)

Chiamò allora i suoi compagni di gioco, infilò nello zaino di juta con rabbia il violino insieme a pane raffermo e formaggio olandese e, assaporando la gioia purissima che viene sempre dalla libertà conquistata, si diresse correndo verso i fitti boschi poco distanti dalla paterna magione.

E siccome sua madre gli aveva ripetuto, sino alla nausea, che un giorno quell’odiato violino gli sarebbe tornato assai utile. Verso sera, avvertendo l’umidità pungente della notte che s’avanzava, con gesto solenne e fiero, afferrò l’odiato strumento e lo gettò nel fuoco per scaldarsi.

Il legno era ben stagionato e una bella fiamma si alzò ad illuminare il suo volto ormai disteso e sorridente.

Nello stesso tempo, note di violino si librarono dalle fiamme riempiendo le solitudini montane di armonie musicali così meravigliose che mano d’uomo non avrebbe potuto mai produrre.

(1) L’interessante caso la riflessione e la discussione di alcuni dei più grandi moralisti e opinionisti del nostro tempo. Articoli e saggi, a nostro avviso assai interessanti, sono stati pubblicati dal noto cardinale Dionigio Testemassi sulla rivista di teologia morale “Casi di coscienza e di libertà”.

Lo stesso cardinal non più papabile, sempre fecondo, ha pure sull’argomento scritto il libro “Lo strano caso di Giacomino e del suo violino con piacevoli riflessioni sulla bontà dell’attuale governo che ha garantito e garantisce libertà e benessere a tutti gli uomini di buona volontà anche se comunisti”, Edizioni dello Ior.

L’audace pubblicazione teologica, per le tesi contenutevi giudicate non abbastanza allineate con l’odierno sentire del segretario particolare dell’attuale pontefice, ha suscitato la pronta e rispettosa risposta – ma nel frattempo il cardinal non più papabile è stato in via cautelare retrocesso sine die al rango di vice-parroco in prova a Camerlate Basso – dell’eminentissimo e reverendissimo cardinalissimo Franzis Joseph Scott Ratzingerald che, a quattro mani con un’agenzia di consulenza d’immagine, ha stilato un significativo ed essenziale documento di 600 pagine dal titolo “Contra omnes haereticos in Ecclesiae Dei qui scripserunt de casu Jacomini et violini eius”.

Che ha ricevuto l’immediato plauso dell’episcopato mondiale, anche se la reazione più accetta è stata in vaticano quella del cardinal mai papabile Salvatore Dei Giorni il quale ha entusiasticamente esclamato: «Ci voleva questa cosa sui violini! Il papa ha sempre ragione! Di papa ce n’è uno solo!». Ma la durezza delle accuse contenute nell’importante documento hanno spinto il cardinal non più papabile a lasciare il sacerdozio, la Chiesa e, cosa assai sintomatica, ad interrompere al “Messaggero der sor Antonio” del quale era “abbonato sostenitore benemerito”, a smettere di fumare e a convolare a nozze con la sua donna delle pulizie che, ha confessato, concupiva da tempo ocularmente.

Ad un giornalista, prima di far perdere le sue tracce, ha dichiarato: «Ci ho messo quarant’anni a diventare cardinal papabile e questo Ratzingerald di cardinale qua mi retrocede di botto. Sapesse i rospi che ho dovuto baciare. Basta, tento la fortuna in un altro campo: con la Chiesa mi è andata male».

Naturalmente questo gesto ha suscitato la pronta esecrazione di tutto l’episcopato mondiale e l’addolorata dichiarazione del solito cardinal mai papabile Dei Giorni: «Fare questo al papa… Che cattivo, io non l’avrei mai fatto. Io voglio bene al papa e vorrei sempre stare con lui in Vaticano, magari a gare il vice-papa».

Infine, una nota del portavoce della Santa Sede il dottor Navarco y Allé Allé ha chiuso d’autorità la polemica: «Adesso zitti tutti. Il papa vuole riposare un po’».

Ma la discussione sviluppatasi ha coinvolto per diversi giorni tutto il Paese e ha suscitato pure un ampio dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio, in qualità di “unto”, è stato quindi invitato dalla sua maggioranza a riferire alle Camere in diretta Tv a reti unificate.

In un discorso, a detta dei suoi portaborse alle Camere, «oggettivamente assai ispirato e molto molto molto alto», il capo dell’esecutivo, dopo avere ricordato le oggettive colpe del precedente regime collettivista, pur se fra le esagerate proteste dei due membri dell’opposizione, ha invitato ufficialmente a nome e a spese del governo il papa a passare un fine settimana con lui in una sua villa a sua scelta.

L’intervento dell’Unto, come ormai tutti nel Paese lo chiamano, è stato unanimemente giudicato da tutte le componenti della maggioranza «bello», «molto bello» e «bello bello bello!».

La fine del discorso, recitato senza far vedere che leggeva e cercando di dare un certo senso alle parole, come ha giustamente commentato un grande professionista della comunicazione Emidio Fede, è stata infatti salutata da uno scrosciante applauso durato ben cinque ore da parte di tutte e due le Camere, del gabinetto del custode, del giornalaio lì vicino – che per mantenersi neutrale vende solo giornaletti porno non schierati – e di un carabiniere che si è posto subito sull’attenti con

supremo sprezzo d’ogni probabile pericolo da parte delle milizie bolsceviche e si è prontamente portato la mano alla visiera per parare uno spunto dei soliti terroristi del sindacato.

Gli efficientissimi servizi segreti “ammerikkani” – come li chiamano le false modelle russe della nuova intelligence russo-cinese che abitano con loro – dopo aver seguito la diretta televisiva, hanno segretamente informato con un fax il governo.

Il presidente Usa, data l’imminenza della sua ricandidatura alla Casetta del Burino Bianco (come si chiama ormai la storica residenza dopo aver accettato, per problemi di cassa, uno sponsor ciociaro di latticini), prendendo spunto dal pericolo rappresentato dalle mafie mondiali per le democrazie denunciato dal suo amico e omologo italiano, ha annunciato in mondovisione il bombardamento della Sicilia, «allo scopo – ha dichiarato – di sconfiggere Cosa nostra e tutte le sue filiazioni e affiliazioni politiche etc.».

Il governo italiano, come da protocollo, si è prontamente schierato con l’alleato e amico americano. Il governatore dell'Isola, invece, ha subito organizzato un pellegrinaggio di tutto l’esecutivo regionale al santuario della "Bedda Matri, sarvaci Tu!"

Il comando americano ha anche fatto sapere che l’intera operazione militare verrà sponsorizzata dalle patatine “Frigg” e dalla “Cola Cola”. Spot pubblicitari interromperanno, quindi, a intervalli regolari i bombardamenti aerei.

5. Madame Regina

 

«False prophets will arise and provide great

signs and portents, enough to deceive even elect,

if that were possible. Look! I have given you warning»

(a certain Jesus Nazirite)

 

«Let the astrologers come forward now and save you,

the star-gazers who announce month by month

wath will happen to you next»

(Isaiah Prophet)

 

Dopo ripetuti assalti, Madame Regina, cartomante, sferomante, parapsicologa metaspirituale, che prende ap­puntamento col 166 (già 144), mi concede un’inter­vista più che esclusiva. Una voce calda, mielata, quasi surreale mi comunica l’indirizzo al quale m’attende un solerte portiere.

Muto come la crudele Sfinge, e forse ancor più brutto e felino, mi digita, con studiata lentezza, il numero sull’untuosa tastiera e mi indica una solitaria cabina coibentata. La voce mi trema.

– Chi è? – gracchia una voce stridula e strascicata.

– Sono il… ehm… giornalista per l’intervista. Ricorda? – rispondo quasi soffocando.

– Ah, sì, salisse! Ottavo piano attico! – riprende.

– Subito – dico mentre sudo e cerco di trattenere la cornetta con tutte e due le mani sudate.

Esco velocemente e il portiere, sempre più felino e brutto, mi blocca imperioso con un bastone di scopa.

– Dove va? – m’interroga –. Sono dieci euro: Madame Regina ci ha il citofono a scatti.

– Glieli do non appena scendo – mi tocco la tasca e mi accorgo che ho solo un euro per il ritorno in autobus.

– No, ora!

– Si fidi – lo prego –, glieli do dopo.

– Io sono qui fino a ‘stasera e c’è solo un’uscita: questa! – mi urla piantandomi addosso i suoi occhi bovini.

– Posso prendere l’ascensore? – chiedo timidamente.

– No! – mi alita in faccia –. Lei, anzi, tu non hai pagato. E quindi: ottavo piano a piedi!

Non oso rispondere e, silenzioso come agnello al macel condotto, mi avvio mesto per le scale. Arrivo, infine.

Una targa d’ottone, lucida, quasi abbagliante, m’accoglie gelida. Recita:

 

Madame Regina Stella

Cartomante – Sferomante – Geomante

Videomante – Radiomante – Grafomante

Parapissicologa Metaspirituale

Dottoressa in Prano-post-ipo-terapia Metacorporale

Ambasciatrice Spirituale Unica Autorizzata

di San Giovanni Rotondo

Assessore Regionale Honoris Causa

alla consulenza e preveggenza finanziaria

Libera Docente dell’Università Libera “Du Capu”

Gran Croce Uncinata dell’Ordine Equestre

Monrealese di San Khassis

Gran Sacerdotessa Associata della Loggia

Meridionale distaccata e semicoperta della Bruschetta

 

I titoli sono veramente tanti, alla fine, quasi a terra, chiude il tutto un gigantesco “ETC” in caratteri gotici.

Premo un vistoso e imbarazzante pomo argenteo e all’interno si sente esplodere un concerto di campane, forse Brahms. Alla fine del secondo movimento, un adagio un poco mosso ma con brio, la porta ruota su se stessa e mi appare innanzi spettrale, ferale, un maggiordomo in spezzato e camicia rosa. Il tutto è completato da una selva di ispidi peli che fuoriesce incolta dalla camicia e che gli adorna il volto come una sciarpa.

– Madame ti aspetta – mi dice con malcelato sussiego.

– Grazie – rispondo chinando istintivamente il capo (generazioni di schiavi, servi, domestici, barboni, sudditi di ogni risma, operai mi accompagnano benigni e tristi in quell’usuale gesto. Siamo una lunga genia abituata a dire solo di sì).

Lo seguo e vengo introdotto in una stanza dove, dietro un’enorme scrivania rosso fuoco, sotto una lattea benedizione papale, siede lei: Madame Regina Stella.

Alla sua destra, una statua d’argento a grandezza quasi innaturale di Padre Pio da Pietralcina. Alla sinistra, un Sacro Cuore di Gesù in gesso bianco che sanguina e lacrima insieme di continuo, ai piedi della statua, una vaschetta che raccoglie i due liquidi separatamente e che li mette nuovamente in circolo. Da dietro la statua spunta un cartellino: Made in Vatican.

Cerca di mettermi a mio agio:

– Che vuoi? Ho cinque minutini. Anzi, un attimino.

– Io volevo – esordisco –, visto che il giornale d’estate ha più spazio perché i redattori sono in vacanza e, cioè, siccome se non porto nulla d’importante mi mandano via, anche se collaboro diciamo gratis da sei anni e non ho ancora preso un euro… Insomma, io volevo chiederti…

La pranomediatica si produce in un mirabile attacco di tosse canina.

– …cioè: chiederle… – mi correggo ormai avvertito.

Allarga un sorriso sino alle orecchie come la moglie di un presidente americano.

– …se potessi – continuo – sapere, ecco, visto che adesso il Palermo se lo sono comprato quelli coi soldi e che la gente vuole saperne di più, ecco… vorrei sapere qualcosa sul futuro, in pratica, sulla nuova stagione di calcio…

Mi fissa per un credo e poi tira fuori un bisunto mazzo di carte variopinte da un cassetto nascosto sotto il tavolo. Le dispone per lungo, ne estrae una dal mazzo e mi guarda sorniona negli occhi, arrossisco.

– Ti do una notizia che a te ti fanno un monumento nel giornale se te la pubblichi – mi dice mostrandomi un’aquila imperiale che divora uno scudo bianco-celeste.

– Il prossimo anno – continua ispirata – il Palermo va nella serie A e può molto darsi che ci vince pure lo scudetto e la coppa – conclude tronfia.

Si alza dalla poltrona di ghepardo, aggira sinuosamente il tavolo, mi ghermisce con un braccio, mi poggia lieve una mano inanellata sull’omero e mi solletica un orecchio: – Scrivitelo, sennò te lo scordi.

Senza neppure ringraziarla, inebriato dallo scoop, volo verso la porta, mi precipito giù per le scale, dribblo agilmente l’irato portiere, ancora più brutto e felino, oltre che ormai definitivamente bovino, mi ritrovo in strada e penso di avere in mano il notizione dell’anno. Sono felice, anche un po’ contento.

Salgo sull’autobus e mi accorgo solo ora che Madame, forse mentre mi accompagnava alla porta, mi ha sfilato il portafogli dalla tasca. Per discrezione, penso, ha voluto ripagarsi da sola. Scendo e faccio i due chilometri di strada che mi separano dal giornale a piedi.

È la stampa bellezza, avrebbe detto il giornalista Humphrey Bogart.

 

Ps: vivamente e volentieri consiglio il volume di Sasà Insignati, “Questo nostro meraviglioso Palermo. Ricordi, pensieri e auguri”, Edizioni Palla & Piede, Palermo-Viale del Fante 2003.

  

 

Le raccomandazioni, come gli esami, 
non finiscono mai

 

- Pronto?

- Sì.

- Casa Vattelapesca?

- Desidera?

- Lei è la professoressa Tal dei Tali che insegna nella classe X della scuola Y?

- Certo -, risponde quasi fiera la ragazza.

- Mi scusi se la disturbo, io sono la nipote del collega di suo padre…»

La giovane insegnante, che fino adesso ha mantenuto un espressione quasi di disturbata indifferenza, cominciando ad intuire il motivo della conversazione, aggrotta lievemente le sopracciglia, imposta il tono della voce e comincia giocherellare nervosamente col filo del telefono.

- Suo padre – dice l’altra - le avrà sicuramente parlato del signor Caio. Tutti lo chiamavano il “dottore del brodo” perché parlava sempre e, dicevano, si dava delle arie, si sentiva un professorone. Si ricorda?

- Veramente no -, mente.

- Ma come… se ogni volta timbrava per suo padre in ufficio il cartellino quando lui la accompagnava a scuola o usciva prima perché lei stava male. Quanti caffè non gli ha offerto e quanti favori non gli ha fatto. Una volta gli ha pure prestato dei soldi perché lei doveva andare a fare il viaggio d’istruzione a Vienna. Si ricorda adesso?

Quasi umiliata cede:

- Mi sembra di sì, adesso.

- Senta, io ho un figlio, Z, che quest’anno ha fatto il salto nella scuola dove lavora lei, cioè ha recuperato tre anni e ora si presenta per la maturità. Lei lo sa che non è un tipo molto studioso. Infatti, l’ha pure sospeso una volta.

La ragazza a poco a poco scivola nel suo ruolo di docente:

- Suo figlio, che ricordo benissimo, non l’ho sospeso perché s’impegnava poco ma perché è un gran maleducato. Una volta...

- Semmai ineducato – la interrompe -. Ma adesso che va a pensare – dice la donna che non ha interesse a che la giovane professoressa s’innervosisca -,  ormai la scuola è finita, acqua passata. Allora, gliela fa questa carezza a mio figlio? Gliela mette qualche buona parola e magari lo aiuta quando fa il compito? Magari può dire agli altri insegnati che è suo cugino così gli fanno le domande facili.

La ragazza freme d’indignazione:

- Signora, io mi sono iscritta alla facoltà di giurisprudenza a diciassette anni, mi sono laureata a ventidue col massimo dei voti e non ho mai telefonato a nessuno per farmi raccomandare. Ha capito? Io queste cose non le faccio. Si vergogni.

- Capisco che magari non è abituata, ci pensi, però. Poi, magari, le facciamo un regalino -, fa l’altra conciliante con tono quasi materno.

- Ci ho già pensato - dice brusca la ragazza e riattacca.

La sera, avvolta dal fumo della minestra, ne parla a tavola. Racconta la telefonata, la mamma le da, naturalmente, ragione:

- Ma la gente non ha proprio dignità commenta –

Il fratello, che è di maturità, la guarda in tralice, ma quel che pensa non si può riferire, e il padre, chino sul piatto, sembra quasi non ascoltarla.

La giovane docente si produce allora in una riflessione ad alta voce sul pericolo che una mentalità di questo tipo, che definisce clientelare, inquini la vita delle istituzioni e della società. Insomma, fa quasi un arringa su «questo cancro che rischia di uccidere la vita democratica del nostro Paese».

Il padre, non appena lei termina, alza lo sguardo, si aggiusta gli occhiali, la fissa e sbotta:

- Ma secondo te, se non era per l’onorevole della Dc che ci metteva una buona parola e mi faceva vincere il concorso, noi questa sera che ci mangiavamo?! E, per questo, tu vuoi punire quel povero ragazzo?

Si alza e, in segno di protesta, se ne va in esilio in cucina a mangiare col cane.

 

 

 

 

A Beppe e Paolo
 

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