Nunzio Pagliarello

 

 

 

 

I Dieri di Baulì

 

 

 

 

Memorie della Val di Noto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

 

30 agosto 2004
Al Direttore del Corriere degli Iblei, Palazzolo Acreide

 

Caro Direttore,

sono un palazzolese di novanta anni abbonato del Suo bel  giornale. Sono lontano da Palazzolo da circa sessant'anni e attualmente vivo in provincia di Firenze.
Leggendo gli ultimi numeri del Corriere degli Iblei ho appreso con grande commozione della prossima  costruzione  di un monumento agli emigrati, a cui voglio dare un contributo anch'io, nel mio piccolo. Plaudo a questa bellissima iniziativa che ha lo scopo di rinforzare i legami fra i palazzolesi nel mondo.
Apprendo dal suo giornale altre iniziative, che secondo me  rendono il nostro paese moderno e "internazionale". Il recente raduno delle Forze di Polizia Europee ne è una dimostrazione.
Ma quello che sta rendendo veramente moderno e civile, a mio avviso, Palazzolo Acreide è la recente costituzione dell'Ufficio Anti Racket. Credo che anche l'associazione Giuseppe Fava esprima questa voglia della nostra comunità di darsi una fisionomia moderna ed esemplare.
Come potrà rendersi conto, nonostante i decenni di lontananza, l'affetto che mi lega alla mia terra è intatto. Quante cose potrei raccontare di Palazzolo della mia gioventù...
La ringrazio per l'ospitalità, e salutandola, tramite il suo giornale, saluto tutti i palazzolesi.

Nunzio Pagliarello

 

30 settembre 2004
Al Direttore del Corriere degli Iblei, Palazzolo Acreide

 

Caro Direttore,

 

sono quel palazzolese di cui ha gentilmente pubblicato la lettera nel numero scorso e di cui molto la ringrazio. Numero del suo giornale che peraltro non ho ancora ricevuto, forse per un disguido postale. Comunque mi ha telefonato mia sorella, emigrata in Australia, di anni 85,  per dirmi che mi aveva letto.  Grazie ancora.

Le invio se permette questo e forse in futuro altri miei ricordi che, qualora  ritenesse degni d'interesse per i lettori, potrà un giorno pubblicare nel suo  giornale.

 

Cordialissimi saluti.

 

Nunzio Pagliarello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Dieri di Baulì

 

 

 

Leggendo di briganti su uno degli ultimi numeri del Corriere degli Iblei mi è improvvisamente tornata alla memoria una storia  che raccontavano i nostri vecchi quand’ero piccolo. Avrò avuto undici dodici anni allora -   adesso ne ho novanta - quando mi portarono a vedere un luogo veramente impressionante Si trattava  dei cosiddetti “Dieri di Baulì”, vale a dire le due “fortezze” della contrada Cava di Baulì – quella che si trova pressappoco a 4 km da Palazzolo. Chissà se ci sono ancora? In  un posto del diavolo, una cava profonda, si fronteggiavano il Dieri Piccolo e il Dieri Grande, alti, scavati lungo le due rocce scoscese, ma a distanza di settanta, ottanta  metri l’uno dall’altro, cosicchè fra di loro si poteva volendo, a voce spiegata, comunicare. Dislocati com’erano quasi nel vuoto, i due rifugi erano militarmente inattaccabili, a patto però che fossero presidiati costantemente e congiuntamente. In essi si erano acquartierati i briganti di Baulì. Per decenni il loro rifugio fu inespugnabile.

Più volte i “Compagni d’Arme”, come venivano allora chiamati i poliziotti del Regno Borbonico, si erano avventurati a tentare di stanare  i famigerati inquilini, ma erano stati sempre respinti, e disastrosamente per i soldati di Franceschiello. Le loro spingarde nulla potevano contro il fuoco incrociato che veniva ora dall’uno ora dall’altro Dieri.

Mi ricordo anche del soprannome favoloso, e molto spaventevole, che avevano due di questi fuorilegge: “Occhiu di vitru” (occhio di Vetro) e “Mussu di Taugghja” (muso di bottiglia di terracotta). Costoro probabilmente furono gli ultimi superstiti di una ciurma che aveva razziato imperturbata per anni la zona. Forse furono gli inquilini più longevi dei due Dieri, in ogni caso gli ultimi. Fatto sta che non morirono di vecchiaia perchè riusci a porre fine a questa storia un ragazzino di cui non ricordo il nome, che aveva saputo della taglia spiccata a Siracusa sulla testa di quei due. Con la scusa di portar la ricotta fresca a “Occhio di Vetro” nottetempo lo uccise. La storia narra che mentre mangiava gli calò sulla nuca  un colpo d’accetta. Poi mise la testa in un sacchetto e camminò tutta la notte a piedi fino a Siracusa per andare riscuoterne la taglia. Fu facile per i Compagni d’Arme catturare l’altro, “Mussu di taugghja” rimasto solo.

Questo almeno è quello che io ricordo mi raccontavano gli antichi.

 

 

 

 

 

 
 
Zu’ Pietro

 

 

Non so se nella nella contrada Santa Lucia, il piccolo borgo di masserie a quattro km da Palazzolo Acreide, qualcuno ricorda ancora, anche per sentito dire,  Zu Pietru. Io da piccolo lo conobbi, lui era già vecchio, con la cornetta  all’orecchio, perchè mezzo sordo. Era un personaggio di grande “rispetto” nella zona. Ma non nel senso che oggi si intende quando si parla di cose siciliane. Voglio dire che tutti si rivolgevano con grande considerazione  a Zu Pietro, ora per controversie legali, ora per consigli o  per dubbi di cultura. Passava insomma per l’intellettuale, anche se fino all’età adulta era stato del tutto analfabeta.

Viveva da solo, come un prete. La sua ampia e comoda casa di scapolo fu per anni e anni una specie di municipio, di club,  fra quelle masserie.  Ci si andava per consigli, ma anche per la sua generosità, per i piccoli regali in denaro per i più bisognosi. Era  filantropo, anche se  un po’ strambo.  Famosa era diventata la  campana di vacca, dove soleva tenere  nascosti i suoi soldi. Quando era il momento di prelevare  denaro, cacciava tutti via fuori di casa,  prima di tirar fuori il campanaccio dal nascondiglio segretissimo che mai rivelò a nessuno. Fino alla morte e oltre il famoso campanaccio  non si riusci mai a scovare.

 Zu Pietro teneva corsi serali di alfabetizzazione a tutti gli abitanti di Santa Lucia, grandi e piccini. Si può dire che fu il maestro elementare di tutti. Mio padre, io stesso, abbiamo appreso i primi rudimenti del leggere, scrivere e far di conto in questa  scuola privata che aveva come fondatore Zu Pietru e con lui stesso per preside e per maestro.

Ma la cosa più curiosa era di come fosse riuscito a diventare, da contadino analfabeta, personaggio così acculturato. Vale la pena di raccontarlo in poche righe.

Immaginatevi due giovani  fratelli e una sorella che vivevano da soli, lontano dai genitori e da Palazzolo in quelle contrade. Un giorno fratelli, tornando a casa dal lavoro in campagna si accorgono che la sorella improvvisamente è sparita. Rapita? Non era bella, anzi piu’ttosto bruttina questa ragazza,  ma chissà.  Hanno però un sospetto. Forse sanno dove trovarla. Salgono sul tetto del cortile di una masseria vicina e intravedono dalla finestra la sorella pacifica all’interno di quella casa estranea. Lei non si accorge di loro, loro zitti se ne vanno. Era stata condotta in casa da un borioso giovanotto, solitario, che loro ben conoscevano. Era una bravata. Una “sciammaricata” per usare un termine forte, che adesso non conosce più nessuno. Una bravata violenta, carica di conseguenze.

Se ne ritornano a casa, l’indomani continuano a lavorare nell’aia, rimurginando  il da farsi. Come comportarsi. Considerate che allora le ragazze portavano il fazzoletto in testa, come ora le islamiche portano il chador;  erano molto sottomesse, e  e per molto meno di quello che era capitato si rimaneva “disonorate” a vita.

 

Com’è, come non è,  al tramonto i due fratelli, mentre spagliavano ancora nell’aia col forcone, vedono passare il borioso  giovane, in tenuta da caccia con tanto di fucile. Lui non sapeva che loro già sapevano.  Lui saluta, e ha l’improntitudine  di fare anche l’ironia. Li saluta e dice della recente pioggia, che ha fatto spuntare nel terreno i “murruna” dell’erbetta nuova ( i morroni dell’erbetta sarebbero le piccole corna dell’erba che spunta, o anche i cornini  dei vitellini da latte). L’allusione era chiarissima! A questo punto tutto succede  in un lampo. Il più grande, Pietro,  dà un colpo di tridente in testa allo smargiasso cacciatore e lo atterra, gli sfila il fucile e fa fuoco uccidendolo sul colpo. L’onore è lavato.

Parte e si incammina  piedi fino alla pretura di Noto, a costituirsi. Racconta il fatto, consegna il fucile. Lo imprigionano, ma curiosamente al processo viene condannato solo per il porto abusivo d’armi (il fucile dell’ammazzato), non perl’omicidio,  che’ a quei tempi, per il motivo per cui era stato commesso (onore) si veniva senz’altro assolti.

 

Zu Pietro passò tre anni nelle Patrie Galere, ove ebbe il tempo di imparare a leggere e a scrivere e a studiare perfino con gran profitto materia giuridica. Poi ritorno a casa e fu per il resto dela sua vita uomo integerrimo e gran lavoratore. Sua sorella ando’ sposa ed ebbe figliolanza.

A noi piccoli rimaneva in mente una filastrocca con cui la si ricordava, questa sorella.

“Raffiella, longa a mmàtila

e cu li jammi stuorti

l’uocchi comu ‘i persichi

e a vucca di la morti.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La barba del barone

 

 

Quando ero bambino nella contrada di Santa Lucia si potevano vedere i pali del telefono che il barone Judica aveva fatto piantare, tanti anni prima, prima per comunicare fra la sua casa di campagna e quella di Palazzolo. Ma ai miei tempi tutti sapevano che quella linea telefonica non funzionava più. Il perché non l'ho mai saputo.

Mi ricordo di come funzionassero invece molto bene  i lavori nelle masserie del barone Judica. Allora la campagna palazzolese era molto popolata, non come ora. Si lavorava duro, ma non posso dire che si campasse di stenti. 

Mi ricordo dei mestieri antichi, ormai scomparsi. Persino il ricordo dei nomi di questi mestieri ormai si è perso. Gli “urdinari”  per esempio erano gli addetti a guidare i convogli di muli nei viaggi lungo le mulattiere fra un un paese e l'altro. Poi vi erano i  vaccari, i campieri (le guardie private a cavallo), i carrettieri, ingaggiati per  i carretti di proprietà del barone. E così via.

Mi ricordo di un buffo episodio che capitò fra il barone  Judica e un suo carrettiere. Era un giovane di trentacinque anni, con una bella barba nera, lucida, fitta e lunga più di quella che il barone stesso fieramente portava. Judica avra allora già passata la cinquantina.

Forse vi era una certa gelosia da parte barone per la barba del carrettiere, per cui un bel giorno, non potendone più,  gli ordinò di levarsela quella barba. Chi credeva di essere? L'autorità del padrone  non ammette discussione, non restava che ubbidire.

E invece Giuseppe (questo era il nome del carrettiere) non ubbidì.

Dopo qualche giorno, al cospetto di tutti i lavoranti della masseria, e ostentando un "nerbo" fra le mani,  il barone  ordinò all'uomo di seguirlo nelle sue stanze perché “gli doveva parlare”.  Era chiaro a tutti che era intenzionato a dargli una lezione. Li videro salire per le scale e venne chiusa la porta a chiave.

Quel che si dissero non lo sa nessuno.  Pare che però, quando furono soli, il carrettiere tirò fuori dalla tasca una catena da finimento di mulo e, afferrato il barone e calatigli le braghe, fu lui a impartire la lezione.

Certo, non vi erano testimoni, chi può dire come siano andate veramente le cose?

Ma dal fatto che il barone dopo si preoccupasse di chiedere ai suoi contadini se avevano sentito grida venire dalla stanza, si capì che qualcosa non era andato come nelle tradizioni.

Non so se il valente carrettiere che aveva salvato la sua barba rimase ancora a lavorare per Judica, certo è che fu sempre molto stimato ammirato nel paese per gli anni avvenire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il piccolo archeologo

 

 

 

Da ragazzino l’’archeologia era una mia mania solitaria che non condividevo con nessuno dei miei nove fratelli.

Tutte quelle storie di fantasmi, di tesori sepolti, di incantesimi si mescolavano con la curiosità che destavano certi luoghi dai nomi veramente evocativi.

Si prenda per esempio la Sella di Castelluccio, dove davvero la montagna ha la forma della groppa di un cavallo.

Quello era un posto di ruderi e di antichità  dove mi capitò un fatto strano.

Un giorno, mi ricordo, mia sorella Idria aveva avuto per tutta la notte mal di pancia.  Mia madre mi mandò a cogliere della ruta. Di quest’erba non era difficile trovarne, anche vicino casa nostra, ma presi per scusa quella piccola commissione per arrivare fino al Castelluccio, uno dei miei posti archeologici preferiti. In quel luogo, solitario e abbandonato mi imbattei in una scala di pietra che iniziava rasoterra per poi scendere entro un rudere di casa mezzo sepolto. Non c’era nulla d’interessante su quei vecchi gradini coperte di licheni. Appoggiai l’orecchio sulla pietra, da dove sembrava venisse un suono, e quale non fui la mia meraviglia - e il terrore - nel sentire distintamente lo scalpitare degli zoccoli di un cavallo al galoppo. Fuggii a gambe levate. Non ricordo se lasciai lì persino l’erba che mi era stato ordinato di cogliere.

 Un’altra volta, sentendo raccontare dai grandi delle antichità di Noto Vecchia, i ruderi della città distrutta nel terribile terremoto del 1693, – però ero grandicello ormai, avrò avuto 15 anni – volli andare a esplorare il luogo.  Vi giunsi a piedi.  Era un tardo pomeriggio e mi aggiravo tutto solo fra quelle macerie ricoperte dall’erba. Trovai quasi subito un fischietto di terracotta, di quelli scolpiti. Feci per suonarlo e il fischio echeggiò a lungo, solitario, fra le coste contrapposte della vallata. Ma in maniera così curiosa, così lungo e amplificato, da avere un non so che di lugubre. Gettai via il fischietto e corsi via a gambe levate,  terrorizzato.

Un’altra volta poi mi misi a scavare dentro una di quelle  grotte che si aprono in alto su quelle coste scoscese di pietra bianca  che dicono siano state tombe o abitazioni già nella preistoria, come ce n’è tante per esempio a Pantalica. Smossa  appena un po’ di terra trovai subito una mandibola umana con tutti i denti bianchi perfetti, bellissimi ancora attaccati. Presi una “ianca” (un molare, il più bello) me lo misi in tasca e ritornai a casa. La notte ebbi un incubo: sognai uno scheletro, grandissimo, alto come un albero che mi rimbrottava e mi ordinava di andare a rimettere al suo posto quello che avevo rubato. Cosa che feci subito l’indomani stesso. Ma non ebbi più animo d’entrare nella grotta. Scagliai da lontano il povero dente dentro la grotta e fuggii a gambe levate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leggende di magia

 

 

Quando ero piccolo non esisteva né radio né televisione. La sera si andava a letto presto, ma dopo cena i grandi raccontavano storie, di cui qualcuna m’è rimasta per sempre in mente. Certe sere il discorso prendeva la piega  dei racconti favolosi, di magie e di “antichità”. Quante volte sentivo dire, per esempio, che in certi luoghi, in certe ore del giorno – a mezzogiorno o a mezzanotte – apparivano gli spiriti.

Lo Zu’ Pietro, quell’uomo saggio di cui ho già parlato, soleva dire che nella contrada detta degli “Ariazzi” ogni lunedì di un  mese che iniziasse di lunedì, allo scoccare della mezzanotte, iniziava nell’oscurità una fiera. Si potevano vedere allora, alla luce bianca della luna, venditori in costumi antichi, che offrivano a chi aveva il coraggio di entrare, anzi regalavano proprio, monete d’oro e gioielli. Venditori che ti pregavano, imploravano quasi, di accettarli quei loro doni. Nessuno di quelli che c’erano andati, diceva Zu’ Pietro misteriosamente, s’era mai fidato di accettarne alcuno. E avevano fatto bene.

Il posto si chiamava anche “’u Culuòruvu”,  cioè il Serpente. Forse altri lo conoscono come Primosole, perché situato nel punto più aperto a est di Palazzolo, dove all’alba, in lontananza, si vedono spuntare i primi raggi di luce, direttamente  dal mare. 

Sempre lungo mulattiera che porta a Santa Lucia - la Reggia Trazzera, come era denominata allora ufficialmente - vi è una località che, passando da Testa dell’Acqua, porta a Noto Antica. Il posto si chiama propriamente Munti Alleriu  ed è situato fra Mandrie Alte e la Mènnula di Santa Lucia.

Anche qui si raccontava una storia di incantesimi che tutti nella zona sapevano bene. In questa altura l’ultimo principe saraceno, prima della sconfitta aveva sotterrato tutti i suoi fedeli soldati, anche i superstiti, che aveva ucciso personalmente uno a uno, e anche la sua sposa. E dentro aveva infine sepolto tutto il suo tesoro. Forse poi si era ucciso anche lui.

Secondo la tradizione il tesoro poteva essere recuperato facilmente. Sarebbe stato del cavaliere avesse superato tre prove di destrezza e consisteva in questo: girando al galoppo attorno al cocuzzolo di Muntalleri il pretendente avrebbe dovuto nell’ordine: mangiare un melograno intero, ma senza farne cadere a terra neanche un chicco; bere un bicchiere d’acqua, masenza versarne nemmeno una goccia; infine mangiare a uno a uno i chicchi una spiga di grano senza farne cadere nessuno. Credo che il tesoro sia lì, ancora intatto, ad aspettare il suo valente cavaliere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a Saialemme

 

 

 

“Per levare la sete a Siracusa senz’acqua ci vorrebbero almeno cento pozzi!”

Così dicevano ai tempi antichi  i siracusani, circondati  da ogni parte dal mare ma assillati da sempre da una atavica sete. Poi qualcuno, non si sa chi, tirò su l’aquedotto. I grandi lo chimavano a Saia a Lemme (l’acquedotto di Lemme o di Alemme o qualcosa del genere). Ma a Saialemme nessuno ricordava chi l’avesse costruita. Si sa solo che partiva da Sortino per portare acqua dolce alla città di Archimede.  Da Palazzolo a Sortino da ragazzo ci andavo spesso a piedi,. Il viaggio, di buon passo, durava due ore e mezzo. Ricordo che un giorno, recandomi con mio padre a Sortino, siccome mi chiamo Nunzio chiesi di vedere la madonna della Nunziata nella chiesa madre di Sortino. Era bella,con tutte le decorazioni barocche, ma era la copia della statua della Nunziata di Palazzolo, che comunque era ancora più bella. Sempre quel giorno mio padre mi condusse a vedere anche l’aquedotto meraviglioso. Mi spiegò che era fatto di “bituma” e “pizzulama”, un impasto fortissimo a base di calce e pezzi di  terracotta macinata, il cemento di allora. E vidi che ogni cento metri aveva un pozzo di drenaggio e sedimentazione.

 

Sul misteriosissimo costruttore di questa mirabile opera d’antica ingegneria c’era una leggenda che aveva per protagonista un prete, dedito alla magia, in combutta con gli spiriti.

Questo prete aveva a servizio un ragazzo, l’aveva raccolto trovatello, che gli faceva da garzone, da cherichetto e da sacrestano. Il prete possedeva una casetta in una sua campagna e dentro questa casetta si mormorava che si appartasse spesso, indaffarato in non si sa quali traffici. Nella casetta proibiva a tutti d’entrare, poteva metterci piede solo e soltanto lui. Un giorno, che doveva assentarsi per andare per un affare urgente al paese, lascia il ragazzo a far la guardia alla casetta, ma proibizione assoluta di entrare e di toccare alcuna cosa.

Appena il prete si allontanò, fu subito premura del ragazzo entrare nella casa e mettersi a toccare un po’ qua e un po’ là. Vide sopra il tavolo una bellissima e lucida tabacchiera d’argento. Non potè fare a meno di carezzarla e di aprirla. Ma non appena la apre una voce,  che non si sa da dove viene comincia a ripetere svelta le seguenti parole: “Cumanna! Cumanna! Cumanna! Cumanna!”.

La prima cosa che gli viene in mente di comandare allo spirito della tabacchiera è quello di cui aveva sempre sentito parlare: i cento pozzi per Siracusa assetata. Il prete torna e mettendosi le mani ai capelli: “Che hai fatto sciagurato di un ragazzo – gli dice - la Saia era già costruita! Perché hai consumato la magia?” Ma nessuna Saia c’era prima che il ragazzo chiedesse la grazia allo spirito della tabacchiera.

E così Siracusa dall’oggi al domani fu bell’e dissetata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
La grotta dei nobili

 

 

 

Tutti sanno del grande terremoto dell’undici gennaio 1693 “’a vintin’ura”, cioè alle tre del pomeriggio, che distrusse la regione degli Iblei e mezza Sicilia. Ancora ai miei tempi la tradizione del grande terremoto non era un ricordo affidato alle letture, ma  si tramandava di bocca in bocca, nel corso delle generazioni. Il nonno di mio nonno, per esempio,  diceva che da Santa Lucia, mentre tutti erano intenti al lavoro, si vide salire una  grande nuvola di fumo da quello che è l’attuale contrada di Palazzo, dove allora il paese sorgeva. Senza che si udisse alcun rumore il paese era intanto completamente crollato.

 

Se andate a Noto,  vedrete che fra i ruderi della città distrutta c’è solo un edificio che sembra essere rimasto illeso:  è il Convento delle Carmelitane.

Il terremoto era stato previsto da una monaca, “a Monica Santa” che tutti prendevano per pazza. Costei aveva previsto non solo il giorno, ma anche l’ora in cui sarebbe avvenuto  il  cataclisma.

Fra gli abitanti di Noto qualcuno ci credeva e alcuni invece non ci credevano. Qualcuno che aveva in casa oggetti di valore li aveva messi al sicuro. Tra i nobili la profezia era stata presa un po’ per scherzo e un po’ sul serio.  Pensavano di passare per ridicoli, ma intanto un po’ di paura l’avevano. Decisero che per quel giorno che era stato profetizzato dalla Monaca sarebbero andati a rifugiarsi in una grotta sotto la montagna vicina al paese, portando seco i beni più preziosi. Si armarono di vettovaglie e da mangiare, di giochi con cui passare il tempo, e si installarono nella grande grotta.

Il cataclisma, come profetizzato, puntuale avvenne, Noto fu cancellata dalla faccia della terra. Ma si spaccò in due anche la montagna, con una cateratta di pietre che chiuse anche la  grotta. Per molti giorni si udirono le urla disperate dei nobili provenire come dall’interno della montagna. Di quella che  venne detta la Grotta dei Nobili si persero le tracce.

 

Del tremendo terremoto ricordo a memoria una poesia che dicevano i miei vecchi. Ne ricordo le parole, anche se alcune di queste non riesco a capire cosa significhino. Ve la trascrivo in siciliano così come suona nelle mie orecchie, sperando che qualcuno riesca a tradurla:

 

“Unnici di ginnaru milli e intuornu,

Hannu offesu tantu Diu supernu.

Tiempu tri Credi finisci lu munnu

Si vedi Morte, Paradisu e Infiernu.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Storia di Aretusa

 

 

Anche quello che sto per raccontare l’ho sentito da piccolo da persone diverse, e in diverse occasioni.

Dicevano che la Sicilia era nei tempi antichi disabitata, ricoperta completamente da un’unica fittissima foresta. Gli alberi erano così intricati  che non  si poteva neanche pensare di entrarci. I primi coloni superarono questo ostacolo in un modo semplice e sbrigativo: diedero fuoco alle foreste. Si narra che l’incendio che ne seguì fu tanto grande che il fuoco divampò tre lunghi anni prima di spegnersi del tutto.

Le popolazioni dei nomadi colonizzarono dapprima le rive dei fiumi, che  non erano torrenti di adesso, ma erano molto grandi, alcuni addirittura navigabili. Il Tèllaro (u Latiddaru) che passa da Palazzolo, sboccava a Sud della costa orientale. l’Anapo che riceveva anch’esso le acque della Val di Noto, aveva la sua foce sempre nel mar Ionio, ma proprio davanti all’isoletta di  Ortigia, cioè dove è stata fondata Siracusa.

I vecchi dicevano anche che i nomadi insediatisi alla foce dell’Anapo provenivano tutti dall’occidente della Sicilia. Su Ortigia esisteva già invece da tempo la colonia di un popolo ancora più antico della costa orientale del Mediterraneo, dove è l’attuale Turchia.

La leggenda racconta che un ragazzo del popolo della foce volle un giorno conoscere quell’isoletta che lui vedeva all’orizzonte davanti al suo fiume. Una mattina attraversò a nuoto  le due miglia scarse di mare che separavano l’isola dalla foce del fiume e approdò sulla spiaggia. Qui incontrò  subito una ragazza. Era bellissima. Anche se i linguaggi che i due giovani parlavano erano diversi, si fece capire quando le chiese il suo nome. La ragazza disse di chiamarsi Aretusa. Il ragazzo disse il suo: Ciano. Si sorrisero, ma l’incanto durò poco. I fratelli  di Aretusa subito accorsi lo cacciarono in malo modo minacciandolo e proibendo al tempo stesso ad Aretusa di scambiare in futuro parole con lo straniero.

L’amore, che è fatto soprattutto d’impedimenti, divampò fra i due ragazzi. Ciano mentre si allontanava le sorrise, ma con lo sguardo di chi prometteva che sarebbe tornato.

Ogni mattina Ciano vedeva il sole spuntare proprio da dietro l’isola d’Ortigia e gli sembrava di intravedere, nel controluce splendente dell’astro sul mare, l’ombra di Aretusa che lo salutava da lontano con la mano.

Dopo qualche giorno decise di tornare per farle un regalo. Riemi di “manna” in un piccolo vaso.  Questa prelibatezza era allora comune in Sicilia. I vecchi dicevano che  sulle montagne di Palermo la manna era raccolta dai faggi, incidendone la corteccia come si fa con le piante di caucciù, e lasciandone colare questa specie di miele.

Ciano ritrovò Aretusa e le porse il vasetto, promettendole  amore eterno. La ragazza per ricambiarlo raccolse alcune foglie di una piantina che colà cresceva e gli fece una treccina verde.

Ma l’incanto fra Ciano e Aretusa fu spezzato ancora dal sopraggiungere dei parenti inferociti. Ciano riuscì a fuggire ma ragazza fu punita così severamente da morirne. La leggenda dice che Aretusa si trasformò allora in una perenne fonte d’acqua dolce che da allora si versa a occidente nel mare verso la foce del fiume, come a cercare per sempre il ragazzo.

Ciano piantò nella foce paludosa del fiume la treccina verde ricordo di Aretusa e da allora lì il papiro vi cresce spontaneamente, unico luogo nelle coste d’Europa.

Chi va a Siracusa può vedere ancor oggi la Fonte di Aretusa: grossi pesci d’acqua dolce ne escono per disperdersi  nell’acqua del mare circostante. La leggenda dice che  il ragazzo, per raggiungere a sua volta l’amata, si sia trasformato a sua volta in fiume sottomarino che alimentava con la sua acqua dolce eternamente la fonte del suo amore.

Tutti sapevano questa storia quando ero piccolo. Le donne raccontavano inoltre - l’ho sentito con queste mie orecchie - che guardando nelle conche d’acqua dove il fiume si ferma e diventa palude, fra i mille verdi steli del papiro piantato da Ciano, si può intravedere, sotto il tremolare dell’acqua increspata dal vento, la ragazza Aretusa che tesse una tela.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buoncoraggio, brigante galantuomo

 

 

 

Da ragazzo sentivo parlare di Buoncoraggio. Quando qualcuno, da povero che era sempre stato, diventava improvvisamente ricco, state pur sicuri che da casa sua era passato Buoncoraggio, brigante galantuomo, a sussurrargli nell’orecchio un buon consiglio. Così raccontavano i grandi.

Nella Val di Noto c’era un detto che suonava così:

 

Buoncuraggiu rubbau cientu jumenti

Pigghiau tuttu, e nun si sappi nenti.

 

La specialità di Buoncoraggio era l’abigeato, il furto delle cento giumente del proverbio,  ma naturalmente egli praticava anche tutti gli altri numeri della sua arte di predone. La cosa curiosa era però che, sia nei suoi molti anni di galera che nei pochi periodi nei quali fu in libertà, mai fu visto vantare ricchezza e vanagloria. Qualcuno anzi, per questo suo carattere così modesto, lo considerò poco più di “’nu babbu”, uno sciocco.

Buoncoraggio comunque non se ne dava per inteso. Non era il solito brigante crudele, come ce n’erano tanti a infestare le campagne di allora, fu il mitico Buoncoraggio della Val di Noto.

Le cose con lui andavano quasi sempre così: faceva il colpo, vendeva gli animali, e poi  nascondeva gruzzolo. Il nascondiglio era sempre lo stesso: una pentola, fil di ferro per chiuderla, poi una buca abbastanza profonda dove calare la pentola e tenera a mente dove aveva fatto il  buco.

Ecco, era proprio il ricordo della buca il vero grattacapo. E d’altronde, dove depositare la refurtiva se a quei tempi le banche non facevano questo servizio? Il metodo non poteva essere dunque che questo. La buca sarebbe stato a 30 passi dal tale albero, vicino alla tal casa, nella tal zona, nella tal direzione; precisamente quella in cui un albero, una torre, una casa, una punta di montagna potevano “collimare” col tesoro, così come il mirino, quando si spara un buon colpo, collima con la punta del fucile.

 

Non si sa se  Buoncoraggio fosse analfabeta, o se sapesse leggere e far di conto; si sa di certo che non lascio mai traccia di mappe che indicavano il tesoro. Le uniche sue mappe erano calate nel fondo della sua testa, come le sue pentole nel fondo della terra. Ma con gli anni troppe pentole, troppe buche, troppi tesori sparsi ai quattro venti della Val di Noto. E più che passava il tempo, più che quel gomitolo di direzioni, di fili nella testa, si ingarbugliava.

Buoncoraggio invecchiando si decise a una soluzione drastica. Sfilava dalla testa uno di quei fili per rinvenire le pentole nascoste e ne faceva dono  a chi gli tornava più a genio. Fece queste confidenze, in carcere o da libero, quando ne aveva voglia, ma si trattava sempre di poveri diavoli. Talvolta l’indicazione era vaga, non per malizia, ma perché se l’era scordato proprio del tutto dove precisamente era la tal buca, e allora il tesoro era proprio perso. Altre volte fu  il caso, dopo tanti anni, che rivelò a un contadino mentre arava una pietra più grossa e più sonante delle altre. Ed ecco venir fuori la pentola coi soldi del buon brigante.

Ma sia che fosse un tesoro dei suoi, o qualcosa di molto più moderno, che con Buoncoraggio non aveva proprio niente a che fare, era sempre a lui che dalle nostri parti si dava il merito o la colpa per le fortune improvvise.

E fu per questo che Buoncoraggio, che si disfece di tutti i suoi tesori, morì povero ma benvoluto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La figlia del caliaro

 

 

Questa non è una vera e propria storia, ma una specie di fotografia. Come in ogni paese, la sera di domenica nel orso principale c’era lo struscio. Noi, ragazzi di campagna che stavamo sei giorni in campagna a lavorare, col vestito buono della festa, maschi coi maschi, femmine con le femmine, ovvero queste ultime con le madri o le sorelle più grandi. Noi, ragazzi di campagna, figli di massari, facevamo gli spacconi coi ragazzi del paese. Sostenevamo – ed era spesso vero – di avere più soldi in tasca di questi ultimi.  I massari, proprietari di terra, erano allora gente benestante. Non c’era ancora l’emigrazione, le campagne erano tutte popolate. L’emigrazione, quella venne dopo la guerra.

La domenica e nelle feste, nel corso principale di Palazzolo Acreide la calca era tale che ci stringeva quasi spalla a spalla. Per tutto il Corso, dalla piazza al quartiere alto di “Palazzo” si formavano due fiumane di folla, da una sponda quella che andava su, e dall’altre quella che andava giù.

Fra le ragazze me ne ricordo una in particolare: alta, ben in carne, di bellezza fiera, oggetto per tutta la settimana dei nostri discorsi e la domenica dei nostri sguardi. Non mi ricordo più il suo nome, era per tutti la “figghia d’’o caliaru” , e si accompagnava spesso con un’altra,  “Liddra ‘a sciàbbula”, ovvero Paolina detta  la “sciabola”, per dire di ragazza alta e bella.

La prima era figlia appunto di un tale che di mestiere faceva il “caliaru” che andava nei paesi vicini a vendere la “calia” che aveva fatto in casa. L’arte consisteva nell’arrostire i ceci nella sabbia arroventata fino a farli diventare delle palline perfettamente rotonde e croccanti. Un lavoro se vogliamo  onesto, non come quello di certi “frustieri”, quei commercianti forestieri che per le feste venivano da lontano. Metti ad esempio  i catanesi “spatioli”, ovvero famosi per essere violenti e facili di coltello, o i palermitani “vicarioti”, cioè inquilini abituali delle galere della “Vicarìa”.

Prima delle feste ricordo che il banditore comunale metteva in guardia pubblicamente la buona gente di Palazzolo da questi mariuoli poco raccomandabili. Ma il “caliaro” di Palazzolo, benché fosse un girovago al massimo si spostava fino alle feste di Bucchieri, Buscemi, Cassaro e Ferla. Mi ricordo della sua “abbanniata”:

 

Taliati com’è caura, chi ciauru ca fa

Tri sordi, un quartaruni, cu a voli s’a pigghia cca.

 

 

Con la sabbia arroventata arrostiva anche le fave secche e i semi di melone, “favi, calia e simenza” appunto, e poi esponeva nella bancarella in “monzelli”, in mucchietti, illuminati dalle lampade d’acetilene. Faceva anche i dolciumi, i “sanfirricci”, una pasta di zucchero e miele stirata e allugata dozzine di volte prima di ridursi a lecca-lecca dalla forma ritorta come le colonne barocche della chiesa dell’Annunziata.

Ecco, io mi ricordo come fosse ora una di quelle sere di festa, che si udì, del brusio della folla, dapprima un grido. Poi il rumore distinto e preciso di una terribile “timpulata”, di uno schiaffone. Cos’era successo? Nulla di grave, tanto che dopo un istante di smarrimento la folla comincio a processionare come prima. Ma fra mormorii e risate si sparse subito la voce che la figlia del caliaru aveva stampato una delle sue grasse e belle manine sulla faccia di uno di noi ragazzi che non aveva proprio resistito alla tentazione e aveva osato metterle una mano sul sedere.

 

 

 

 

 

ricordo di Peppi Cucciaru

 

 

Peppi Cucciaru (Giuseppe Cucchiaio) era un agricoltore della Contrada di Santa Lucia di Palazzolo. Persona rispettabile e anche rispettata, in quanto se qualcuno cercava di raggirarlo la sua bontà finiva.

A quei tempi li crapari di Palazzolo  (i caprai, molto diversi dai pastori di pecore, che erano persone perbene) erano sempre in lite con gli agricoltori delle campagne perché, quando il grano nel mese di marzo e aprile era tenero e verde facevano pascolare le capre lì in mezzo, quando il padrone non ci stava. E questo a Peppi Cucciara dava molto fastidio e quando li pescava nella sua proprietà era una quasi battaglia. Sempre vinta da Peppi peraltro, sia per la potenza con cui lanciava sassi (con tutte e due le mani, chè era perfettamente ambidestro), e sia perché era di una precisione come se avesse avuto un fucile, tanto che il più delle volte andava  a caccia proprio senza fucile.

Un giorno mio nonno andò a fargli visita nella sua abitazione e, mettendosi poi i due a passeggiare per i campi lì attorno, Peppi vede sopra una pianta un colombaccio (tutuni in siciliano), si rivolge a mio nonno e gli dice “Turi, vai a pigghiari ‘stu tutuni” e mentre li dice prende un sasso e lo lancia verso quella povera bestia uccidendola all’istante. Mio nonno va a raccogliere il colombo e Peppi gli fa: “Tienilo, portalo a casa e lo dài a Santa, che ti fa ‘u bruoru (il brodo)”.

Bisogna poi sapere che a quei tempi a Palazzolo ne giravano molti di caprai, che al mattino vendevano il latte per le strade. Queste persone possedevano le capre, ma non avevano campagna dove farle pascolare. Allora la mattina uscivano fuori dal paese e, per le strade dei campi, ai lati, dove ci stava  sempre un po’ d’erba, le facevano brucare. Ma nelle terre che vi confinavano, se non si vedeva nessun proprietario nelle vicinanze, facevano sosta. E a quel punto non c’era bisogno di dare ordine alle bestie, quelle sapevano già dove trovare da mangiare. E se per caso veniva il padrone della terra il capraio dava un fischio  e le capre in pochi secondi erano tutte a fianco del loro padrone, e se lui prendeva la corsa anche loro erano al suo fianco. Insomma erano più furbe del padrone.

Un giorno Peppi Cucciaru andò a visitare una sua campagna, lontano dal suo abitato, quand’ecco che vede appoggiato su di un tronco di quercia un uomo, che con la pipa in bocca fumava. Lontano dalla quercia, tra  il grano, ci stavano le capre che pascolavano; e il capraio non si era accorto di Peppe che in un istante lancia un sasso e gli fa saltare la pipa di bocca. Le capre sentito il fracasso intanto sono scomparse, compreso il padrone, e la cosa finisce qui. Ma non passò tutto liscio in quanto qualcuno di nascosto aveva visto la scena e pensò che Peppe avesse ammazzato il povero capraro. Il testimone accorre da mio nonno gli dice preoccupato: “Guarda che Peppi ha ammazzato un capraro!”.  Vanno a controllare nel tal posto, erano trentacinque piedi da dovePeppi aveva lanciato la pietra. C’era la pipa, ma nessun craparu. Fortunatamente non era stato ucciso, era filato via in silenzio con tutte le sue capre.

Peppi io non l’ho mai conosciuto, questi che racconto sono tutti ricordi di mio nonno. Diceva che era un uomo grande e di bell’aspetto. Ma questa abilità per il tiro delle pietre doveva a un certo punto costargli cara. Per una questione di confini, un giorno litigò con un’ometto col fucile – che poi non era altro che suo cognato, col quale non andava affatto d’accordo. Vedendo una mattina che i muretti di confine fra le sue terre e quelle del cognato erano spostati ne chiese e ragione conto all’uomo, che rimase in silenzio. Peppi raccolse come aveva fattosempre con le due mani due pietre, per una punizione micidiale. Ma il cognato più svelto di lui gli spara quasi a bruciapelo prima nella mano destra e poi in quella sinistra, rendendolo innocuo per sempre.

La fine di Peppe non l’ho mai saputa, se non il fatto che morì, benestante com’era sempre stato, di vecchiaia, e rispettato, se non per l’incidente delle mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gregge e mulino, di buon mattino…

 

 

 

Circa nel 1923-25, nella zona di Testa dell’Acqua, di Nicastro e di Gelso, veniva spesso a ogni stagione una persona detta u sciancatu. Si chiamava così perché gli mancava una gamba. Non era vecchio ed era anche salutibile. Andava per le famiglie della zona a chieder l’elemosina, da mangiare e qualche volta anche da pernottare. Però nello stesso tempo era un po’ furbacchione.

Una sera finì la giornata in contrada Gelso, nella massarìa di massaro Bastiano che lui conosceva da tempo e gli domandò se poteva dargli alloggio quella sera. Dopo aver mangiato, u massaru Vastianu disse all’ospite: - Vui putiti dòrmiri nel fienile, perché non abbiamo altri letti. Là non fa freddo, e così domani potete andare via. Io domani debbo andare ‘o mulinu, a macinari u frummientu, e devo partire un po’ prestino.

Allora u sciancatu dà la buonanotte  al massaro e alla massara e va a dormire nel fienile.

Verso le ore una u sciancatu chiama: - Massaru, u jaddu canta, è tardu. Sapiti comu si rici: mànnira e mulinu vacci matinu. (Massaro, il gallo canta, è tardi e sapete come dice il proverbio: gregge e mulino, vacci di buon mattino.) Il massaro rispose: - Ancora è prestu, mancu i Triali su sciuti. (è ancora presto, non sono spuntate neanche le tre stelle delle Pleiadi.)

Ore due: - Massaru, u jaddu n’autra vota cantau. Mànnira e mulinu vacci matinu…

- E va beni, - disse u massaru Vastianu - aiutatimi a carricari i sacchi r’o frummientu che minni vaio.

E così u massaru partì per il mulino.

U sciancatu, visto che u massaru non ci sta più incomincia a gridare: - Massara, sento freddo, mi sento di morire dal freddo.

La massara gli dice: - Cosa posso fare? Vi posso dare i “pòspari” e vi accendete il fuoco.

- D’accordo - rispose u sciancatu.

Allora la massara, per dargli li cirini, con la mano fuori dallo sportello della porta gli dice: - Prenda e si accenda il fuoco.

Lui, per prendere, ha preso la mano della massara e tenendola stretta incomincia a carezzarla, dicendole “Massara, come è bella questa mano…”

Ma u massaru Vastianu aveva capito l’idea dello Sciancatu e non era andato al mulino, ma si era nascosto a portata di mano tanto da poter osservare tutto quello che succedeva. A questo punto u massaru entra nel cortile da una seconda porta e sbuca proprio dietro lo sciancato che stava prendendo i pòspari per accendere il fuoco. Prende per un orecchio il malcapitato e a stivalate accompagna lo sciancato per la strada del ritorno. Che dopo quel giorno in questa contrada non si vide più.

Ma quando si incontrano quelli che sanno la storia dicono: - Massaro, u jaddu canta. Mànnira e mulinu vacci matinu…

 

 

 

Quello che ho appena raccontato mi fa venire in mente  questa canzuna, che si chiama:

 

 

Pinsieru d’u garzuni per la patruna

 

Tutta la notti iù agghiu a camminari

La strada è lonca e l’allusru di luna

Prima ch’è ghiorno ddà m’agghiu a truvari

Sotto li porti della me patruna

Idda mi rici “C’hai vinutu a fari?”

“Vuogghiu la sua promessa, mi la duna?”

Mi rici: “Ora ti vuogghiu accuntintari.

Lu patruni nun c’è, ma sugnu sula.”

 

 

 

 

traduzione: Tutta la notte ho da camminare, la strada è lunga al lume della luna, prima di giorno lì mi dovrò trovare, sotto le porte della mia padrona. Lei mi dirà: “Che sei venuto a fare?”” Voglio la sua promessa, me la dà?”  Lei mi dice: “Ora ti accontenterò. Il padrone non c’è, e sono sola.”

 

 

 

 

 

 

Indice

 

Introduzione

I Dieri di Baulì

Zu Pietro

La barba del Barone

Il piccolo archeologo

Storie di magia

Saialemme

La grotta dei nobili

Storia di Aretusa

Buoncoraggio, brigante galantuomo

La figlia del caliaro

Ricordo di Peppi Cucciaru

Gregge e mulino

Pinsieru d’u garzuni per la patruna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stampato in proprio  il 9 gennaio 2005, per uso personale.

Tutti i diritti dell’Autore.

Permesso di riproduzione del presente lavoro, in toto o in parte solo su richiesta.

Le illustrazioni sono elaborazioni tratte da libri o da documenti fotografici privati dell’Autore (eventuali richieste di riconoscimenti al seguente indirizzo: psalvus@tiscalinet.it)

 

 

Copertina, campagne di Ragusa (elab. Foto Scianna)

p.4, l’Autorea 34 anni

p.6, necropoli della pineta, Palazzolo A.

p.10, raccolta del lino a Comiso, primi ‘900 (elab.foto Lo Iacono)

p.13, Rosaria Giardina e Basilio, primi ‘900

p.16, mulino S.Lucia, Palazzolo A..

p.18, Palazzo Iudica, Palazzolo A. (elab. Foto Scianna)

p.24, Chiesa di S. Paolo, Palazzolo A.

p.28. Campagne verso Ragusa (elab. foto Scianna)

p.31, Sebastiano Finocchiaro in divisa da Ardito, circa 1930

p.34, Statua all’interno di chiesa S Annunziata, Palazzolo A.

p.37, chiesa di S. Paolo (particolare), Palazzolo A.

p.42: part. Di Chiesa S.Annunziata di Palazzolo A.