San Pietro in Amantea


 

Francesco Gagliardi 

 

Dolci Ricordi dell’ Infanzia

"Seduti per terra a guardare la televisione"

 

 


 

 

INDICE

 

 

PREFAZIONE

 

Dolci ricordi d ‘infanzia 

                                    

"La grattossa"                                                      

 

La nonna buona anche da morta  

                       

Nostalgia dell’infanzia                                           

 

Dolci e tristi ricordi dell’infanzia  

                          

La telefonatina                                                       

 

Una grande “M” cucita sul petto

 

Ricordi di scuola  

                                                         

“Sciuollu! Cumu ha da fare oie chin’è luntanu”

 

Condanniamo gli altri e poi facciamo le stesse cose    

                     

Le tradizioni sono solo un ricordo                                

"Il Natale è ormai interamente dedicato allo shopping..."

 

Una grossa monelleria                                                  

 

Gli extraterrestri invadono la terra                                

Con la radio si poteva far credere…

 

A vrascera 

"Quando intorno ad essa era una festa" 

 

Tra i banchi di scuola 

“Ricordi e suggestioni di un  tempo che fu”

 

I racconti della nonna

"L’albero di Natale"                    

 

C’era una volta una nonna…

 

La Befana   

                                                                   

La leggenda di Natale

" Il fantoccio di cenci "

 

In ricordo di mia madre Teodora                                  

 

La bambola americana

 

Il fabbro e il meccanico ingegnoso                                

 

C’era una volta un bambino che aveva tanta paura...

 

L’occhio bendato                                                          

 

La Befana? Esiste, eccome!                                            

 

Seduti per terra a guardare la televisione                       

 

Col cuore in gola e la valigia in mano          

 

                   

 


 

PREFAZIONE

I sogni, a volte, possono avere la forma di un braciere, di una bambola, di una bacchetta, di una radio, di uno “striglio”, di un  Figlio della Lupa con una grande “M” nel petto, di una calza appesa al caminetto per ricevere i regali della Befana.

In questo libro vengono elencati i sogni di tutti gli italiani degli anni trenta. Si tratta di un’operazione della memoria, raccontata attraverso i ricordi di scuola e i racconti della nonna accanto al braciere nelle lunghe giornate invernali. Sono proprio i ricordi di scuola a ridefinire di anno in anno, il costume sociale ed economico degli italiani di un tempo ormai molto lontano e così diverso da quello di oggi.

Un kolossal di immagini in bianco e nero che appaiono e scompaiono, suddivisi per temi secondo l’estro dell’artista che li ha volute con maestria rivisitare. Sessanta anni raccontati anche attraverso personaggi rimasti appiccicati alla nostra memoria: dal fabbro al meccanico, dal Figlio della Lupa al gerarca fascista, dalla mamma alla nonna, dallo zampognaro al maestro di scuola.

Il tutto per raccontare 60 anni della nostra vita simili ad una soap opera di cui non è prevista l’ultima puntata.

“La vita è memoria” scrisse un romanziere famoso. Cerchiamo di ricordare, insieme, un lungo momento che ha cambiato la nostra vita. Le memorie affiorano come se fosse ieri e gli aneddoti affluiscono nei racconti di chi ha vissuto intensamente quei giorni, a volte belli a volte brutti, ma  carichi di speranza.


 

 

 

 

Il mio sogno

 

Sempre lo stesso sogno:/ un rosso castagno in fiore,/ un giardino colmo di splendore estivo,/ dietro una vecchia casa abbandonata./ Là, dove si stende il giardino silenzioso,/ mi cullò mia madre./ Forse, dopo tanto tempo trascorso,/ non ci sono più giardino, casa e pianta. / Forse ora c’è un sentiero nel prato, / forse vi passano l’erpice e l’aratro./ Di pietra, giardino, casa e pianta/ solo il mio sogno resta.

E' questo, un canto della nostalgia, una ricerca del tempo perduto. Ce lo propone lo scrittore tedesco Hermann Hesse nella raccolta poetica “Il canto degli alberi”. E’ capitato a tutti di ritornare nel villaggio o nel quartiere in cui si è vissuti l’infanzia e di trovarlo del tutto stravolto. Scomparso quel giardino, abbattuto l’albero, demolita la casa, trasformato il paesaggio, forse sotto una colata di cemento.

Eppure la memoria conserva ancora non solo l’immagine del passato ma anche il pulsare della vita che là si era svolta: le tenerezze della madre, le prime emozioni del bambino, la gioia piccola e segreta, il dolore pacato e placato. E’ importante avere la capacità di “ricordare”, ossia di “riportare al cuore”, la propria storia. Il filosofo Epicuro affermava:<Chi non ricorda il bene passato è vecchio già oggi>, smentendo così la teoria secondo la quale sono solo i vecchi a vivere di ricordi. La memoria è, invece, sorgente di ricchezza interiore e quindi di vita, di energia, di sogno e di speranza. Purtroppo noi siamo ora immersi nell'epoca della smemoratezza.

 

(Mons. Gianfranco Ravasi , Avvenire, 20 maggio 2004)

 


 

 

  

 

Dolci ricordi d’infanzia

 

Sona, zampugna! Portame luntanu,

A ri tiempi filici ‘e quatraranza:

A Nnanna chi filava cchianu chianu

‘Ntramente me cuntava ‘una rumanza;

A ru zuccu chi ardia,ssempre cchiù cchiaru

Sutt’a camastra de ‘nu fuocularu!

Si avvicina il Santo Natale e con il Natale tornano gli zampognari. Li abbiamo visti l’altro giorno per le vie di Corso Mazzini tutti infreddoliti che suonavano “Tu scendi dalle stelle”. Purtroppo gli zampognari sono sempre meno numerosi. In alcune zone della Calabria, a dire il vero, sono completamente scomparsi. E con gli zampognari è scomparsa anche per noi adulti una parte della nostra fanciullezza e giovinezza. Ai calabresi poi, ovunque sparsi per il mondo, il suono tipico delle ciaramelle, faceva ricordare la festa più bella dell’anno: il Natale. E con il Natale il luogo natio, la casa, la famiglia, gli affetti più cari. Ecco perché Vittorio Butera ha scritto quei bellissimi versi. I nostri cari emigranti in terre lontane si ricordano del Santo Natale trascorso in famiglia accanto al camino acceso mentre la nonna raccontava loro delle belle favole.

Nonna, nonna, ci racconti ‘na rumanza? Il repertorio delle fiabe classiche, quelle che conoscevano tutti i bambini del mondo, si era da tempo esaurito. Le avventure di Pinocchio, Biancaneve, Cenerentola, Capuccetto Rosso, non servivano più. Allora le nonne, sempre pazienti,, generose e buone con i nipotini, cercavano di inventarne delle altre. Oggi, impazientite, sarebbero entrate in un negozio e avrebbero comprato per i nipotini un po’ esigenti qualche video cassetta di Walter Disney o di Harry Potter. Ma allora la televisione e il video registratore non erano stati inventati.

Per le nonne non era difficile inventare nuove storie ed erano pure molto divertenti. I protagonisti erano principi, principesse, lupi, cani, volpi, fate, draghi, streghe, agnelli, gatti, burattini, balene ed avevano tutti una loro funzione precisa.

Il punto di partenza della favola era sempre dato da un fatto realmente accaduto o da un racconto che già le nonne conoscevano. Quasi ogni sera incominciavano sempre così: C’era una volta. Nonna, nonna, c’era una volta chi? Una volta quando? Una volta dove?

Chiudevamo gli occhi e scivolavamo nei boschi incantati, nei mari in tempesta, nei castelli fatati, nelle carrozze magiche, nei paesi dei balocchi e delle meraviglie, col piccolo dito in bocca cavalcando bianchi destrieri fischiettando con lo zufolo magico canzoni  imparate chissà dove.

Vi ricordate, amici, quando eravamo povera gente? Sì, eravamo un’altra generazione. Le nostre mamme lavavano i panni al fiume o alle” cibbie”; i nostri padri emigravano in terre lontane in cerca di fortuna con una valigia di cartone legata con lo spago; noi bambini indossavamo le brache rotte ed i cappotti dei fratelli maggiori dalla mamma rivoltati; andavamo a scuola a piedi scalzi. Direte, ma le cose oggi sono molto cambiate. E’ vero, le abitudini di oggi non sono più quelle di ieri. E’ passata tanta acqua sotto i ponti. Poche generazioni hanno visto nel breve volgere di pochi anni mutazioni di vita e di costume così repentine come le nostre. Io non rimpiango, certo, il passato, però ricordo con nostalgia alcune tradizioni, alcuni riti, il Natale di ieri diverso da quello di oggi. Ricordo con nostalgia il caminetto acceso, la tavola imbandierata con tutti i parenti presenti,  le “frissurate” delle grispelle e dei turdilli, gli zampognari, il fuoco acceso nel sagrato della chiesa, la processione col Bambinello, il presepe. Se chiudo gli occhi rivedo gli amici di un tempo, la mia casetta, i miei familiari, la chiesa illuminata, il grande falò acceso, gli zampognari. Fuga dal mondo? No. Solo tantissima voglia di ricordare il tempo perduto e di ritrovare nella memoria la mia identità. Rivedo, nella mia memoria, un paese che non c’è più.

In quasi tutti i paesini della Calabria, fino a poco tempo fa, erano ancora vive alcune tradizioni, alcuni riti dalla remota origine che indubbiamente affondavano le radici in epoche lontane, nella religione pagana e nel misticismo delle popolazioni.

Era comune a quasi tutti i paesi calabresi accendere grandi falò “le focare”o “focarate” la notte di Natale sui sagrati delle chiese. Una volta non si voleva festeggiare la nascita di Gesù Bambino, ma l’entrata nel solstizio d’inverno. Erano residui di antichi riti pagani di purificazione e la loro diffusione andava oltre i confini della Calabria. ”Una volta si credeva che i falò, i fuochi d’artificio e le fiaccolate permettessero di godere di tutte le virtù del sole e fossero perciò benefici ai campi, agli animali, agli uomini grazie ad una sorta di operazione magica. Ma avevano anche la funzione di aiutare a crescere il sole ancora bambino, il sole gracile che doveva vincere l’ostilità delle tenebre invernali. Per una specie di magia simpatica quei fuochi accesi in terra proiettavano nel “fuoco del sole” la loro energia, gli davano vigoria “(Alfredo Cattabiani). Si celebrava così un rito senza tempo, proprio come i Magi solevano fare in onore di Mithra. Essi ritenevano  sacri i quattro elementi della natura e accendevano grandi fuochi magicamente caricati e alimentati da legna aromatica di misteriosa origine per salutare il sole invitto del solstizio d’inverno. Tutti si radunavano intorno alla “focarata” mentre la legna raccolta nei giorni precedenti bruciava lentamente e tutti si prendevano cura perché un tizzone ardente restasse acceso per la mattina. E i tizzoni che avanzavano venivano conservati come oggetti sacri, e quando si sentiva nell’aria minaccioso il brontolio dei tuoni, precursori delle tempeste, venivano esposti fuori dalle finestre, credendo vi fossero in essi la virtù di scagionarle.

A Capodanno i bambini solevano mettere dietro le porte delle case delle persone amate una grossa pietra, volendo con ciò significare l’abbondanza dell’augurio. Nei paesi pre silani l’augurio, invece, era espresso dagli “strinari”, che andavano in giro per le case dei signori a cantare la “strina”, per raccogliere regali. In altri paesi venivano chiamati “vertulari”, perché i cibi venivano messi in una bisaccia chiamata “viertula” e quindi “vertularu” era colui che la portava. E se le porte delle case non si aprivano, non solo facevano un gran chiasso, ma il loro canto diventava dispettoso e talvolta ingiurioso.

E che dire del Natale dei presepi con i pastori di creta che andavamo a comprare nei negozietti di Via Rivocati in Cosenza o presso l’abitazione di un certo Giorgio in Via Rote in Amantea. Giorgio faceva di mestiere anche il “capillaru”, trafficante di stracci e capelli. Girava con una cassetta a tracolla piena di cianfrusaglie, tra cui anche pastori di creta. Era festa, per grandi e piccini, quando sentivamo il grido festoso di questo personaggio simpatico e sorridente che allegramente ripeteva : U capillaruuuu! Ora non c’è più. E non c’è più nemmeno il Natale dei dolci caserecci, delle canzoncine e delle recite, delle letterine ai genitori nascoste sotto il piatto il giorno di Natale. Natale oggi è il panettone, il torrone, lo spumante. Natale oggi è andare in vacanza nei lontanissimi paesi caldi o andare a sciare . Il Natale di una volta era la tombolata, la messa di mezzanotte, lo stare insieme agli altri intorno alla “focarata”, sparare qualche tric-trac, mangiare tredici cose.

E la mattina, poi, le contadine, vestite a festa, andavano nelle case dei loro padroni portando in dono: uova, polli, bottiglie di vino, olio, conigli, capretti e i doni non erano ricambiati: Era consuetudine, una volta, rendere omaggio ai padroni proprietari delle terre che coltivavano e delle “turre”, quei casolari di campagna fatiscenti, che i contadini abitavano.

Le tradizioni sono ormai un dolce ricordo dell’infanzia e i racconti degli animali che parlavano la notte di Natale, le piante che fiorivano e che davano frutta prelibata, le fontane che versavano olio e vino, l’acqua dei fiumi che si trasformava in latte e miele, sono soltanto una invenzione della nonna e si perdono nella realtà del presente. Miti, leggende popolari, credenze, usanze, tradizioni, costumi, pratiche religiose che hanno resistito per millenni e che hanno rappresentato l’unica fonte di evasione e di consolazione per i calabresi colpiti dalla miseria e dalla fame, sono stati spazzati via inesorabilmente dal progresso tecnologico.

In alcune città durante le feste natalizie si abbelliscono le vie cittadine con fantasmagoriche luminarie, si esibiscono cantanti famosissimi della RAI spendendo un sacco di milioni, si sparano fuochi d’artifizi al solo scopo, però, di accrescere la popolarità dei politici locali, preoccupati soltanto di fare spettacolo e di far divertire i turisti occasionali e qualche visitatore alquanto distratto.

Ma il Natale così concepito è privo di contenuti spirituali e religiosi, di sentimenti di affetto, di stima, d’amicizia, di rispetto. E anche gli auguri che ci scambiamo in fretta sono privi  del vero significato di una volta, di quell’affetto vero e sincero  che esisteva non solo tra familiari ma anche tra amici e vicini di casa i quali si ritrovavano tutti insieme in piazza intorno a quel fuoco scoppiettante dove davano inizio così ad una delle feste più “ricordate” dell’anno.

La preparazione del presepe con i pastori di creta fatti a mano, la raccolta del muschio, la raccolta della legna da ardere, la preparazione dei fritti natalizi, l’arrivo degli zampognari, la Messa di Mezzanotte, la processione del Bambinello, il posto a tavola lasciato vuoto se un familiare mancava al pranzo di Natale, lo sparo dei ”furgoli” e “tric e trac” prima di mettersi a tavola, le canzoncine e le recite, le “strine”, le letterine ai genitori nascoste sotto il piatto, erano festosi appuntamenti, dei veri e propri riti, ai quali partecipavano tutti gli amici e i parenti, i vicini e i lontani, perché la gioia per essere vera, autentica, si doveva dividere con gli altri. E se in qualche casa di un amico o conoscente non si friggeva perché colpito da un lutto recente, era usanza mandargli i fritti natalizi in grande abbondanza. I fritti erano simbolo di festa e perciò non si friggeva nelle case colpite da lutti recenti e che un antico detto popolare definisce per tale motivo :- Amara chilla casa ca nun si fria-

I giovanissimi di oggi, i ventenni, che vivono di motociclette, discoteche, pub, paninoteche, hamburger e coca cola, fra scuola e primi amori, non hanno più ricordo di queste tradizioni, di questi riti, consumati in un altro mondo e provenienti da un’altra cultura. Molte consuetudini, riti, arti, mestieri, tradizioni, hanno ceduto il passo al progresso della civiltà e della scienza.

 


 

 

 

 

"La Grattossa"

 

Quando ero piccolo spesso mi capitò di sentir parlare di “grattosse”, animali terribili che abitavano nei boschi sopra l’abitato di S. Pietro in Amantea e che ogni sera, al calar delle tenebre, abbandonavano le loro tane e scendevano giù in paese per mangiare qualche bambino cattivo.

Ora so con certezza che questi animali non esistono e non sono mai esistiti , purtroppo nei racconti che si facevano una volta accanto al braciere, intorno al focolare, immancabilmente i genitori per fare stare buoni buoni i loro bambini raccontavano strane storie che mettevano tanta paura. Facevano rizzare i capelli ed il buio incuteva timore.

Tanto è vero che se qualche volta mi capitava di rincasare tardi tremavo dalla paura e per vincerla mi mettevo a cantare e a scappare.

E questa paura me la sono portata dietro per diversi anni ed ancora oggi se debbo scendere di notte le scale o andare al buio in un’altra stanza, quel senso di paura mi è rimasto. Tutta colpa delle “grattosse” e delle strane storie che si sono imbastite intorno ad esse.

Una sera io, mia madre, mia sorella Anna, tornavamo dalla casa della nonna Teresa a casa nostra. La nonna abitava in località denominata “Caciarogna” e noi invece in Via Michele Bianchi. Dovevamo attraversare “Nmienzu u largu”. Quando arrivammo sotto il grande pioppo sentii uno sbattere di ali e improvvisi lamenti. Ebbi paura e istintivamente mi aggrappai alla “suttana” della mamma e cercai di nascondermi sotto.

Che hai?- disse mia madre.

Ho paura, mamma. Non senti i lamenti della “grattossa”? E’ scesa dai Timponi e certamente stasera vuole mangiare qualche bambino- risposi.

Ma quale “grattossa”- disse mia madre. – E’ lo sbattere delle ali di qualche uccello notturno. Non avere paura. E poi le “grattosse” non esistono. Sono invenzioni degli adulti per fare stare buoni i bambini quando disubbidiscono o non vogliono mangiare. Allora i genitori inventano delle strane storie -.

Allora è una invenzione degli adulti per fare paura ai ragazzini?-

Certamente – rispose mia madre.

Io, comunque, avevo paura lo stesso e non lasciai la gonna di mia madre fino a quando non raggiungemmo la nostra casa.

Una sera d’estate eravamo tutti riuniti nel giardino della nostra casa sotto un albero di arancio a spannocchiare. Eravamo in tanti e quella sera mi capitò di sentir parlare per la prima volta di “grattosse”. Alcuni dicevano che esistevano, altri ribattevano dicendo che erano pure invenzioni.

C’era con noi anche “U zu Saverio Posa”, personaggio simpaticissimo che voleva tanto bene ai bambini. Quando avevamo bisogno di qualche cosa, c’era sempre “U zu Saverio” che provvedeva. Eravamo sempre i primi a pigiare l’uva nel suo palmento e, sempre i primi ad assaggiare il moscato che spillava dalle botti che aveva nella cantina sotto casa.

Eppure le “grattosse” esistono davvero - dice piano piano come non volesse farsi sentire.

Zu Savè, che dici? Le “grattosse” non esistono - esclamarono in tanti.

Esistono, esistono, vi dico. Io ho avuto la sfortuna alcuni anni fa di incontrarne una. Ascoltatemi bene. Andavo in campagna molto presto una mattina di alcuni anni fa. C’era un bel chiaro di luna. Percorrevo la “Cavarella sottana”, quando all’improvviso poco prima che giungessi a Vallerina sentii uno strano rumore e un latrare di cani. Non ebbi paura, però incominciai ad allungare il passo.

Appena giunto alla “turra” sentii i cani che mi correvano dietro sempre abbaiando e latrando sempre più forte. Mi girai di scatto e vidi un animale terribile, mostruoso, a due teste, con le bocche spalancate e con quattro occhi di fuoco. I cani gli giravano intorno. Mi fermai di colpo, presi delle pietre e gliele tirai addosso. I cani scapparono in tutte le direzioni, quel brutto animale, che era certamente la “grattossa”, non si mosse.

Ebbi davvero paura. Pensai, questo ora mi salta addosso e mi sbrana. All’apparenza sembrava un cane, ma non lo era. Aveva il pelo folto e lungo, due larghe bocche con denti aguzzi, quattro robuste zampe ed una coda lunghissima. Gli occhi di fuoco mi fissavano e le due  lingue lunghe e rosse penzolavano dalle bocche.

Feci in tempo ad aprire “la turra”, entrarvi e chiudere la porta in gran fretta. Dalla paura e dallo spavento caddi per terra come un sasso, tremavo e battevo forte i denti.

Ricordo che quell’animale si era avvicinato alla porta e con le possenti zampe raschiava e spingeva con forza latrando, gemendo e ringhiando. Ma più che latrati sembravano lamenti. Nel frattempo con pali e pertiche che si trovavano in un angolo riuscii a rinforzare la porta e a sprangarla per bene. L’animale non andò via, ma continuava con inaudita violenza a spingere la porta che da un momento all’altro sembrava volersi spaccare o crollare tanto forti erano i colpi.

Io me ne stavo rannicchiato in un cantuccio tenendo in mano una accetta, pregavo Dio e la Madonna perché quella furia infernale cessasse. Non ricordo quanto tempo restai in quella posizione, ma certamente restai rinchiuso nella “turra” finché non spuntò il sole. E lì mi trovò mio genero Settimio ancora tremante.

Papà, apri! Che fai rinchiuso nella “turra”?- mi diceva.

Ma chi si muoveva e chi aveva il desiderio di aprire la porta. Quando alla fine fui convinto che quella era la voce di mio genero riuscii ad aprire la porta. Settimio mi vide che ero completamente stravolto ed ancora tremante di paura. Mi prese per mano e mi fece sedere su uno sgabello e capì, senza che io gli dicessi nulla, che effettivamente quella mattina avevo passato una brutta avventura.

E’ la prima volta che racconto questa storia della “grattossa” e vi prego di non andarla a raccontare in giro, altrimenti tutti da oggi in poi mi prenderanno per pazzo o nessuno più vorrà venire a lavorare nei miei campi in contrada Vallerina. Quanta paura, figlioli miei, ebbi quella volta e vi assicuro che non la potrò mai dimenticare -.

Seguì un lungo silenzio ed i ragazzi che fino ad allora avevano ascoltato la storia, muti ed immobili, si aggrapparono alle loro madri tremanti di paura. Solo donna Giuseppina ruppe il silenzio: - Savè, queste storie quando ci sono i ragazzi non si devono raccontare. Si spaventano. Sono certa che, da oggi in poi, incominceranno ad avere paura e si rifiuteranno di uscire la sera o andare a “cardilliare” presto la mattina. La paura li accompagnerà per tutta la vita e qualsiasi rumore o ombra saranno scambiate per streghe, “grattosse”, “spirdi”, draghi, diavoli, orsi e orchi. Alziamoci, ragazzi! Si è fatto tardi. A letto, a letto - .

Non mi feci pregare due volte, mi alzai, di corsa salii le scale e m’infilai subito nel letto con il capo sotto le coperte.


  

La nonna, buona anche da morta

 

 

Gli anni del dopoguerra, quelli che vanno dal 1944 al 1950, furono veramente anni difficili, specialmente per la povera gente. Anni di fame e di miseria. Non c’era quasi niente da mangiare e le dispense erano completamente vuote. I bambini, in casa erano tanti allora, indossavano vestiti rivoltati, logori, pieni di toppe (arripezzati) che in precedenza erano stati indossati dai fratelli maggiori. Ma bisognava sbarcare il lunario e così la povera gente inventava nuovi cibi da mangiare, a volte indigeribili e un po’ rischiosi. E la farina ed il pane non bastavano mai.

Per fortuna nostra vennero in aiuto gli emigranti calabresi residenti in Canada ed nell’America del Nord. Tantissimi avevano parenti ed amici in quelle terre lontane e ricche, così incominciarono ad arrivare ogni giorno pacchi e pacchettini contenente non solo generi di prima necessità ma anche vestiario vario dai colori sgargianti. E pure scatole di piselli e fagioli, di formaggio, di carne, di tonno, di zucchero e latte e cacao in polvere e finanche le scarpe a punta. Quando arrivavano questi pacchi era festa grande in famiglia e tutti abbandonavano il lavoro usato e accorrevano in fretta a casa per aprirli. Che festa, che gioia, nel vedere tutto quel ben di Dio, anche se spesso i vestiti e le scarpe erano usati e non erano ancora di moda dalle nostre parti! Ma erano graditi lo stesso e si ringraziavano quelle persone che erano state così generose verso di noi.

Nei pacchi, certe volte, si trovava qualche pacchetto di sigarette Lucky Strike o Camel, ed era la felicità degli adulti. Talora si trovava qualche barra di cioccolato e qualche pacchetto di chewing gum. I bambini erano felicissimi. Ed anche le nonne erano contente e facevano sciogliere lentamente in bocca quel cioccolato a latte così saporito. Alcune volte i pacchi arrivavano aperti. Gli impiegati postali si giustificavano dicendo che i pacchi erano stati aperti alla dogana per controllarne il contenuto.

Un giorno, una signora che aveva il figlio emigrato in Detroit, negli Stati Uniti d’America, ricevette in un pacco, tra le altre cose, una scatola di cromatina, e scambiandola per un linimento che alleviava i dolori reumatici, si spalmò la cromatina per oltre un mese. Quando si accorse che i dolori non diminuivano chiese consiglio alla levatrice del paese. La mammana capì che quella scatola conteneva cromatina per le scarpe e si fece una sonora risata, consigliando alla sfortunata signora di cambiare medicinale.

Un’altra volta nel pacco trovò acclusa una lettera nella quale erano ben elencate le cose contenute. Fra le altre ed in ultimo comparve la parola “azzola”. Ma la signora non conosceva la lingua inglese e scrisse al figlio dicendo che il pacco lo aveva ricevuto ed era rimasta contentissima, però “l’azzola” qualcuno se l’aveva rubata. Nessuno aveva rubato niente, solo che “azzola”, in inglese si scrive “It’s all” e vuol dire “E’ tutto”. Il figlio, nello scrivere, aveva italianizzato l’espressione “It’s all” con “azzola”.

Certe volte arrivavano pacchi contenenti scatolette dal contenuto a noi sconosciuto, ma poiché arrivavano da persone fidate e da parenti, non si andava a guardare il pelo nell’uovo e si mangiava tutto, anche se a volte il sapore era davvero disgustoso.

Un giorno arrivò a zia Concetta un pacco contenente tra l’altro una grossa boccetta di colore giallo. Era chiusa con un tappo di sughero e nell’interno c’era una polverina che sembrava pepe macinato. Portava una etichetta: Nonna,s ashes. E tutti, scambiandola, per pepe macinato, ogni giorno un po’ di quella polverina veniva versata sugli spaghetti. E non solo zia Concetta usò per tantissimo tempo quella polverina, ma essendo buona e generosa, la volle fare assaggiare anche ai vicini di casa e la trovarono tutti, a dire il vero, molto saporita. Zia Concetta non si curò dell’etichetta, e non conoscendo l’inglese, disse: E’ un regalo della nonna Maria.

Dopo alcuni anni anche in Italia le cose migliorarono ed i pacchi dalla lontana America si diradarono. Arrivarono un giorno in paese con una lunga Cadillac i parenti di zia Concetta che per tantissimi anni avevano lavorato a Detroit, nel Michigan, ed avevano fatto una grande fortuna e vollero andare al cimitero a visitare i parenti seppelliti in quel piccolo cimitero di paese. Per tutti una preghiera, un fiore, un bacio, un commento. Quel giorno non venne tralasciata nessuna tomba, però dopo aver girovagato per tantissimo tempo, una cugina di zia Concetta si ricordò di nonna Maria. Era stata lei che aveva parlato spesso dell’Italia e della Calabria e dei tantissimi parenti che erano rimasti in quel paese, mentre lei era partita per la lontana America alla ricerca di una vita migliore. E così la piccola Teresa chiese a zia Concetta: -E nonna Maria dove l’avete messa?-

  - Ma nonna Maria non si trova qui sepolta nel nostro cimitero, è morta alcuni anni fa in America e si trova certamente sepolta nel cimitero di Detroit! – disse zia Concetta.

  - Che sciocca! – rispose la piccola. – E’ vero, it’s true, grandma è morta in Detroit, però ha voluto essere cremata e le ceneri sono state spedite in Italia per essere conservate nel piccolo cimitero del suo paese di origine, vicino ai suoi cari, che amava tanto -.

  - Cremata? Le ceneri? Cosa è questa storia? Noi non sappiamo niente, non abbiamo ricevuto niente, siamo all’oscuro di tutto, spiegatevi meglio – balbettò zia Concetta.

Ci fu un silenzio sepolcrale e tutti si guardarono in faccia. I visi erano diventati paonazzi. Incominciò un lungo conciliabolo in lingua inglese e in dialetto calabrese. Alla fine si scoprì che effettivamente alcuni anni fa zia Concetta aveva ricevuto un pacco ed una boccettina di colore giallo. Quella boccetttina conteneva le ceneri della cara ed indimenticabile nonna Maria e che, per tantissimi mesi, avevano condito gli spaghetti di tutto il parentado. Anche da morta nonna Maria, in quel periodo di fame e di miseria, aveva allietato la mensa dei lontani parenti e dato sapore al pranzo frugale di quei tristi anni.

 


 

 

 

NOSTALGIA DELL’INFANZIA

 

 

Alcuni giorni fa, scartabellando in una grande scatola di cartone dimenticata da diversi anni in un angolo del garage, ho trovato uno dei miei primi libri di letture delle scuole elementari : “L’aratro e la spada”. Era il libro di letture per le classi dei centri rurali.

Quanti ricordi!

Ho sfogliato le pagine ingiallite dagli anni piano piano per paura di rovinarle. Ecco i disegnini di una volta in bianco e nero che accompagnavano ogni singola lettura; le poesie di Angelo Silvio Novaro, Diego Valeri, Prati, Pascoli, che la maestra Sig.ra Adele Politano mi faceva imparare a memoria; i raccontini: “La bonifica integrale”, “Il fabbro ingegnoso”, “Pane della nostra terra”, che forse oggi fanno ridere o indignare, ma allora venivano considerati edificanti.

I testi di quel libro, piaccia o non piaccia, sono rimasti solo e soltanto le prime letture non solo della mia vita, ma anche della maggioranza degli altri scolari della mia età, dalla Sicilia al Piemonte.

Il libro, allora, era uguale per tutti. La sera, poi, specialmente d’inverno, accanto al focolare venivano letti e commentati da tutti i familiari i famosi “Racconti della sera”.

Letture moraleggianti, strappalacrime, didascaliche, rievocazioni storiche, frammentate dalle solite frasi del Duce che dovevamo imparare a memoria e che poi vedevamo scritte sui muri delle case: E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende; Il lavoro è la cosa più solenne, più nobile , più religiosa della vita; Chi non è pronto a morire per la sua idea non è degno di professarla; Bisogna essere forti, bisogna essere sempre più forti, bisogna essere totalmente forti da poter fronteggiare tutte le eventualità; Amate il pane, cuore della casa, profumo della mensa, gioia dei focolari.

Eravamo in regime di monopolio culturale e quindi i libri di testo usati nelle scuole pubbliche erano di parte, oggi si direbbe faziosi. Allora era dominante la cultura fascista, come oggi è dominante la cultura marxista. Ieri i libri di testo descrivevano le giornate del Duce, oggi descrivono le giornate dei politici al potere. E’ cambiato ben poco.

Nello sfogliare le pagine ho rivisto i tempi in cui ero bambino; la mia maestra di prima elementare: la dolce, la cara, la dotta Sig.ra Adele Politano; il piccolo Balilla che partecipava a tutte le manifestazioni patriottiche con quel pantaloncino  corto, grigio verde, di lana che gli dava tanto fastidio perché irritava le cosce paffutelle; le cerimonie religiose officiate dall’indimenticabile Parroco Don Gabriele Muti ogni qual volta arrivava la triste notizia dal Ministero della Guerra di qualche nostro paesano caduto in combattimento; l’alza bandiera in Piazza IV Novembre davanti al Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale ed il “Silenzio” suonato dal trombettista Antonio Paladino; il campicello scolastico in contrada Jovanisi nelle terre di Coccimiglio; i miei cari compagni di classe, alcuni ora emigrati in terre lontane in cerca di lavoro, altri da anni scomparsi; la raccolta della lana che doveva servire per i nostri militari in terra di Russia (conservo ancora come una reliquia la ricevuta rilasciatami alla consegna della lana, cinque chilogrammi, un intero cuscino); la raccolta del rame e del ferro che doveva servire per i nostri cannoni e le disperazioni delle massaie che si videro private di casseruole, bracieri e pentole; la raccolta dell’oro per la Patria voluta dal Duce e la consegna da parte del Federale a mia madre di una vera metallica al posto di quella d’oro, che ancora oggi conservo gelosamente ( non perché ho nostalgia di quei tempi, ma perché mi ricorda mia madre); la Guardia Municipale Don Nicola Coscarella, pignolo e buono allo stesso tempo, che ci sequestrava le “carrozze” perché facevano troppo rumore sull’ acciottolato di Via del Popolo, allora Via Michele Bianchi.

Quanti ricordi!

Nonna, nonna, i “cullurielli” che erano nella cassapanca sono terminati!

E la cara, l’indimenticabile, la paziente, la dolce nonna Teresa, senza scomporsi tanto, lasciava tutto e tutti, saliva in cucina, che era al piano di sopra sotto il tetto e incominciava ad impastare farina, patate, acqua. Poi accendeva il fuoco e friggeva “i cullurielli” al nipotino a cui piacevano tanto. Mi raccontava sempre la mamma che una volta la nonna, pur avendo in casa alcuni macellai che stavano preparando le salsicce e le soppressate, lasciò tutto e andò a friggere  un bel piatto di “turdilli” all’uovo. Oggi le nonne certamente risponderebbero ai loro nipotini:- La vuoi una fetta di panettone? Lo vuoi un torroncino? Ti piace il Kinder sorpresa?

Nonna, nonna, ho fame.

E subito la nonna apriva il frigorifero e prendeva la merendina e lo yougurt o nella dispensa i biscottini del Mulino Bianco. Ma quale frigorifero! Quali biscottini!

Apriva la cassapanca e prendeva due castagne, qualche noce, un mandarino, dei fichi bianchi secchi. I fichi venivano messi sulle brace e poi mangiati. L’odore si spandeva per tutta la casa. Che sapore! Ed io con avidità mangiavo quei fichi saporiti. Nonna, un altro. E la nonna metteva altri fichi sulle brace e poi con un sorriso li porgeva al nipotino. Mangia, bello di nonna, perché di fichi ce ne sono in abbondanza.

Nostalgia del tempo passato? Tanta.

Attenti! Riposo! Attenti! Avanti March! Uno, due, uno, due, pasooo!

Nella imminente visita del Federale gli insegnanti avevano preparato per bene i propri alunni. Dovevamo sfilare in parata in Piazza IV Novembre davanti alle autorità civili e militari in occasione di una festa. Gli insegnanti per diversi giorni ci facevano sfilare e ci facevano lunghe raccomandazioni:- Mi raccomando, bada che tu devi stare avanti, tu indietro, non spingete, camminate lentamente ed a passo. Deve arrivare il Federale e la scuola di S. Pietro in Amantea deve fare bella figura. Mi raccomando, lavatevi bene la faccia e le orecchie. Tutti con le scarpe ai piedi per quel giorno.- E sì, non tutti indossavano le scarpe per venire a scuola. Alcuni perché non ne possedevano neppure un paio, altri non le indossavano perché si consumavano. Venivano indossate solamente in occasione delle feste.

- Abbiamo capito, signora maestra -, rispondevamo in coro.

Gli insegnanti, poco persuasi, tornavano ogni mattina alla carica e a ripeterci fino alla noia le solite raccomandazioni. E noi stanchi ed annoiati ma felicissimi perché stava per arrivare il grande giorno a ripetere : - Abbiamo capito tutto, fateci marciare -.

Avevamo imparato a marciare davvero dopo tantissimi giorni di sforzi e di sacrifici, avevamo imparato a fare il saluto fascista, a voltare a destra e a sinistra ed a segnare il passo.

Finalmente arriva il Federale accompagnato da altri personaggi. Dovevano essere personaggi importanti, perché tutti indossavano la divisa fascista ed il petto della giacca ero pieno di decorazioni e medaglie. Che festa! Tutti felici e contenti. Anche i miei compagni più poveri per quel giorno avevano indossato le scarpe, si erano lavati per bene ed i genitori erano tutti radunati in piazza per assistere alla bella manifestazione. Era davvero una gran festa per tutti. I maestri e le maestre quel giorno avevano tutti indossato la divisa fascista. Sembravano anche più belli.

Ci schierammo in Piazza IV Novembre, di fronte al Municipio (era una baracca di pietre e legno, ora demolita), non ancora asfaltata o sistemata come è ora. Le autorità civili e militari sul palco che ci osservavano. Le bandiere tricolori sventolavano al vento dai balconi circostanti. Sembrava che tutto andasse per il meglio.

Attenti! Riposo! Attenti! Fronte destr-destro!  (questo fu l’ordine che ci venne impartito). Invece doveva essere: Fianco sinistr- sinistro! Avanti March! A quel punto si sente una voce : - Pardon! – E il Federale, irritatissimo : – Ma che pardon del…..-

Allora noi non avevamo capito perché il Federale si era così arrabbiato. Pensavamo forse per l’ordine impartito nel modo sbagliato. No. Si era arrabbiato perché l’istruttore aveva pronunziato la parola “Pardon”. “Pardon” è in lingua francese ed allora tutte le parole straniere erano proibite. Che figuraccia! Quell’istruttore se avesse potuto avrebbe voluto certamente sprofondare sotto terra.

Nonna, nonna, non mi sento bene!

E subito la nonna ordina a mia madre di portarmi a Cosenza per essere visitato da uno specialista, il Prof. Misasi, allora considerato un luminare per la cura dei bambini.

Non era facile in quei tempi raggiungere Cosenza. Bisognava andare col “Postale” che partiva da Amantea alle 5,30 di mattina. Era sempre zeppo e molte persone spesso restavano a terra. Quando la mamma decise però di portarmi a Cosenza per essere visitato, la sera prima parlò col fattorino e noi l’indomani trovammo il posto a sedere. La mamma, prima di salire, tirò fuori dal “sinale”  un fagotto e lo consegnò al fattorino. Dentro c’era una lunga soppressata di maiale, quella che noi chiamiamo del “culerino”. Il “sinale” era quell’indumento che le donne del mio paese portavano sopra la gonna.

Molte persone, anche quel giorno, non trovarono posto e dovettero restare a terra. Protestarono, urlarono, inveirono contro il fattorino. Ma non c’è stato nulla da fare. “Il postale” era colmo e non poteva trasportare tutte le persone. Vedemmo una signora ben vestita che si agitava più delle altre e che a gran voce gridava: - Come è potuto succedere, una donna rurale trova il posto, finanche a sedere, mentre io, donna fascista, sono rimasta a terra!-

Mia madre era contadina, quell’altra era invece una insegnante ed era una donna fascista. Voleva avere evidentemente la precedenza perché c’era  una differenza di classe. La precedenza, invece, quel giorno l’abbiamo avuta noi per merito della mamma e della soppressata che aveva consegnato di nascosto al fattorino.

E sì, la busterella, la “pastetta”, la raccomandazione, esistevano anche allora.

L’ho presa, l’ho presa!

Cosa avrà mai preso Emilio Lupi ( da grande ha fatto il Direttore delle Imposte Dirette di Paola) quel giorno di maggio nel ruscello che ancora scorre nelle vicinanze dell’abitato?

Gridava a squarciagola e correva ansimante verso di noi (il fratello Ciccio, Ingegnere presso la Regione Calabria, Saverio Geometra presso l’Amministrazione Provinciale di Cosenza, io ed altri) che giocavamo a carte sul muricciolo del ponte del Vallone.( Voglio ricordare che Ciccio, Emilio e Saverio sono nati e cresciuti a casa mia. Loro abitavano il piano terra, io invece abitavo al primo piano. Siamo stati insieme fino all’anno 1946. Ci siamo poi ritrovati ancora una volta a Cosenza in Piazza Spirito Santo ed in Piazza Tommaso Campanella quando abbiamo frequentato gli studi superiori).

Aveva preso una rana. Noi la chiamavamo “pisce cantandulu “ (pesce che canta). E sì, la rana gracida, sta nell’acqua e noi allora pensavamo che cantasse e che appartenesse alla famiglia dei pesci.

Si affaccia dal balcone la Sig. ra Adele Politano, la mia maestra. – Ragazzi che fate? Emilio cosa hai preso? Sei un monello. Vai a buttare nell’acqua quella rana! E’ un animale innocuo. Tornate a casa. Via, via. E voi bambine, rivolgendosi alle sue tre figliole che erano con noi, salite su a fare merenda- .

La rana è un animale innocuo aveva detto la maestra. Cosa avesse voluto significare allora non lo sapevamo. L’indomani ce lo avremmo fatto spiegare da lei a scuola.

Intanto Emilio era scappato via tenendosi stretta la sua preda per mostrarla agli altri amici e compagni che stavano giocando allo “strumbulu” (la trottola) “Nmienzu u Puritu”(l’odierna Piazzetta Margherita). La posò per terra e la faceva saltellare di qua e di là. Anche il suo papà, Filiberto Lupi, conosciuto da tutti perché era l’Ufficiale Postale di S. Pietro, e chiamato da tutti con l’appellativo “Barone”, si era affacciato dalla porta.

Saputo che il figlio Emilio aveva preso una rana, che era stato sgridato dalla maestra Politano e che ora stava giocando con la stessa e, sapendo che poi le avrebbe fatto fare una brutta fine, incominciò a fischiare. C’è da sapere che il fischio era il segno convenuto tra padre e figli, e quando il “Barone” fischiava dovevano immediatamente lasciare tutto ed accorrere a casa, anche se poi il “Barone” era sempre tollerante e buono con loro.

Al terzo fischio Emilio  fece ritorno a casa e prendemmo noi la rana. Ciccio, che era il più grande, andò a buttarla nuovamente nel ruscello.

La maestra era ancora sul balcone che ci osservava e disse: - Bravi, bravi. Siete dei bravi ragazzi! La rana è un anfibio, un animaletto innocuo, molto utile, perché si nutre di insetti nocivi all’agricoltura- .

Anche dal balcone e fuori dalle aule scolastiche la maestra insegnava ai propri alunni come si dovevano comportare nella vita e insegnava le scienze in modo semplice e gratificante.

Quanto eri brava, cara signora Maestra!

Correte! Correte! Saltate il muro, presto!

Erano queste le parole che Ciccio Lupi gridava quel giorno a squarciagola ai fratelli Emilio e Saverio, a me e ad altri monellacci. Era gennaio. C’era stato un forte vento ( S. Pietro è la terra di Eolo. I danni causati dal forte vento la notte del  gennaio 1981 lo stanno a dimostrare). Il vento aveva fatto cadere dagli alberi tutte le arance e noi, monellacci, non avendo altro da fare, quel giorno le raccogliemmo tutte e incominciammo a fare la guerra con le arance.

Passava un carretto trainato da un mulo ( il boom delle automobile non era ancora scoppiato in Italia). In cassetta c’era uno dei fratelli Pizzini di Amantea e teneva in mano una lunga frusta “lo staffile” che faceva schioccare violentemente facendo un lungo e terrificante sibilo.

Ci guardammo in faccia e ad un segnale convenuto scaricammo sulla povera bestia, sul carretto e sul conducente una scarica di arance. Alcune andarono a vuoto, alcune colpirono il malcapitato conducente, il quale arrestò il carretto e con la frusta alzata incominciò ad inseguirci per darci una bella lezione che certamente meritavamo.

Ci aveva quasi raggiunto e ci avrebbe senz’altro picchiato a dovere, anche perché imboccata la “vinella” di Francesca Caruso dovevamo saltare il muro della “Cavarella”.

Al di là di quel muro c’era la nostra salvezza. C’era la famosa “Cavarella” e poi l’aperta campagna e il conducente non ci avrebbe potuto più raggiungere.

I cuori battevano forte, avevamo tanta paura, alcuni di noi, i più piccoli, cominciarono ad urlare ed a piangere. Il conducente del carretto  stava per acchiapparci, quando ad un tratto sentimmo l’abbaiare di un cane. Era Fritz, il cane del “Barone”. Fu il nostro salvatore.

Si rizzò sulle gambe posteriori, mostrò i suoi denti aguzzi e si avventò sul povero conducente del carro facendogli finire lì la sua rincorsa. Quando poi Fritz si accorse che tutti noi, grandi e piccini, avevamo scalato il muro e correvamo spediti verso l’aperta campagna, lasciò la preda che era rimasta immobile ed incredula, e con un lungo salto scavalcò il muricciolo e con noi correva saltellando verso l’agognata salvezza.

Bravo Fritz! Sei stato grande! Che cane!

Il protagonista di questa altra storiella è sempre Emilio. Dovete sapere che Emilio, da bambino, era tremendo. Ne sapeva qualcosa la mia povera mamma, quando da sola lo dovette tenere immobile mentre il Dott. Mirabelli di Amantea gli praticava una incisione senza anestesia per togliere il pus da una grave infezione. La mamma ed il papà di Emilio, Donna Giuseppina e il “Barone”, non ebbero il coraggio di farlo, perché oltre ad essere buoni, pazienti, generosi, erano anche fifoni. Era tremendo Emilio. Stava sempre con il martello in mano e quando la famiglia Lupi lasciò la nostra abitazione dovemmo sostituire  tutti i pavimenti delle stanze.

Aveva costruito un arco e delle frecce appuntiti con i ferri di un vecchio ombrello. Diceva che con quell’arnese sarebbe stato capace di prendere gli uccellini. La caccia, dunque, è stata la vera, l’unica sua passione, che ancora dura.

Un giorno io stavo uscendo dal portone di casa per andare a giocare con i soliti amici che mi stavano aspettando. C’era pure Emilio con l’arco e con le frecce, che si era appostato dietro la porta a fianco, il quale, appena vide spuntare dal portone la mia testa, tirò con forza la cordicella legata alle due estremità dell’arco e fece partire una freccia appuntita che andò a conficcarsi nella mia guancia destra.

Urla di dolore, sangue. Meno male che la freccia era solo appuntita, liscia e non arrugginita. Con un colpo solo, Ciccio, il fratello di Emilio, che aveva assistito alla scena, riuscì a levarla, altrimenti avrebbe potuto lacerare i tessuti o causare una grave infezione: il tetano.

Emilio scappò, perché capì che quel giorno l’aveva combinata grossa. Fece ritorno a casa la sera tardi. Donna Giuseppina, tutta premurosa, mi fece entrare in casa e disinfettò la ferita e poi mi diede un taralluccio benedetto, uno di quelli che ancora oggi vengono confezionati a Lago il giorno di S. Nicola e che in occasione delle procelle si mettono fuori dalle finestre perché hanno il potere di far calmare il temporale.

Tutto finì lì. Niente medico, niente schiamazzi, niente litigi tra genitori dei ragazzi. Era stata soltanto una bravata. Solo che poteva finire male, se la freccia avesse colpito le orecchie e gli occhi.

Se chiudo gli occhi rivedo gli amici di un tempo e la memoria rivisita l’infanzia e ripenso ai semplici giochi di una volta. Giochi semplici come il volo dell’aquilone “a cometa”, “u strigliu”, “u strumbulu”, “u rullu”, ”battimuru”, all’aria aperta e nelle vie e nelle piazze del paese.

Un tempo la strada era il teatro dei giochi fanciulleschi; teatro oggi contrastato dagli automezzi, che lo rendono pericoloso.

I ragazzi di oggi, forse , sorrideranno nel leggere  queste pagine e non capiranno cosa siano i giochi dello “strigliu” e dello “strumbulu”. Erano i nostri giochi preferiti. Ormai sono scomparsi, hanno ceduto il passo al progresso della civiltà e della scienza.

Oggi il ragazzo passa il suo tempo libero  stando in casa col computer navigando con Internet, guardando la televisione, ascoltando musica. Allora  noi trascorrevamo le giornate, tutte le giornate, all’aria aperta, a giocare con quei giochi già menzionati e d’estate ad acchiappare grilli e cicale, rane e granchi, lucciole e lucertole, a scovare  i nidi dei passeri nei buchi delle case.

Questi erano i nostri passatempi.

 


 

 

 

 

Dolci e tristi ricordi dell’infanzia

 

 

Rosa Guzzo, conosciuta da tutti come “Rosa a furnara”, inforna il pane nel forno ubicato sotto l’abitazione di zia Giovannina Maio; U zu Gioacchino Pinto spilla il vino da una grande botte di rovere nel suo negozio di generi alimentari in Via Michele Bianchi; Domenico Guido, u zu Minicu, con quattro amici gioca a carte a “patrune e sutta”; Alberto Miraglia attraversa la via antistante il suo negozio e va a bere un sorso d’acqua alla pubblica fontana di “Nmienzu u puritu”; Don Lisandro, postino del paese, distribuisce la posta pomeridiana e ogni tanto, non visto, tira qualche scappellotto ai giovanotti che aspettano lettere dai loro parenti lontani; u zu Ntonu Raso chiede alla figlia Carolina di comprargli l’indomani un chilo di sarde; mastru Ciccio Bruni, “Aragona”, lasciata la botteguccia di falegname del padre Mastru Gaspare, col tamburino a tracolla gira per le vie del paese ad annunziare agli increduli contadini del paese che il Duce aveva dichiarato guerra alle democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente e che “un’ora segnata dal destino era scoccata sul quadrante della storia”; Don Gabriele Muti, il parroco del paese, con la sua lunga pipa in bocca, vestito alla buona, con un gilè ed un pantaloncino marrone, se ne stava sul piazzale antistante la nuova chiesa parrocchiale non ancora consacrata al culto, ad ascoltare i commenti dei parrocchiani che si erano radunati sotto la finestra della canonica per ascoltare dalla sua radio la parola del Duce; mastru Ciccio "U scarparu", con un vecchio scarponcino in mano ed un sudicio grembiulino tutto rattoppato arrotolato sui fianchi, lasciato il dischetto delle bullette se ne stava davanti la sua botteguccia in Piazza Municipio, "Nmienzu a chiazza", e gridava ai rari passanti:- E’ scoppiata la guerra, sciuollu nuostru!-; U zu Gaetano Guido, beccaio del paese, aveva ucciso un grasso montone e l’aveva appeso ad un gancio all’esterno della sua botteguccia. Aspettava impaziente i rari acquirenti. Ma in quel periodo si mangiava carne raramente. Si mangiava carne di maiale nelle feste comandate, polpette e braciole conservate nello strutto.

Le mie compagne giocavano a mosca cieca, ai “cuti”, a fare la mamma con le bambole di pezza; i miei compagni giocavano invece con  “la mazza e lu strigliu”, saltavano con la corda, o giocavano “allu strumbulu”.

La guerra non cambiò queste nostre abitudini, e perché poi le avrebbe dovute cambiare. E poi non c’era null’altro da fare in quei tempi lontani. Le escursioni e le lunghe passeggiate erano sconosciute.

Questi e tanti altri sono i personaggi che ho avuto la fortuna di conoscere quel lontano fatale 10 giugno 1940, quando avevo appena 7 anni e che in quella triste occasione ero tutto eccitato, allegro, non capivo cosa avrebbe portato l’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia e l’Inghilterra.

Poi cantavo, come del resto tutti i bambini italiani della mia età : -Il 10 giugno fu dichiarata guerra per dar batoste all’Inghilterra -. Sappiamo come poi è andata a finire la guerra.

Passarono i mesi, passarono alcuni anni ed anche nel mio paese erano entrate in vigore le norme per l’oscuramento e le poche lampadine della pubblica illuminazione erano state spente. Le finestre delle case erano sempre tenute chiuse, nemmeno una luce doveva trasparire all’esterno. Erano state distribuite le tessere annonarie ed i commercianti del luogo facevano a gara a chi ne avrebbe racimolato di più. Lunghe file davanti ai negozi si incominciarono a formare quando venivano annunciati gli arrivi dei generi alimentari. Incominciarono ad arrivare donne e bambini dalla vicina Amantea, lasciavano le loro case ed il loro paese perché avevano paura dei bombardamenti. Ogni notte sentivamo suonare l’allarme che il Podestà dell’epoca aveva fatto installare sul balcone soprastante l’ufficio postale e correvamo nei rifugi. Il nostro rifugio era il sottoscala. Una precauzione che in fondo non sarebbe servita a niente. Se fosse caduta una bomba sopra di noi, la nostra casa sarebbe andata in polvere e noi ci saremmo rimasti sotto. Ci radunavamo in tanti, comunque. C’era l’ufficiale postale Don Filiberto,”U barune”, la moglie, donna Giuseppina , con i figli, la famiglia Andreani e la famiglia Martire della vicina Amantea, ora nostri vicini di casa. C’era Aldo Martire e Aldo Andreani, ora uno Preside della Scuola Media di Lago e l’altro valente medico in Amantea. C’era Rodolfo Martire, più piccolo di noi che diceva spesso:- Si tapisce mamma pisce-. “Mamma pisce” era un soprannome che avevano dato ad un loro vicino di casa e che era pure di Amantea. Noi bambini, eravamo più divertiti che spaventati. Si raccontavano storielle e “rumanze” e così trascorrevamo le ore in dolce attesa. Tutti dicevano che quella  sarebbe stata una guerra lampo, una guerra che sarebbe durata molto poco e che invece durò più di cinque anni. Ascoltavamo i soliti discorsi che conoscevamo così bene: la carestia, i bombardamenti, il problema degli sfollati, la venuta imminente degli americani, i rastrellamenti tedeschi, la guerra, Mussolini.

Ogni sera, poi, alla stessa ora, udivamo un rombo di motore. Gli adulti ci dicevano che questi aeroplani si chiamavano cicogne e andavano in perlustrazione. Erano aeroplani alleati queste cicogne e tutti noi sognavamo che alla fine gli alleati dovevano arrivare da un momento all’altro a ridarci la libertà e permettere agli sfollati di Amantea e dintorni di tornare nelle proprie case.

Quasi ogni mese mia madre accendeva il forno per infornare il pane fatto in casa ed in autunno per infornare i fichi. Chi non ha sperimentato che cosa voglia dire la mancanza di cibo in tempo di guerra, non potrà mai capire la gioia con cui accoglievamo quelle fumanti pagnottelle e quei fichi così fragranti e profumati. Sono cose difficili da spiegare. Oggi i negozi sono pieni e ben forniti e chi ha i soldi può comprare di tutto. Allora, potevi avere tutti i milioni del mondo e restare senza un tozzo di pane , e senza pane si muore.

La vita nostra e di tutti quei sfollati che popolavano S. Pietro (tutte le case erano occupate), finanche “i catuoi” e “le turre” (sperduti casolari di campagna), era dunque affidata ad una pagnottella, ad un cesto di fichi, a qualche chilo di farina, a qualche sacchetto di fagioli, ad alcuni chili di ceci, a qualche vasetto di acciughe salate, a qualche vasetto “cafisu” di grasso di maiale e a qualche “ventrisca”.

Quando incominciarono ad arrivare le prime cartoline precetto, gli uomini del paese incominciarono a scarseggiare. Dovevano partire per il fronte. Alcuni non più ritornarono.

Serve la lana , il metallo e il rame per la patria e si fa a gara a chi offre di più. In alcune famiglie è una piccola tragedia. Bracieri, pentole, pentoloni vengono consegnati ad un incaricato del Podestà. Alcune famiglie più furbe fanno scomparire i paioli di rame sotto gli occhi vigili e consezienti degli incaricati. “Questo braciere no, vi prego. Servirà a riscaldare l’ambiente nel lungo e freddo inverno”. Quando poi si offriva qualche salame all’incaricato, questi si rivelava molto comprensivo. E così il braciere, il paiolo e molti attrezzi da cucina si salvarono.

Per sposarsi ed essere felici, in quei tempi, non occorreva un bell’aspetto, avere belle gambe ed un seno gonfio, bastava avere una buona dote, un bel corredo, una “turra” ed un appezzamento di terreno anche se piccolo. Corredo, che prima delle nozze veniva disteso sui tavoli, sulle sedie, sulle panche per essere ammirato, toccato dalle comari del vicinato e dai parenti dello sposo e poi catalogato e portato in processione nella casa degli sposi. Ogni futura sposa portava in dote lenzuola, federe, asciugamani di lino, sottovesti, tovaglie, finemente decorate a mano dalla sposa stessa o dalla madre della sposa o dalle zie. Difficilmente il corredo veniva comprato nei negozi. La sposa, poi, doveva arrivare all’altare, superfluo dirlo, illibata, altrimenti veniva ripudiata dal marito la notte stessa del matrimonio.

I sogni erano semplici e modesti: sbarcare il lunario e possedere una stanzetta per dormire. Le famose mille lire al mese che la voce della radio aveva fatto conoscere ovunque erano aspirazioni borghesi non certo degli uomini e delle donne rurali. Una semplice stanzetta arredata alla buona con un letto matrimoniale con un saccone di pannocchie di granturco e materassi di lana, due cassapanche, un armadio era il sogno dei nostri contadini di allora. Le case erano senza servizi igienici e senza acqua. Per lavarsi si usava una bacinella smaltata e l’acqua veniva trasportata col barile dalle tre pubbliche fontane. Per il bagno (ma quando si faceva?) si usava una vecchia tinozza oppure la famosa “quadara” con la quale si faceva il bucato o si scioglieva il grasso del maiale.

I figli erano tanti in ogni casa perché le madri allora erano molto prolifiche ed anche perché così voleva il regime fascista. Esisteva anche il premio di natalità, istituito dal regime. La mammana del paese, conosciuta da tutti e da tutti amata e rispettata come “a za Marianna”, ci raccontava questa storiella. Un giorno andò ad assistere una partoriente. Erano in tanti in quella famigliola , vivevano tutti in una stanza ed erano molto poveri. Vivevano alla giornata. Se il capo famiglia un giorno non andava a giornata erano guai seri per tutti. A za Marianna spesso si era recata in quella umile casetta, quasi ogni anno direi, e per diversi anni e i figli aumentavano e crescevano. Quando venne chiamata l’ultima volta, chiamò in disparte il capo famiglia e gli disse:- Ma non avete nulla da mangiare, siete così poveri, vivete tutti in una stanza e tu continui a mettere in cinta tua moglie -. Così rispose: -Za Marià, è vero quello che mi dici, ma è l’unica cosa che ho, pure di questo ora mi debbo privare?-

Come abbiamo visto, le donne, dunque partorivano in casa e sotto gli occhi del marito e dei figli. Al momento del parto il marito sistemava un lenzuolo o una coperta nella stanza e serviva da separé. Il parto era un fatto naturale. Molto gratificante dal punto di vista umano, ma pericoloso e forse senza sicurezza. Ma allora non c’era l’abitudine di andare a partorire all’ospedale e pochi avevano i soldi per poterlo fare. E poi “a za Marianna” era davvero molto brava che difficilmente dovette ricorrere alle cure del medico e al ricovero in ospedale.

In casa non mancavano mai le patate, le melanzane, le zucchine, i peperoni, i pomodori, i fagioli, i ceci. Chi possedeva un po’ di terra era ricco. La frutta e la verdura c’erano ed anche in abbondanza in ogni casa. Il lardo del maiale e l’olio di oliva pure. Queste provviste furono indispensabili per superare gli anni tristi della guerra.

Nulla in casa veniva sprecato, tutto veniva utilizzato. E quando in Italia si incominciò a parlare di tesseramento e di razionamento di pasta, pane, carne, zucchero, caffè, i contadini del nostro paese non si spaventarono. Ormai loro alle privazioni c’erano abituati e la mancanza o il razionamento di alcuni cibi non fece poi tanto scalpore. Soffrivano la fame quelli che invece abitavano in città e che vivevano di solo stipendio. Ma pure avendo i soldi, se il cibo era scarso, quelli non servivano a niente. Come non fece scalpore il divieto della carne due volte la settimana. Nei nostri cortili c’erano galline e conigli; nelle dispense: lardo, salame, capicollo, polpette, braciole. Fino a pochi anni fa addirittura le galline starnazzavano beate libere per le vie del paese. Molti, oramai, avevano imparato a vivere con una serie di restrizioni alimentari. E per la pasta? Nessun problema. I fabbri del luogo, “mastru” Alfonso Lorelli, nella sua forgia di “Vico Zurlì” ( Ah, quanti ricordi!) avevano costruito una macchinetta e le massaie, le brave massaie di una volta, confezionavano la pasta in casa. Veniva poi tagliata con le forbici e poi appesa ad una canna ad asciugare. Per il caffè non c’era alcun problema e non rappresentava dunque un sacrificio. Nessuno ne beveva. Solo in rarissime occasioni veniva preparato con la famosa “cicculatera”. Ve la ricordate? Gli uomini preferivano un buon bicchiere di vino, quello non è mai mancato nel nostro paese.

Prima della guerra uomini e donne tutto il giorno stavano a lavorare nei campi. La sera, invece, solo agli uomini era consentito uscire e trascorrevano le ore in allegria ubriacandosi nelle cantine. Le donne dovevano stare in casa a preparare la parca mensa. Uscivano di casa solo per andare nei campi, per andare a messa, per andare a lavare ai ”Quattro canali”, per andare ad attingere l’acqua nelle tre pubbliche fontane, oppure per andare al mercato in Amantea. Uscivano senza scarpe e senza calze. Le indossavano prima che giungessero in Amantea in località “Le Rote”. Nel paese,  di allegro e divertente c’era soltanto il Natale con la “focarata” in piazza, il carnevale, la festa del 2 luglio e la fiera di San Bartolomeo, ed i matrimoni dove tutti erano invitati.

Durante la guerra, i lavori dei campi che prima erano fatti dagli uomini, ora vengono fatti dalle donne. Nelle vigne si vedono le donne portare sulle spalle la pompa per ramare l’uva. Zappano, sarchiano, estirpano le erbe, mietono, passano il verderame, raccolgono le castagne e le ulive, alcune hanno imparato finanche il mestiere di potare e di innestare.

Anche i vecchi ed i bambini lavorano. E ci sarebbe grano, granturco, olio per tutti , se i contadini non fossero costretti a portare il raccolto all’ammasso.

La sera poi, specialmente d’inverno, accanto al camino o al braciere a riparare o a voltare vecchi vestiti e le fanciulle a ricamare il corredo da sposa ( ma sì, anche in guerra le fanciulle pensavano al giorno del loro matrimonio e con ansia aspettavano il ritorno dal fronte del loro moroso). Le donne anziane lavoravano a maglia, confezionavano sciarpe, calze, berretti, golfini, disfacevano vecchi calzini e maglie per utilizzare la lana.

E poi venne l’8 settembre del 1943. E poi la fine della guerra. Tornano i reduci, i prigionieri dalla lontana India ed Australia. Anche compare Nicola Ianni torna dalla guerra ferito e zoppicante e per una vita aspetta la pensione dallo Stato che non è mai arrivata. Tornano dopo tantissimi anni di prigionia, più vecchi, più magri, molto delusi. Trovano il paese cambiato. Anche le loro mogli sono cambiate e pure i loro figli, che non riconoscono più i loro padri. Addirittura alcune famiglie sono cresciute durante la guerra. Arrivano ogni giorno con sacchi in spalla, barba lunga, su camion sgangherati ed alcuni non trovano più nelle loro case le loro mogli ad aspettarli. Alcune sono andate via, altre sono morte.

E poi venne l’ondata migratoria che portò all’abbandono delle campagne e allo spopolamento dell’intero abitato.

Ricorderanno la guerra? La avranno già dimenticata? E le nuove generazioni cosa diranno e cosa penseranno di questi miei vecchi, dolci e tristi ricordi?

Molti non tornano ed i familiari aspettano invano, fanno domande, attaccano la fotografia del soldato disperso in guerra (così diceva la cartolina proveniente da Roma dal Ministero della Difesa) nella “cristalliera”.

 


 

 

La Telefonatina

 

 

Nicola e Marinella, marito e moglie, finalmente dopo tanti anni di attesa, erano diventati, non per meriti propri ma per le continue, pressanti raccomandazioni di un noto deputato calabrese e del sindaco del paese, uno spazzino comunale e l’altra bidella presso una scuola elementare.

Per prima cosa comprarono una bella casetta, l’arredarono con gusto. Comprarono un televisore a colori e si fecero installare anche il telefono. Con due stipendi potevano benissimo pagare mensilmente le rate del mutuo per la casa, le rate per l’arredamento e le rate per il televisore. Quello che restava serviva per pagare le bollette della SIP, del gas, della luce e per le spese giornaliere. Le bollette della SIP, però, erano molto salate, come suol dirsi. Avendo molti figli emigrati all’estero, il telefono era il mezzo più semplice ed economico per mettersi in comunicazione con i familiari lontani.

Marinella, poi, restava attaccata al telefono per diversi minuti e telefonava spesso, quasi ogni giorno. Raccontava ai figli lontani tutto quello che accadeva in paese, come stavano le comari, se la gallina aveva fatto l’uovo, quanto latte faceva la capretta, insomma tutti o quasi tutti gli avvenimenti del piccolo borgo venivano trasmessi nella lontana America, in Germania, in Canadà e perfino in Australia.

Nicola era fiero di aver raggiunto questo status simbol e si pavoneggiava con gli amici e conoscenti. Però, quando ogni due mesi arrivavano le bollette della SIP, era intrattabile. Con la moglie poi faceva delle scenate. - Questo telefono ci porta alla rovina. Questo mese abbiamo  pagato oltre trecentomila lire. Se non la smetti di telefonare, vado alla SIP e faccio tagliare i fili. Non ne posso più. Tutti i nostri risparmi se ne vanno a telefonate. Sarebbe più comodo se mettessimo i risparmi alla posta in un libretto o investirli in BOT e CCT. Compare Turiddu è andato in pensione lo scorso anno e tutta la sua buona uscita l’ha investita in BTP e, beato lui, piglia di soli interessi oltre dieci milioni di lire. E’ un bell’affare, no? Invece noi, niente. Stiamo sempre a pagare le bollette della luce, del gas, del telefono ed i soldi non bastano mai-.

Così diceva sempre Nicola e la povera moglie era costretta per due o tre giorni a non fare più telefonate. Ma Nicola invece di essere contento, diventava più nervoso di prima e girava intorno al telefono mattina e sera come una trottola. Si rifiutava di mangiare, non dormiva, pensava sempre ai figli lontani ed ai nipotini ai quali era molto affezionato.

- Ha telefonato Mariuccio? Ha telefonato Giuseppe? E Ciccillo? Chissà come sta Nicolino! – diceva alla moglie. Non diceva però: - Perché non telefoniamo a Mariuccio, a Giuseppe, a Ciccillo?- Questo non lo diceva mai, perché non voleva prendere l’iniziativa. Così era la moglie a prendere l’iniziativa ogni volta, alzava la cornetta del telefono, componeva il numero e si metteva in comunicazione con i figli lontani.

- Mariné, sapessi quanto mi costano queste telefonate! - diceva. Però diventava come d’incanto allegro e sprizzava gioia da tutti i pori.                             

Un giorno Marinella, tornando dalla scuola, si avvicina al marito e gli dice: - Sai, Nicò, cosa ho capito? E’ da tanto tempo che te lo volevo dire, però oggi che ci penso bene, siamo soli noi i più fessi che usiamo il telefono di casa nostra. Gli altri, i più furbi, usano il telefono della scuola senza pagare una lira- .

- Cosa dici? Parla più piano, ti prego, e ripeti quello che hai detto-

- Sì, è così, Nicò. Gli altri impiegati comunali pagano poco per il telefono, perché per telefonare usano quello della scuola. Tutte le mie amiche, le altre bidelle, gli autisti dello scuolabus, anche gli insegnanti, tutti insomma, quando devono fare delle telefonate vanno nella sala degli applicati di segreteria, chiudono la porta mentre gli altri restano fuori. In un primo momento non avevo capito, ora invece capisco perché ogni giorno, quando non c’è il Direttore, c’è quella lunga fila davanti la porta degli applicati- .

- Marinè, e ti meravigli per quello che succede nella tua scuola? Anche al Comune succede la stessa cosa. Ogni giorno, dalla mattina alla sera, il telefono del Comune è sempre occupato, c’è sempre qualcuno intento a fare delle lunghe telefonate in teleselezione e nessuno dice niente. Si giustificano dicendo che sono telefonate d’ufficio.

L’altro giorno, compare Flavio, nostro carissimo assessore comunale, telefonava alla figlia in Argentina. Era presente anche il Sindaco e fece finta di niente. L’ho scoperto entrando per caso nella stanza del Sindaco- .

Dice Marinella: - Allora pure noi possiamo usare il telefono della scuola o del comune per telefonare ai nostri figli? Anche noi siamo impiegati comunali come gli altri dipendenti. Tu poi, lo potresti fare davvero, tanto chi ti controlla quando la mattina vai ad aprire la porta del Municipio. A quell’ora non c’è nessuno al Comune e avresti tutto il tempo disponibile per comunicare con i nostri figli lontani. Ogni tanto una telefonatina la potresti fare, non ti pare, Nico?-

- Certo che la potrei fare - rispose Nicola -, ma non la farò mai. Mi vergognerei, ecco. E poi non è onesto usare il telefono del Comune per comunicazioni familiari. Le telefonate costano. E se poi, mentre telefono, arriva qualcuno, che figura faccio? Tu, me lo sai spiegare? Potrei essere punito, lo capisci? No, no, non me la sento davvero. Gli altri facciano pure come vogliono, io sono una persona onesta e se voglio telefonare uso il mio telefono di casa anche se la bolletta questo mese è molto salata, vero Marinè?-

Andarono avanti così per altri mesi. Poi, verso il mese di maggio, arrivò a casa di Nicola una bolletta di cinquecentomila lire. Marinella, senza dire niente al marito, prese la bolletta della SIP, la nascose nella borsetta e con la scusa di andare a fare la spesa si recò dal Sindaco in Municipio. Bussò alla porta ed entrò.

- Cosa c’è, mia cara Marinella- disse il Sindaco. – Hai forse dei problemi col tuo Direttore Didattico? Forse hai avuto delle parole con qualche insegnante? Accomodati, prego. Sono tutto per te -.

- Caro Sindaco. Voi sapete che da diversi anni tutto il mio parentado vota per voi. Lo so, lo so, che noi abbiamo avuto dei favori, dei grandi favori da parte vostra. Il posto che io e Nicola occupiamo lo dobbiamo principalmente a voi e noi ve ne siamo grati per tutta la vita. Ma ora c'è un piccolo problema e ci dovete aiutare, come al solito. Non ce la facciamo più. Tutti i nostri risparmi se ne vanno a telefonate. Ci stiamo completamente rovinando. I nostri figli, come voi bene sapete, sono lontani e per comunicare con loro usiamo spesso il telefono. Il telefono, però, è la nostra rovina. Nicola è diventato nervoso, non mangia, non dorme, dice che taglia i fili del telefono se non la smetto di chiamare i miei figli all’estero. Ecco, guardate questa bolletta. Sono cinquecentomila lire da pagare. Sono venuta da voi per chiedervi, per dirvi, voi lo sapete che siamo del vostro partito, mio marito ha finanche la tessera e la porta sempre nel portafoglio, poi si fa a pezzi durante la campagna elettorale, va sempre in giro a fare propaganda, gira sempre con i santini ed i fac-simili in tasca per far votare la gente al nostro e al vostro partito, ogni tanto, magari, volevo dirvi, se Nicola, la mattina prima di andare a lavorare e quando va ad aprire la porta del Municipio potesse fare qualche telefonatina usando il telefono del Comune. A quell’ora non c’è nessuno in Comune, nessuno lo vede, perché, sapete, lui si vergogna, poverino, è fatto così. Sono venuta io qua stamattina senza dire niente a lui. Si sarebbe arrabbiato, il mio caro Nicola. E’ fatto così -.

Il Sindaco la fece parlare, poi la guardò bene in faccia e disse : - Ma, mia cara Marinella, cosa stai dicendo? Ma in questo benedetto paese siamo tutti impazziti? Per carità, Marinella mia, non venirmi più a disturbare per cose simili, io ho molto da fare qui. Non ho tempo da perdere. In Comune ci sono cose più importanti della tua bolletta telefonica. Non è possibile poi usare il telefono del Comune per faccende personali. Il telefono del Comune serve per il disbrigo di pratiche inerenti all’Ufficio e non per conversazioni familiari. Per queste dobbiamo usare necessariamente il telefono che abbiamo nelle nostre abitazioni. Dio mio cosa mi capita sentire chiedere oggi dai miei elettori! L’hai fatto adesso, non lo fare più, mia cara. Vai a casa e cerca di usare il telefono con parsimonia. Se poi vuoi chiamare i tuoi figli all’estero, chiamali ogni tanto e nei giorni festivi - .

Marinella si alzò tutta scura in volto per la vergogna e si avviò verso l’uscita. Mentre il Sindaco , scuotendo la testa, prese in mano la cornetta del telefono ed incominciò a digitare un numero telefonico. Gli occhi di Marinella erano fissi sul telefono del Sindaco, il quale aveva composto il prefisso 089, quello del distretto di Salerno. Marinella indugiò ancora un po’ prima di andare via e orecchiò questa conversazione. - Ciao, Mario, come stai? Quando ritorni a casa? La mamma ti sta aspettando. Sentiamo la tua mancanza. Portaci le sfogliatelle di Napoli, a mamma piacciono tanto. Hai preparato l’altro esame? Dimmi, come sta Gianna? Viene con te in vacanza?-

Il Sindaco voleva sapere dal figlio Mario, che studiava presso l’Università di Salerno. quando sarebbe rientrato a casa per le vacanze estive e se aveva preparato un altro esame.

 


 

 

  

Una grande ”M” cucita sul petto

Anno scolastico 1939-1940: iscrizione alla prima classe elementare e prima iscrizione al Partito Nazionale Fascista come “Figlio della Lupa” con tessera n°.512256. Da quel momento anche io, come del resto tutti i bambini d’Italia dai 6 agli otto anni, feci parte della gaia schiera dei ragazzi di Mussolini. E così mia madre, nonna Teresa e zia Peppina, la sarta del paese, confezionarono la camicia nera, il pantaloncino grigio-verde e le due fasce bianche incrociate dove spiccava una bella lettera maiuscola, la M di Benito Mussolini, il nostro Duce. Il berretto col pennacchio e il fucile di latta li comprò mia madre in un negozio in Amantea. Una vicina di casa, la sig.ra Carolina, mi regalò un’aquila reale che io poi attaccai al berretto.

Quando indossai la prima volta la divisa ero molto eccitato, non credevo l’ora di uscire fuori e farmi ammirare dai compagni di scuola. Non tutti allora possedevano la divisa prescritta, poiché la maggior parte degli scolari erano poveri. Con quel fucile di latta, con la grande M sul petto, col berretto col pennacchio, sembravo un generale.

Un sabato mattina dovevamo ricevere per la prima volta la visita del signor Direttore Didattico della vicino Amantea. La nostra scuola, infatti, dipendeva da quel circolo didattico e così la maestra, per l’occasione, impose agli alunni che la possedevano di venire a scuola con la divisa di “Figli della Lupa”.

La mattina di quel sabato fu un giorno memorabile. Il piccolo alunno delle scuole elementari di S. Pietro in Amantea indossò per la prima volta la divisa fascista e cantando a squarciagola per le vie del paese si avviò a scuola. Anche il nonno materno, quella mattina, era presente al rito della vestizione. Non era un antifascista, non era però nemmeno un fascista convinto. Quando beveva, però, e beveva spesso e volentieri, ne diceva di tutti i colori nei riguardi di Mussolini e dei gerarchi e gerarchetti del luogo. La cosa buffa era che quasi tutti erano suoi parenti  e, per evitargli dei guai, facevano finta di non sentire, lo evitavano oppure andavano a rinchiudersi nelle proprie abitazioni.

Quando fu il momento di uscire si avvicinò, mi strinse il braccio destro e disse:- Oggi ti sei vestito di Pulcinella, è già venuto carnevale? Sai il significato di quella M che porti sul petto? Merda, significa. Anche tu da oggi in poi sei come lui, una merda -. E mi diede uno spintone che per poco non mi fece ruzzolare dalle scale. Poi si calmò e disse :- Prendi la cartella e vai a scuola, i tuoi compagni ti aspettano. Anche per te oggi sarà un grande giorno, un giorno importante -.

I miei compagni erano già davanti la scuola che aspettavano la maestra, la quale quando arrivò ci fece subito entrare in classe senza aspettare il suono della campanella. Ispezionò le nostre mani, le orecchie, i vestiti, per vedere se fossero puliti e ci fece l’ultima raccomandazione:- Rispondete tutti alle domande del Signor Direttore -. Poi ci fece intonare una canzoncina che avevamo imparato a memoria e sulla quale da circa un mese ogni mattina ci esercitavamo per ben due volte. Era l’inno fascista “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”. Piaceva tanto alla maestra e piaceva tantissimo al Direttore che quel giorno avrebbe visitato la nostra scuola per la prima volta.

Si presentò il Direttore tutto tronfio, con la divisa fascista, e con certe medaglie sul petto della giacca. Erano decorazioni di guerra. Infatti era un ex combattente della prima guerra mondiale. Fu ferito in guerra e restò mutilato della mano destra. Era accompagnato, per l’occasione, dal Cav. Sconza, Podestà del paese. Subito la maestra ci fece alzare in piedi e ci fece intonare “Giovinezza”. Il Direttore approvò e la maestra ed il Podestà si guardarono in viso sciogliendosi in sorrisetti di compiacimento come per dire .- I nostri scolari sono bravissimi -.

La maestra per dimostrare al Direttore quanto davvero fossimo bravi chiese ad un compagno di classe il nome di battesimo del nostro Duce. – Benito Mussolini, rispose -. E il nome del nostro Re?- - Vittorio Emanuele III-. E poi chiese ad un altro:- Conosci un motto del Duce che ti è piaciuto di più?-. E quello rispose :- Libro e moschetto, fascista perfetto -. E poi ad un altro :- Conosci un altro motto del Duce?-. - E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende -. - Bravi -, disse il Direttore. - Così devono rispondere le gaie schiere dei ragazzi del nostro Duce -. Quindi si rivolse a me che ero seduto in seconda fila vicino alla finestra. Fu attratto forse dalla divisa di “Figlio della Lupa” o forse da quella bellissima aquila reale che avevo attaccata sul berretto. Mi chiese come mi chiamavo. Tremavo dall’emozione e non seppi rispondere. Abbassai il capo e scoppiai a piangere. La maestra ed il Podestà, nascondendosi dietro le spalle del Direttore, si affannavano a suggerirmi il nome. Visto ogni vano tentativo la maestra si fece avanti e mi presentò al Direttore dicendo che mia madre era una brava donna rurale fascista e che mio padre, emigrato all’estero, era un fabbro ferraio. Il Direttore mi accarezzò e con voce paterno mi rivolse di nuovo la parola. – Non ti preoccupare, figliolo, si vede che sei un po’ timido. Hai un bel nome. Porti il nome di S. Francesco, il santo calabrese, e poi tuo padre esercita un nobile mestiere, il mestiere del papà del nostro Duce. Ora dimmi :- Cosa significa quella grande M che porti cucita sul petto?-. Avevo, nel frattempo, alzata la testa e vidi la maestra e il Podestà che con la mano facevano cenno alla fotografia che si trovava sulla parete a destra del Crocifisso e sotto voce bisbigliavano:- Mus.…..  Avanti, figliolo, sono sicuro che hai una bella voce, fai sentire a tutti noi cosa vuol dire quella bella M che tua madre ti ha cucito sul petto. Avanti, sei tu orgoglioso della divisa che indossi?-. - Sì, signor Direttore, gridai -. – Bravo. Vedi che sai rispondere alle domande. E allora quella M maiuscola cosa vuol dire ?-.

Ero nel frattempo diventato sicuro e sereno e ricordandomi quello che mi aveva detto il nonno poco prima sparai a gran voce in faccia al Direttore, da bravo “Figlio della Lupa”:- Merda, signor Direttore!-. Il Direttore impallidì e non disse nulla, mentre la maestra rossa dalla vergogna indietreggiò e cadde svenuta per terra.

 


 

 

Ricordi di scuola

Gli avvenimenti scolastici difficilmente vengono dimenticati, restano sempre vivi nella nostra memoria.

Se chiudo gli occhi rivedo e ricordo la mia aula scolastica di prima elementare, dove ho imparato a leggere e a scrivere, i cari compagni di classe, molti dei quali avevano la testa rapata a zero non solo per paura dei pidocchi ma anche per risparmiare il taglio dei capelli. Le avventure, poi, specialmente quelle di pessimo gusto, le ricorderò sempre.

Devo premettere che la mia aula scolastica di prima elementare era ubicata in una casa di civile abitazione. L’edificio scolastico era, per quei tempi, un sogno, un sogno irrealizzabile.

Una mattina era entrata nella nostra aula la mamma di una nostra cara compagna ammalata. Era venuta a scuola per giustificare l’assenza della figlia. La maestra, preoccupata pure lei per l’assenza prolungata dell’alunna, fece accomodare la signora sull’unica sedia che avevamo a disposizione e l’ascoltava con affettuoso interesse. Si interessava della salute della cara compagna, rincuorava la mamma e le dava pure qualche consiglio.

Guardando le due donne che conversavano a bassa voce si vedeva nei loro volti che tutte e due erano un po’ preoccupate. Intanto, noi, mentre il tempo scorreva veloce, incuranti della presenza di un adulto in classe, incominciammo a fare boccacce, a fare versacci, a tirarci addosso palle fatte di carta, a fare la guerra con le righe da disegno. La maestra ci guardava con la coda degli occhi e ogni tanto ci invitava a fare silenzio e a stare buoni, buoni.

Una compagna di classe di nome T. chiese di uscire perché aveva urgente bisogno di andare in bagno. Nella nostra scuola il bagno non c’era. Dovevamo uscire fuori e fare pipì in aperta campagna, sotto un ponticello o lungo un ruscelletto che scorreva nelle vicinanze della scuola. Ritornò poco dopo. Era felice , contenta e paonazza. Dai suoi atteggiamenti subito capii che aveva combinato una marachella delle sue. In classe e fuori ne combinava di tutti i colori.

Sul momento gli altri compagni non dettero peso alla cosa, né la maestra si accorse di nulla. Come poteva, se ancora stava conversando con la mamma della nostra compagna ammalata? Ma nell’uscita di scuola, quando la nostra compagna F., figlia del farmaciste del luogo, indossò la giacchetta nuova di lana e infilò le mani in tasca, capii cosa aveva combinato. La compagna F. si mise ad urlare come una pazza:- Cosa mi avete combinato? La giacca è nuova e costa pure tantissimo! Chi ha messo questo mostriciattolo, questa bestiaccia nella tasca della mia giacca nuova? Se scopro chi è stato, giuro che gliela farò pagare caro!-

Nella tasca effettivamente c’era una rana che appena tolta dalla tasca e buttata sul pavimento si mise a gracidare e a saltare, suscitando l’ilarità di tutta la scolaresca. Nessuno fiatò. A me venne in mente la faccia della compagna T. quando era ritornata dal bagno. Non potetti dire niente altrimenti mi avrebbe dato una bella lezione.

Il finale della vicenda fu però molto carino. La compagna F. scoppiò a piangere e tutti cercammo di consolarla. Quando si fu un po’ calmata, si avvicinò la compagna T e confessò: - Sono stata io. Di nascosto ho pure provato la tua giacca, è molto carina. Sapessi quanto mi piace! Io non potrò mai indossarne una, perché noi siamo poveri. Ho provato in un primo momento a nascondere la tua giacca perché volevo impossessarmene. Poi ho desistito. Ho voluto farti, però, un dispettuccio. Avevo preso una rana nel ruscello e non sapendo dove nasconderla ho pensato subito alla tua giacca. Ho fatto tutto da sola, però, con riguardo. Ma quando hai scoperto subito la rana ci sono rimasta malissimo. Ti prometto che non lo farò mai più -.

F. sorrise e disse:- Hai sempre idee fantastiche!-

 


 

 


 

“Sciuollu! Cumu ha da fare oie chin’è luntanu!”

 

 

Così scriveva Ciardullo tanti anni fa in una sua nota poesia natalizia. E’ vero. Il Natale per i calabresi è la festa più importante dell’anno, è una festa familiare. Dice un antico proverbio:- A Natale con i tuoi, a Pasqua con chi vuoi -. E anche se durante l’anno per motivi di lavoro si trovano lontano dalle loro case e dai loro affetti, a Natale ritornano nei loro paeselli natii a trascorrere le feste con i parenti e gli amici, anche se la casa è sperduta nelle campagne o tra i boschi dell’Aspromonte e della Sila, e non ha quelle comodità che ha una casa di città. E quelli che non hanno la possibilità di ritornare neppure a Natale per visitare i luoghi dove sono nati e dove hanno lasciato i più bei ricordi della loro fanciullezza e giovinezza, sentono tanta nostalgia della loro terra e le festività natalizie accentuano i ricordi. “Na cosa oie desideru: la casicella mia!”

Non desiderano soltanto la loro casetta anche se angusta e priva di confort, ma pensano alla tavola apparecchiata che si preparava una volta con 13 pietanze diverse, al fuoco acceso nel camino di casa e al grande falò che si accendeva sul sagrato della chiesa, dove grandi e piccini, ricchi e poveri, si riscaldavano la sera della vigilia, intrecciando canti, balli e danze, aspettando il suono festoso delle campane che annunciavano la nascita del Bambino Gesù.

Sognano a occhi aperti tutta la famigliola “ricota” da ogni angolo della terra intorno al fuoco e alla tavola “parata”, alle fritture di una volta, agli zampognari scesi dai monti oscuri che allietavano la serata col suono delle loro ciannamelle.

“Sona zampugna! Portame luntanu alli tiempi felici e quatraranza!”, sembrano dire i calabresi ovunque sparsi per il mondo, perché il suono festoso della zampogna gli fa ricordare la loro fanciullezza spensierata e la festa più bella dell’anno, la più sentita.

Sono tristi gli emigranti calabresi se non ritornano per Natale nei vecchi paesi abbandonati, perché lì hanno lasciato i loro vecchi genitori che profondamente soffrono la loro lontananza e che aspettano trepidanti il giorno del loro ritorno, almeno per il Natale: “Veniti, figlicieddri, a mi trovari; luntanu ‘i vui ‘sa vita è ‘nu muriri!”

Il Natale, dunque, per tutti i calabresi ovunque dispersi ha un posto particolare nei loro cuori. E il fuoco scoppiettante delle “focare”, e i canti natalizi delle chiese, e tutti gli usi e i riti di una volta, sono ancora impressi nelle loro menti, e l’odore dei cullurielli, dei turdilli, delle trizzille, dei ciccitielli, gli riportano nella loro memoria la Calabria di un tempo, che, ahimè, oramai è scomparsa per sempre, anche se quella cara Calabria che ancora ricordano con nostalgia non ha saputo dare loro un posto di lavoro e li ha costretti ad andare raminghi per il mondo a mendicare un lavoro e un tozzo di pane amaro. Ah! Come sa di sale il pane altrui e com’è triste lo scendere e il salir per l’altrui scale!

E ora che Natale si avvicina, che il crudo inverno bussa alle porte, che i monti silani e aspromontani si ricoprono di candida neve, che il vento sibila sempre più forte, che la tempesta costringe grandi e piccini a restare chiusi in casa intorno ai camini scoppiettanti, l’emigrante calabrese, lontano dalla sua amata terra di Calabria, si appoggia ai vetri della finestra e guarda fuori e pensa e sogna ad occhi aperti. Sembra di ascoltare le voci dei ragazzi che si rincorrono per le vie e le piazze del suo paese natio; sembra vedere i giovanotti trascinare i grossi tronchi di albero che servono per alimentare il fuoco di mezzanotte; sembra vedere le fanciulle portare nelle grandi ceste il muschio “U lippu” che sono andate a raccogliere nei boschi e che servirà per preparare il presepe, e tremante e piangente  sembra ripetere :- Su ianche già le vie: Puoddrulie!-

Quelli che sono rimasti in Calabria e che sono stati quindi i più fortunati, grazie al consumismo sfrenato e alla disgregazione sociale, hanno dimenticato queste usanze e questi riti magici, queste tradizioni che si tramandavano da padre in figlio. Nelle case l’albero di Natale ha preso il posto dell’antico presepe; il panettone ha preso il posto dei turdilli; lo spumante ha preso il posto del moscato e del vino fatto in casa; la televisione ha preso il posto della tombolata; i concerti rock il posto della zampogna; i termosifoni hanno preso il posto dell’accogliente caminetto acceso; le luci multicolori hanno preso il posto della grande “focara” sul sagrato della chiesa.

Le tradizioni sono ormai un dolce ricordo dell’infanzia e i racconti degli animali che parlavano la notte di Natale, le piante che fiorivano e che davano frutta prelibata, le fontane che versavano olio e vino, l’acqua dei fiumi che si trasformava in latte e miele, sono soltanto una invenzione della nonna e si perdono nella realtà del presente. Miti, leggende popolari, credenze, usanze, tradizioni, costumi, pratiche religiose che hanno resistito per millenni e che hanno rappresentato l’unica fonte di evasione e di consolazione per i calabresi colpiti dalla miseria e dalla fame, sono stati spazzati via inesorabilmente dal progresso tecnologico.

In alcune città durante le feste natalizie si abbelliscono le vie cittadine con fantasmagoriche luminarie, si esibiscono cantanti famosissimi della RAI spendendo un sacco di milioni, si sparano fuochi d’artifizi al solo scopo, però, di accrescere la popolarità dei politici locali, preoccupati soltanto di fare spettacolo e di far divertire i turisti occasionali e qualche visitatore alquanto distratto.

Ma il Natale così concepito è privo di contenuti spirituali e religiosi, di sentimenti di affetto, di stima, d’amicizia, di rispetto. E anche gli auguri che ci scambiamo in fretta sono privi  del vero significato di una volta, di quell’affetto vero e sincero  che esisteva non solo tra familiari ma anche tra amici e vicini di casa i quali si ritrovavano tutti insieme in piazza intorno a quel fuoco scoppiettante dove davano inizio così ad una delle feste più “ricordate” dell’anno.

La preparazione del presepe con i pastori di creta fatti a mano, la raccolta del muschio, la raccolta della legna da ardere, la preparazione dei fritti natalizi, l’arrivo degli zampognari, la Messa di Mezzanotte, la processione del Bambinello, il posto a tavola lasciato vuoto se un familiare mancava al pranzo di Natale, lo sparo dei ”furgoli” e “tric e trac” prima di mettersi a tavola, le canzoncine e le recite, le “strine”, le letterine ai genitori nascoste sotto il piatto, erano festosi appuntamenti, dei veri e propri riti, ai quali partecipavano tutti gli amici e i parenti, i vicini e i lontani, perché la gioia per essere vera, autentica, si doveva dividere con gli altri. E se in qualche casa di un amico o conoscente non si friggeva perché colpito da un lutto recente, era usanza mandargli i fritti natalizi in grande abbondanza. I fritti erano simbolo di festa e perciò non si friggeva nelle case colpite da lutti recenti e che un antico detto popolare definisce per tale motivo :- Amara chilla casa ca nun si fria -.

 


  

 

 

 

Condanniamo gli altri e poi facciamo le stesse cose

 

 

Il mio salumiere di Corso Italia dove generalmente mia moglie va a fare la spesa, è un tipo molto allegro. Mentre serve i clienti, affetta la mortadella, taglia il caciocavallo silano, parla spesso di politica, di calcio, a tutti i costi vuole parlare dell’ Amministrazione della nostra città e delle cose che secondo lui non vanno, come il problema del traffico, il problema dei parcheggi, della droga e delle rapine che ogni tanto si verificano nella nostra città.

Spiega a tutti i clienti che il rimedio  a tutti questi mali lui ce l’avrebbe: basterebbe che ognuno di noi lasciasse la propria auto sotto casa ed usasse i mezzi pubblici più spesso quando si va a lavorare. Per i ladri, per gli imbroglioni, poi, basterebbe dare loro una bella lezione: a seconda della gravità del caso mozzare la mano destra, la mano sinistra, tutte e due, come fanno ancora oggi, dice lui, in alcune nazioni arabe. Per gli spacciatori di droga e per i rapinatori poi, li metterebbe tutti in galera a vita.

Mentre tutto infervorato discute con i clienti, entra nella salumeria un vigile urbano con in mano il blocchetto delle contravvenzioni. Gentilmente chiede. – Di chi è quella macchina blu parcheggiata in divieto di sosta? Signor……., lei lo sa a chi appartiene? Non solo è in divieto di sosta, ma sta ostacolando il traffico. C'è un pullman che non riesce a fare la svolta a sinistra. Sono costretto a chiamare il carro attrezzi per rimuoverla- .

- Oh! Signor Vigile, mi scusi, quella macchina è mia. La sposto subito- .

- La prego - rispose il vigile - un’altra volta parcheggi la macchina non in seconda fila, ma nelle strisce - .

Tutto rosso in faccia, abbandona la mortadella che stava affettando, spegne l’affettatrice e corre in fretta fuori a spostare la macchina.

Ritorna e si mette a discutere nuovamente come se nulla fosse accaduto. Prima di tagliare il prosciutto, che oggi supera 45.000 lire il chilogrammo, butta sulla bilancia elettronica 15 grammi di carta da involucro. Lui lo sa che sta commettendo una truffa, perché la legge dice chiaramente che gli affettati si devono vendere a peso netto e non a peso lordo come sta facendo, ma lui a queste cose non ci pensa, è sereno, tranquillo, ride beato, dietro il suo bancone sembra un padreterno, non lo sfiora l’idea che se venisse denunziato almeno, come dice lui, se non una mano, dovrebbero imputargli un dito della mano destra, perché in un etto di prosciutto ha rubato ai clienti 675 lire.

Ma questo vale per gli altri commercianti, non per lui. Perché lui le tasse le paga ed è un onesto lavoratore, che diamine!

 


 

 

Le Tradizioni sono solo un ricordo

"Il Natale è ormai quasi interamente dedicato allo shopping, mentre anni fa..."

Il Natale di oggi, il Natale di questo nuovo millennio, all’apparenza sembra uguale agli altri. Continua ad impazzire la corsa alla ricerca dei regali da fare ed i negozi sono affollati e restano aperti tutto il giorno finanche le Domeniche. E’ un Natale ricco e dispendioso, all’insegna delle folle spese e dello shopping.

Le strade, le vie, le piazze, i negozi sono illuminati a festa e le vetrine sfavillanti di luci e di colori sono piene di figure natalizie. Ogni tanto si vede qualche zampognaro infreddolito che si ferma davanti ai negozi intonando “Tu scendi dalle stelle”. Ai lati delle strade si vede ancora qualche vecchietta che vende il vischio, il muschio e il pungitopo. L’agrifoglio no, perché è proibito raccoglierlo.

Ma le famose tradizioni e i simboli di questa festa, che fine hanno fatto? Tutto dimenticato.

“ Sona zampugna, portami luntanu, alli tiempi felice e quatraranza, a nonna chi filava chianu chianu, ntramente me cuntava na rumanza”. Tempi felici quelli, bastava un fico secco scaldato sulla brace ed una fiaba raccontata dalla nonna e noi bambini eravamo felici e contenti. Quanta allegria c’era in quelle case povere, ma ricche di valori, persi ormai per sempre. Chi l’avrebbe detto, eh? Tutto si è perso o dimenticato, ma quello che è peggio moltissimi non ne sono a conoscenza. Oggi si parla di regali sfarzosi, di tredicesime, di panettoni, di torroni, di luminarie, di balli, di cenoni, tutto orientato al consumismo sviscerato. Nessuno si dedica più alla riscoperta e alla ricerca dei valori perduti che un tempo non lontano portavano festa ed allegria in ogni casa ed in ogni parte del mondo, perché era nato Cristo Gesù, in una povera stalla tra il bue e l’asinello.

Ma le famose tradizioni e i simboli di questa festa che una volta era prettamente religiosa che fine hanno fatto? Nelle case non si costruisce più il presepe come una volta. Si preferisce l’albero di Natale. Lasciamo cadere le nostre tradizioni ed importiamo quelle dei paesi nordici.

Quanto tempo dedicavamo alla realizzazione del presepe! E che gioia andare nei boschi alla ricerca del muschio. Generalmente veniva preparato in ogni angolo delle case sia ricche che povere dopo la festa dell’Immacolata. Le statuine di creta che gli artigiani locali facevano a mano e che avevamo ben conservato avvolte in carta di giornali in una scatola di scarpe nelle soffitte, venivano con cura srotolati ad uno ad uno e con la massima cura poi messi al posto giusto nel presepe. C’era la grotta che accoglieva Gesù Bambino riscaldato dal bue e dall’asinello, la Madonna, San Giuseppe e fuori gli zampognari, i pastori che portavano i doni a Gesù ed infine le montagne cosparse di farina per dare l’idea della neve con le pecorelle che brucavano l’erba.

E gli zampognari di una volta che scendevano dai paesi silani che fine hanno fatto? Suonavano in chiesa con le loro zampogne, ma anche per le vie dei paesi e si fermavano davanti ad ogni casa per augurare agli occupanti di quella casa un buon Natale, ma soprattutto per ricevere un’offerta. La Vigilia, sotto il fumo grigio dei camini, li trovavi in casa di amici che bevevano il vino e mangiavano frittelle.

Le strade dei paesi erano insolitamente animate, si sentivano rumori e uno scambio alterno di voci: tutti andavano a quella casa dove si erano fermati gli zampognari, guidati non solo dall’odore delle frittelle, ma anche dal suono flebile della zampogna.

Sgombravano frettolosamente i pochi mobili, un tavolo e quattro sedie, e i contadini e le contadine, si mettevano a ballare. L’indomani nessuno sarebbe andato a lavorare e potevano dormire fino a tardi: era la più grande festa dell’anno; era soprattutto il giorno nel quale si potevano fare cose impossibili e, forse, qualche pezzo di carne di capra o di montone cuoceva nelle pentole.

A mezzanotte tutti andavano in chiesa ad ascoltare la Santa Messa, mentre sul sagrato della chiesa ardeva un grande falò. La legna bruciava tutta la notte e la gente si riuniva intorno al falò prendendosi cura perché almeno un tizzone vi restasse acceso per la mattina.

I tizzoni che avanzavano venivano conservati come oggetti sacri, e quando si sentiva nell’aria minaccioso il brontolio dei tuoni, precursori delle tempeste, si esponevano fuori sul davanzale delle finestre o dei balconi, credendo vi fossero in essi la virtù di scagionarle. Si celebrava così un rito senza tempo, proprio come i Magi solevano fare in onore di Mitrha. Accendevano grandi fuochi magicamente caricati e alimentati da legna aromatica di misteriosa origine per salutare il sole invitto del solstizio d’inverno.

La mattina, poi, le contadine, vestite a festa, andavano nelle case dei loro padroni portando loro doni: uova, polli, bottiglie di vino, olio, conigli, capretti, e non erano ricambiati. Era consuetudine, allora, rendere omaggio ai padroni.

Quanti ricordi! Quanti ricordi di tempi semplici e belli! E non c’è maggior dolor che ricordarsi dei tempi felici anche se nella miseria: il Natale dei presepi, dei dolci caserecci, delle canzoncine, delle recite e della letterina ai genitori che nascondevamo sotto il piatto.

Natale oggi è il panettone, il torrone, lo spumante. Natale è andare in vacanza. Il Natale di una volta era invece: la tombolata, il fuoco scoppiettante nel camino, le padellate di “cullurielli”, il torroncino fatto in casa con mandorle e miele, il vino novello, le noci, le castagne al forno, i mandarini, i fichi secchi, le zampogne, “a strina”. Giova ricordare una figura caratteristica del Natale scomparso, quello dello “strinaro” che andava cantando, accompagnato dalla chitarra, a chiedere da bere. Se le porte delle case non si aprivano, non solo faceva un gran chiasso, ma il suo canto diventava dispettoso ed ingiurioso.

Per gli anziani queste tradizioni sono solo un ricordo, per i giovani soltanto cose futili ed inutili.

I giovanissimi di oggi, i ventenni, che vivono di motociclette, discoteche, paninoteche, coca cola, fra scuola e primi amori, non hanno più ricordo di queste tradizioni, di questi riti, consumati in un altro mondo e provenienti da un’altra cultura.

Ricordarli però fa sempre bene, per essere sempre vivi nella storia della nostra Calabria, per capire meglio la società di una volta diversa da quella di oggi, dove si parlava un linguaggio diverso, dove gioia e dolore venivano divisi con gli altri, dove tutti si aiutavano a vicenda, dove la parola “shopping” non era stata ancora importata in Italia e la gente non impazziva per i regali e per un Natale ricco e dispendioso.

 


 

 

 

Una grossa monelleria 

 

Questo racconto l’ho scritto dopo sessant’anni dall’accaduto ed è un triste ricordo che ancora oggi mi brucia dentro e non riesco a dimenticarlo.

Avevo all’incirca dieci anni e d’estate spesso andavamo in campagna dai nonni materni. La località era “Sangineto” nel comune di Terrati a circa mezz’ora di cammino, lungo la provinciale Amantea - Cosenza. Era un luogo bellissimo allora. I campi erano tutti coltivati e si respirava un’aria purissima. C’era di tutto: grano, granturco, ulivi, fichi, uva, pere, mele, nespole, ciliegie, melanzane, pomodori, piselli, fave, finanche i lupini. In ogni periodo dell’anno c’era sempre qualcosa. E i nonni si recavano in campagna ogni giorno, anche perché nelle stalle avevano polli, galline, conigli, alcune pecore e capre, e finanche il maiale che avrebbe dato la carne per tutta la famiglia per l’intero anno. E poi il nonno in un magazzino del casolare di campagna custodiva un ottimo vino in grandi botte di rovere. Il vino, a lui, piaceva tanto.

Era il tempo del granturco. Le grosse pannocchie erano mature al punto giusto e buonissime per essere arrostite o bollite e poi spalmate con un po’ di burro. A me piacevano tanto arrostite sulla brace e così pregai mia sorella Anna di prepararmene qualcuna. Ottenni un netto rifiuto. Mi rivolsi alla mamma, alle zie e tutti mi dissero che quel giorno erano indaffarate e non potevano perdere del tempo per soddisfare le voglie di un piccolo moccioso. Mi invitarono ad andare a giocare col cuginetto o con il vicino di casa, un certo Gabriele, molto più grande di me, che mi avrebbe insegnato ad acchiappare i grilli e le cicale, e che mi avrebbe insegnato a costruire lo zufolo e a suonarlo. Gabriele era per noi, molto più piccoli di lui, un mito, un grande maestro, un modello da imitare. Era bravissimo a scovare i nidi degli uccellini e a trovare i funghi nei luoghi più impervi. Ma io quel giorno non avevo nessuna voglia di giocare o di imparare a suonare lo zufolo. Volevo una pannocchia arrostita e quel giorno era il mio unico desiderio.

Allora sapete cosa feci? Presi un po’ di paglia e fieno e preparai un focherello. Lo alimentai con pezzetti di legno che trovai vicino l’aia. Non mi accorsi, però, che tutt’intorno c’era della paglia accatastata che doveva servire durante l’inverno da letto agli animali da cortile che erano nella vicina stalla.

La paglia prese fuoco ed in un baleno le fiamme avvolsero la stalla. Gli animali incominciarono ad essere nervosi e incominciarono a saltellare, a spingere con forza la porta della stalla ed i pali dello steccato per mettersi in salvo. I galli e le galline fecero un chiasso enorme, saltarono di qua e di là, agitarono le ali sollevando terra e polvere. I conigli si erano rifugiati sotto un cumulo di paglia.

Venni preso dal panico ed invece di chiedere aiuto scappai e andai a nascondermi senza dire niente a nessuno di quello che avevo combinato. Quando i parenti si accorsero del fuoco e che le fiamme avevano divorato la stalla, era ormai troppo tardi. Riuscirono a stento ad aprire la porta della stalla, ad abbattere qualche stecca del recinto, così gli animali presero il largo e furono tutti salvati. Dallo spavento si erano rifugiati nei boschi. Ci vollero diverse ore per trovarli e riportarli un’altra volta nella casa dei nonni.

Io, intanto, preso dal panico e dalla paura, ero arrivato tutto tremante sulla strada provinciale e dall’alto di un muretto seguivo la scena. Ad un tratto mi misi ad urlare:- Non sono stato io ad accendere il fuoco, è stato il monachiello -.

Lo steccato, la stalla, la paglia e tutta la legna che era accatastata nelle vicinanze andarono perdute, malgrado i ripetuti secchi d’acqua che furono riversati sulle tegole per spegnere il fuoco. E così la mamma, per mettere a tacere i brontolii del nonno Antonio, dovette pagare i danni che io avevo causato.

Avrei certamente meritato una bella punizione, ma la nonna che era tanto buona, mi perdonò anche questa grossa marachella. Il nonno, invece, che era molto burbero, non dimenticò mai l’accaduto. E quando ero in casa della nonna  ed  ero seduto sulla cassapanca vicino al focolare, col libro di quarta che avevo appoggiato sulle ginocchia e facevo finta di leggere, mi sentivo infelice e colpevole. Pensavo a mia sorella Anna, alle zie e a mia madre, con un certo rancore. Se mi avessero quel giorno accontentato, se mi avessero arrostito almeno una pannocchia, non sarebbe successo un bel niente ed io non sarei mai diventato un piromane.

Per molto tempo ebbi paura del nonno e non osavo guardarlo in faccia. Ogni sua occhiata, ogni sua parola erano carichi di sottintesi.

Dopo questo triste episodio non mi saltò mai in mente di accendere il fuoco o di fare cose da solo e a modo mio. Avevo ben imparato la lezione.

 


 

 

 

 Gli extraterrestri invadono la Terra

"Con la radio si poteva far credere a tutti di tutto, perfino l’invasione della terra da parte dei marziani"

Trenta ottobre 1938, un certo Orson Welles, dalla stazione radiofonica della CBS di New York, annuncia a tutto il mondo che gli extraterrestri erano sbarcati sulla terra e precisamente nello Stato di New Jersey e distruggendo boschi e città avanzavano indisturbati senza incontrare resistenza verso la città di New York.

Era una provocazione, ideata da quel geniale giovane attore di appena 23 anni, che provocò stupore, sconcerto, paura, panico e alla fine ribellione quando poi la gente si accorse che era una burla, una geniale trovata andata in onda alla vigilia della festa di Halloween, la famosa festa americana. Quella burla lo rese famoso e il suo nome divenne improvvisamente celebre in tutto il mondo.

Come nacque la burla? Ad un certo punto Orson Welles interruppe la regolare trasmissione “La guerra dei mondi”, così si chiamava quella trasmissione radiofonica a carattere fantascientifico, e mandò in onda una edizione straordinaria del notiziario.

Era sera, la gente era appena tornata dal lavoro, era seduta a tavola per la cena e seguiva con interesse il programma radiofonico preferito, quando all’improvviso il programma si interruppe e Orson Welles con voce concitata ed allarmata annunziò al mondo che i marziani erano sbarcati sulla terra. Avevano, diceva, armi terribili e nessuno li avrebbe potuti fermare. Avrebbero, secondo lui, distrutto ogni cosa.

La trasmissione prendeva spunto, ma nessuno ancora lo sapeva, da un libro pubblicato in Inghilterra “La guerra dei mondi” di George Herbert Wells, un romanzo fantascientifico del 1898 sull’invasione della terra da parte dei marziani, che gli diede in seguito fama e denaro.

La gente di New York, in preda al panico, abbandonò le proprie case, scese in strada piena di paura e con gli occhi rivolti al cielo aspettava da un momento all’altro di vedere i marziani invadere la città. Paura? Tanta. Anche perché nessuno poteva controllare quello che il giovane Welles trasmetteva dai microfoni della rete radiofonica CBS, la più importante e la più seria degli Stati Uniti d’America.

Tutto questo accadeva 65 anni fa quando ancora non c’era la televisione e nessuno poteva controllare tutto quello che Welles si stava inventando. Uscivano dalla radio voci spaventate e suoni drammatici che fecero davvero spaventare a morte milioni di ascoltatori i quali, quando si resero conto della geniale burla, presero d’assalto gli studi della CBS.

Ma Orson Welles non aveva inventato proprio nulla. Aveva preso in mano il famoso romanzo di George Herbert Wells e incominciò a leggere alcune pagine. Leggeva ad alta voce, inventandosi diversi personaggi, questo sì, ai quali faceva ripetere a tutti lo stesso terribile annuncio:- Aiuto! Siamo invasi dai marziani! I marziani avanzano senza incontrare resistenza! Bruciano case, boschi, villaggi!-

Con quella trasmissione, senza volerlo, aveva inventato la trasmissione in “diretta” e fu davvero la trasmissione che ebbe il più grande successo di tutti i tempi.

Ma era la vigilia di Halloween, il carnevale americano, e con quello scherzo così strano e geniale, Orson Welles volle dimostrare al mondo che con la radio si poteva far credere a tutti di tutto, perfino l’invasione della Terra da parte dei marziani. Quel programma risultò tanto credibile da suscitare angoscia e paura e in poche ore  terrore, perché gli americani presero per  vera la radiocronaca  raccontata dallo studio della CBS.      

 


  

 

A Vrascera

"Quando intorno ad essa era una gran festa"

 

I

 ragazzi di oggi, specialmente quelli che vivono in città, durante i mesi invernali non soffrono il freddo, e quando la sera vanno a letto non trovano le lenzuola freddissime. Le case di oggi sono ben riscaldate. Tutte hanno riscaldamenti centralizzati o autonomi a metano. Non sanno, quindi, cosa significa il freddo. Anche perché le scuole sono pure riscaldate. E se qualche giorno gli impianti di riscaldamento non dovessero funzionare i giovanissimi di oggi si rifiutano di entrare in classe.

Ai miei tempi le scuole non erano riscaldate. E quando davvero faceva molto freddo, con il fiato tentavamo di scaldare la punta delle dita ed eravamo costretti a stare con il cappotto e la sciarpa al collo. Ogni tanto la maestra si faceva portare da casa un braciere acceso per poter riscaldare un po’ l’ambiente. Non era proprio un braciere, era una padella col manico lungo, “a frissura”, adatta a trasportare i carboni ardenti.

Sicuramente della “frissura” e della “vrascera” i ragazzi di oggi non sanno niente, forse ne hanno sentito parlare un po’ vagamente dai nonni, sempre se hanno avuto la fortuna di averli. I ragazzi di oggi credono di possedere tutto, credono di avere avuto tutto dalla vita: comodità, benessere, soldi, biciclette, motorini, auto, televisione, computer, pub, discoteche, sala giochi, etc. A loro, però, è mancato qualcosa: l’intimità della casa. E’ mancato a loro qualcosa di veramente importante: la gioia, la serenità, l’amore della famiglia riunita intorno al braciere specialmente durante le lunghissime giornate invernali quando fuori infuriava la tempesta e tutti erano costretti a stare nelle proprie case.

Il nonno, con la paletta in mano, ogni tanto muoveva il carbone acceso e poi lo ricopriva con la cenere per mantenere a lungo  e sempre viva la brace. Questo era un compito importantissimo che la famiglia gli aveva affidato e lui ne andava fiero. Come riassettava lui il fuoco non c’erano eguali. La nonna e la mamma, invece, filavano o sferruzzavano, mentre io e mia sorella Anna coi libri poggiati sulle ginocchia facevamo finta di leggere. Non avevamo nessuna voglia di studiare. Ascoltavamo i ragionamenti degli adulti che si facevano allora: la guerra, Mussolini, i soldati che morivano di freddo e di fame in Russia, la scarsità del raccolto, il tesseramento, la scarsità del cibo, il freddo pungente che non voleva andare via.

Se domandate ad un ragazzo di oggi cosa sia un braciere o non vi saprà rispondere oppure vi dirà che è un sottovaso finemente lavorato dove la mamma ha posto nel salotto o nel soggiorno una bella pianta ornamentale. Ecco a cosa serve oggi il bel braciere di una volta, è stato declassato ad un semplice portavasi. Invece, una volta, era ritenuto un oggetto indispensabile ed essenziale per la casa, sia essa ricca che povera. Le ragazze, poi, quando si sposavano ne portavano, fra le altre cose, uno in dote.

Il braciere era un recipiente circolare, per lo più di metallo, con due manici, che doveva contenere le braci accese per riscaldare le stanze. Era noto fin dai tempi più antichi. Nelle case dei ricchi e dei nobili c’era il braciere di ottone  finemente martellato e con manici pesanti ben lavorati e con il fondo di rame. Era più resistente al calore delle braci, durava più a lungo e si manteneva sempre lucido. Nelle case dei poveri, invece, c’era il braciere di latta che spesso il calore del fuoco bucava il fondo e faceva cadere la cenere per terra.

Di ottone o di latta, il braciere non poteva restare così in mezzo alle stanze. Aveva bisogno di un mobile di legno, una specie di ruota del diametro di circa un metro e venti centimetri, col buco in mezzo, costruito in modo che doveva tenere sollevato il braciere da terra. Il bordo della ruota serviva poi come poggia piede per tutti i componenti della famiglia.

Gli accessori essenziali del braciere erano: la paletta di ottone o di ferro, che serviva per muovere le braci e poi ricoprirle con un sottile strato di cenere; la pinza, che serviva per prendere le braci ardenti dal caminetto; il ventaglio e la “magara”. Quest’ultima a forma di imbuto bucherellato fatta di latta serviva per il tiraggio. Senza la “magara” a volte era difficile accendere i carboni.

Perché si chiamava “magara” ? Quante volte me lo son chiesto e mai ho saputo darmi una risposta plausibile. Deriva forse da  “magaro” ,“magaria” o da magia? Chissà! Certamente era l’oggetto indispensabile per accendere il braciere e in pochi minuti compiva la magia di trasformare la legna e i carboni in brace ardente.

Ma il braciere di una volta a differenza dei termosifoni di oggi spesso ubicati sotto i davanzali delle finestre o in un angolo della casa, compiva un’altra “magaria”: aveva il compito di riunire tutta la famiglia specialmente di sera. Non solo ci dava calore che riscaldava tutte le membra, ma ci dava calore umano.

Stare tutti uniti, stare tutti vicini, ci faceva sentire una sola famiglia, un corpo ed un’anima sola. Il calore che emanava dal braciere ci accomunava e ci disponeva a comunicare fra di noi, a raccontare barzellette, “rumanze”, le vicende della vita, tutti i nostri pensieri, tutto il nostro vissuto, gli affanni, gli amori, i tormenti, le soddisfazioni, le gioie e le pene, diversamente da oggi, i cui componenti della famiglia non si incontrano neppure a pranzo e a cena e il calore e il tepore del termosifone non ci dispongono a stare vicini e insieme, a sentire l’uno il calore, l’umore, l’odore dell’altro. Le case oggi sono meglio riscaldate, in esse si vive meglio, diversamente da ieri. Oggi, però, il tepore del termosifone è fine a se stesso. Riscalda sì l’ambiente, non riscalda però i nostri cuori, non dispone a niente.

 


 

 

Tra i banchi di scuola

"Ricordi e suggestioni di un  tempo che fu"

 

L

a scuola di una volta, quella che io ho frequentato per la prima volta sul finire degli anni trenta, aveva questo gravissimo compito: insegnare agli scolari a scrivere, a leggere e a far di conto. Si acquisivano, anche se alla buona i primi rudimentali strumenti del sapere e le prime competenze strumentali indispensabili per la vita di allora.

Bisogna rendere omaggio a quella scuola perché da essa sono uscite diverse generazioni di alunni che poi hanno fatto grande l'Italia.

La scuola elementare era considerata scuola dell’obbligo per i ragazzi dai sei agli undici anni. L’obbligatorietà di frequentare la scuola media risale soltanto all’anno 1962.

Non tutti i comuni d’Italia possedevano edifici scolastici e locali idonei per le scuole. Spesso erano locali improvvisati, privi di servizi igienici, di luce naturale e di luce artificiale. Nelle campagne, poi, la scuola era ubicata in sperduti casolari diroccati, lontani ed inospitali. Il più delle volte erano stalle con assoluta povertà di sussidi didattici e di suppellettili: un tavolo sgangherato, una lavagna, quattro banchi di legno e una carta geografica rattoppata. Anche l’armamentario degli scolari era povero: un libro di lettura, un sillabario, una matita, una gomma, un astuccio col pennino, un quaderno a righe ed un altro a quadretti, un calamaio. Il tutto racchiuso in una cartella di stoffa o di legno per i più poveri, una cartella di carta pesta di colore giallo per i più ricchi.

Ah, il calamaio! L’inchiostro sempre fuoriusciva ed avevamo sempre le mani impiastricciate di nero e la camicia ed i pantaloni imbrattati. Costringevamo le nostre mamme a lavori straordinari, anche perché col bucato di una volta l’inchiostro difficilmente andava via dai vestiti.

Nostalgia, rimpianto di quei tempi lontani? Tantissimo. Non mi vergogno davvero nel confermarlo. Non credo che qualcuno voglia farmi sentire in colpa se ricordo ancora con tanto affetto la mia aula scolastica, la mia maestra di prima elementare che con tanta pazienza e bontà  guidava la manina ancora incerta alla conquista gioiosa delle lettere dell’alfabeto. Ricordo con affetto e nostalgia i cari, i vecchi compagni di classe. Impossibile non pensare a loro. Se chiudo gli occhi li rivedo uno per uno.

E poi lei, la buona, la cara, la dotta, l’impareggiabile maestra Adele Politano, seduta dietro il tavolo, sotto un piccolo crocifisso appeso al muro tra i ritratti del Re Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, il nostro Duce. Ricordo il suo sguardo materno, il suo dolce sorriso.

Sul tavolo c’era l’immancabile registro di classe dove  la maestra registrava le assenze, le note e le osservazioni sistematiche, una guida didattica che consultava spesso, una penna, un calamaio, un foglio di carta assorbente ed infine una bacchetta di legno ben levigata larga circa tre dita e lunga mezzo metro.

Ahi, ahi, la bacchetta di infelice memoria! Adesso la bacchetta non si usa più nelle nostre scuole, i tempi sono cambiati ed i metodi di correzione sono completamente diversi da quelli di una volta. Non avevi imparato a memoria i verbi? Cinque bacchettate. Non avevi imparato la tavola pitagorica? Dieci bacchettate. E se nella deprecabile ipotesi rispondevi alla domanda del maestro che il poliedro era un asinello allora le bacchettate erano parecchie. E che male facevano, specialmente d’inverno, quando le mani erano completamente gelate dal freddo. Non ti potevi neppure lamentare, altrimenti la pena veniva raddoppiata. E se poi ti lamentavi a casa col babbo e con la mamma ti rispondevano:- Ha fatto benissimo. Se incontrerò la maestra la ringrazierò e le dirò di fare peggio-

E giù quattro scappellotti. Oggi, come minimo, il maestro       andrebbe diritto in tribunale, processato ed allontanato dalla scuola.

La bacchetta aveva il suo posto d’onore sul tavolo della maestra, a destra del registro e guai a chi osava toccarla. Veniva guardata con disprezzo. Scompariva, immancabilmente, quando in classe arrivava qualche supplente giovane. Come d’incanto ricompariva quando ritornava la vecchia maestra. Certe volte erano gli alunni più bravi, i secchioni, quelli che sedevano ai primi banchi, che si incaricavano di portarne una nuova. Se la facevano preparare dal falegname del luogo, il quale non osava minimamente dire di no alla richiesta del “mastro e scola”. Il maestro, una volta, era rispettato, amato e preso in grande considerazione, specialmente nei piccoli paesi. Il parroco, il medico, il farmacista, il maestro di scuola erano gli unici che sapevano leggere e scrivere e quindi erano i soli capaci di leggere e scrivere le lettere dei congiunti emigrati in terre lontane.

Altri tempi, altra scuola, altri ragazzi, altri metodi! Ora la bacchetta a scuola non si usa più. E se qualche volta capita a qualcuno di visitare una scuola e trovare una bacchetta sulla cattedra, non si deve allarmare. Quella bacchetta serve tutt’al più agli alunni per individuare sulla carta geografica le regioni italiane, i fiumi, i laghi, i monti ed i mari della nostra penisola. E se a qualche viandante distratto e occasionale, passando sotto le finestre di una scuola, capita di sentire tra le voci dei ragazzi un bel colpo sulla cattedra, non si deve minimamente preoccupare. Non è scoppiata nessuna rivoluzione in classe. E’ stata la bacchetta.

Ah, la bacchetta! Che fine ingloriosa ha fatto! Povera, infelice, odiata bacchetta!

Così scrisse il compianto Ispettore Scolastico Dott. Mario Valentini in un suo articolo tanti anni fa nel ricordare la bacchetta:- Da simbolo dell’autorità magistrale e strumento di pedagogica correzione a mazza di tamburo -.

 


 

 

 

I racconti della nonna

"L’albero di Natale"

 

H

o avuto la fortuna di avere una nonna così buona, ma così buona, la compianta nonna Teresa, madre di mia madre, che non mi ha mai sgridato, qualsiasi cosa io facessi.

Ero piccolo quando mia madre si ammalò gravemente e fui costretto ad abbandonare la casa dove nacqui per andare a vivere in casa della nonna alla “Caciarogna”, così si chiama quella località caratteristica del paese prospiciente il mare e la ridente località “Terramarina”.

Essendo mia madre ammalata stavo quindi notte e giorno con la nonna. Quando andava in campagna, a “Sangineto”, non mi faceva mai camminare a piedi. Mi metteva dentro una grande cesta, quella che serviva per fare il bucato, e mi portava sulla sua testa, come facevano le contadine di un tempo. Tutti i miei desideri venivano esauditi, anche i più bizzarri. Quando ero stanco e fingevo di avere voglia di dormire, pregavo la nonna di raccontarmi qualche “rumanza” e lei era sempre pronta ad esaudire la mia richiesta, anche se era stanca dopo aver lavorato in campagna per tutto il giorno.

Era bravissima nel raccontare storie e “rumanze” che spesso improvvisava. Erano sempre bellissime e tenevano sempre desta l’attenzione. Non mi stancavo mai di ascoltarle. A volte le chiedevo:- Nonna, nonna, mi racconti la storia di quel brigante che accusato ingiustamente dovette fuggire di casa e così diventò uccel di bosco?- La nonna non lo ricordava, perché aveva inventato quella storia, allora era costretta ad inventarne un’altra. E così fu per diverso tempo fino a quando mia madre guarì e mi condusse nella nostra casa in Via del Popolo, allora Michele Bianchi. Ma io non ero contento, volevo stare a casa della nonna. Quella era diventata casa mia. Infatti quando veniva mia sorella Anna a trovarmi dicevo indispettito:- Cosa vuoi? Vattene, questa è casa mia -.

Di storie e di “rumanze” ancora oggi ne ricordo parecchie. Ne ricordo una, assai bella, che a distanza di anni è rimasta impressa nella memoria.

Rosa, donna povera povera, era vedova da tre anni e madre di cinque figli piccoli. Abitava, fra lo squallore, in un tugurio in Via Pappone. Ogni giorno, di buon mattino, andava in giro per le campagne circostanti del paese e dava la mano ai contadini ed alle contadine, ai braccianti, ai taglialegna, ai carbonari, a chi aveva bisogno, insomma, della sua opera e così riusciva ad avere un tozzo di pane da portare ai figlioli che nel freddo e nudo magazzino l’aspettavano con ansia e tremanti.

La vigilia di Natale di tantissimi anni fa’, mentre fuori infuriava la bufera e dopo aver messo a letto i figlioli, con una lanterna in mano uscì di casa. Si avviò lentamente verso una località denominata “I Comuni” dove vegetavano e vegetano tuttora alcuni pini ed abeti. Anche per i suoi bambini mamma Rosa voleva preparare un bell’alberello di Natale con appese castagne, mele, arance e qualche moccolo di candela.

Con un’accetta, che s’era portata dietro, tagliò una giovane pianta, quindi rifece lentamente la strada, mentre il vento pungente tagliava il viso della povera donna. Prima che arrivasse in paese venne fermata da una guardia campestre e l’alberello le fu sequestrato.

Rincasò e risveglio i suoi bambini. Un grido di dolore e di sgomento uscì da quelle boccucce. Intanto dall’unica finestrella dai vetri tutti affumicati era apparsa la testa di un bel signore che guardava commosso quella scena. Mamma Rosa e i bambini, con gli occhi umidi di pianto. si addormentarono, mentre il freddo si faceva ancora più pungente anche perché il fuoco che ardeva nel piccolo camino si era completamente spento.

Ad un tratto, senza che la porta si aprisse, comparve un uomo. Aveva con se’ un bell’alberello di abete, un fascio di legna e un sacco pieno. I bambini si svegliarono di soprassalto  ed ebbero paura. Stupiti guardavano quell’uomo, che senza profferire parola, accese il caminetto, preparò un bell’albero di Natale e mise sotto l’albero tantissimi regali. Poi, senza dare alcuna spiegazione andò via, ma si fermò a spiare dai vetri della finestra.

I bambini saltarono dal pagliericcio poggiato sul pavimento e incominciarono ad aprire i regali: mele, pere, arance, castagne, caramelle, cioccolata, scarpe, vestiti, pasta, ceci, lenticchie, pane e qualche bottiglia di latte. La signora Rosa aprì la porta e non vide nessuno, nemmeno un’orma sulla soffice neve.

Fuori, intanto infuriava la tormenta e la neve cadeva a folate. Gesù Bambino, quella notte, nel giorno della sua nascita, aveva voluto visitare la casa della povera vedova e portare un po’ di gioia a quei poveri bambini. 

Ricordo ancora la voce della nonna e mi sembra di avvertire quel calore che c’era intorno a quella “vrascera” accesa dove tutta la famiglia era riunita in quell’inverno di circa settanta anni fa.

I nonni di oggi sono capaci di raccontare ai propri nipotini le belle storielle che raccontavano i nonni di una volta? Ne hanno il tempo e la voglia? E i nipotini di oggi hanno il tempo e il desiderio di ascoltare le storielle che i nonni vorrebbero raccontare? Hanno pochissimo tempo, invero. Col tempo che passano davanti al televisore, al computer, ai video giochi, sono stanchi e intontiti. Non hanno tempo per ascoltare la voce dei nonni, figuriamoci le storie e le “rumanze” inventate da vecchi “rimbambiti” vissuti in un altro mondo, provenienti da un’altra cultura.

Il nostro passato per loro non conta, non interessa. Non lascerà tracce nel loro futuro. Che mondo sarà il loro? Certamente più bello e più comodo, pieno di divertimenti, pieno di soddisfazioni materiali, ma sul piano affettivo, sul piano dell’esperienza e del sapere spirituale, molto, ma molto povero.

 


 

 

C’era una volta una nonna…

 

Quando, la sera, tacito, sereno,

Per questi lochi inospiti m’avvio,

Ricordo un tempo di dolcezze pieno

Di baci, di sorrisi e di desio.

 

Quando la maestra elementare portò per la prima volta una radio in classe, fu una gran festa. Moltissimi miei compagni rimasero a bocca aperta. Non avevano mai visto un apparecchio radio. Io, invece, ne avevo visto due: uno nella canonica della chiesa di S. Bartolomeo Apostolo dove abitava il parroco don Gabriele Muti e l’altro in casa di mio zio, mastro Stefano, il meccanico e il fabbro del paese.

La radio era una specie di scatola di legno con l’insegna del fascio littorio. Sul lato destro c’era una spiga di grano e sul lato sinistro la scritta: Radio rurale.

La maestra girò una manopola e l’apparecchio incominciò a funzionare. Dall’interno uscirono suoni e canti e poi una voce annunciò l’inizio di una trasmissione per le scolaresche. Da dove venivano quei suoni? Da dove uscivano quelle voci? Come facevano ad arrivare da tanto lontano fino alla nostra scuola di un piccolo paese di provincia?

La maestra aveva intuito il nostro imbarazzo e incominciò a girare intorno all’apparecchio e disse:- Che cosa meravigliosa bambini! Noi siamo qui e possiamo ascoltare girando una semplice manopola quello che avviene a Roma, in Francia, in Russia e perfino nella lontana America. La radio fu scoperta da Guglielmo Marconi, un italiano come voi, un grande italiano. Ricordatevelo.-

I miei compagni, specialmente quelli che abitavano in campagna, stavano ad ascoltare con la bocca aperta e si agitavano nei banchi fino a quando la maestra disse loro che dentro l’apparecchio non c’era nessuno. Io mi davo, invece, una certa aria di superiorità, conoscevo a menadito il perfetto funzionamento, me lo aveva spiegato lo zio Stefano una sera dopo aver ascoltato una favola bellissima trasmessa in occasione di un avvenimento importante di cui a distanza di oltre sessanta anni mi sfugge il nome.

- Anche le favole trasmettono alla radio?- disse un bel giorno la nonna, tutta risentita ed accalorata. – Ora che avete la radio, io non vi servo più. Non avete più bisogno di me, di questa povera vecchina. Così ora, mentre voi ascoltate le favole trasmesse dalla radio, io potrò riposarmi, filare e sferruzzare in santa pace senza più essere disturbata.-

Io, la mamma, le zie, mia sorella, i cugini e le cugine, ascoltavamo ogni sera la radio specialmente le notizie del giornale radio. Le donne ascoltavano volentieri i consigli che dava alle massaie rurali. E la nonna? In un primo momento se ne stava in disparte e non partecipava alla festa di tutta la famiglia riunita intorno al braciere. Poi, quando era il momento delle favole, si metteva anche lei innanzi alla radio. Mi prendeva sulle sue ginocchia, il gattino acciambellato ai suoi piedi che faceva le fusa e ascoltava incantata come una bambina.

Sono convinto, però, che era un po’ dispiaciuta. Aveva perso di autorità, si sentiva un po’ esautorata, spodestata. Il suo posto era stato preso da una scatola di legno. Miracolo della scienza.

C’era una volta una nonna che sapeva raccontare così bene le favole e le “rumanze” e che ora, invece, è costretta a stare zitta ed ascoltare la radio….

 


 

La Befana 

Il 6 gennaio, in occasione della festa dell’Epifania, anche nel mio paese arrivava la Befana, quella favolosa vecchietta così cara ai bambini di tutto il mondo perché portava e porta ancora oggi tantissimi regali.

Questo mitico personaggio, secondo l’invenzione popolare e secondo i racconti degli adulti, era una brava vecchietta, anche se molto brutta, che scendeva nelle nostre case attraverso i comignoli o si infilava attraverso i buchi della porta principale portando sulle spalle un sacco stracolmo di doni e di giocattoli. Si spostava rapidamente andando a cavallo di una scopa magica. Gli elicotteri non erano stati ancora inventati.

Si trattava di una figura ambivalente, perché metteva paura solo a guardarla  a come veniva raffigurata, molto temibile per i suoi poteri magici: Volava, penetrava nelle case, sapeva in anticipo chi era stato buono o cattivo. Tutti questi poteri, tuttavia, erano esercitati in fin di bene: essa recava i doni. E questa era per noi la cosa principale. Noi l’aspettavamo con ansia e preoccupazione e la notte del 6 gennaio immancabilmente appendevamo una lunga calza vicino al caminetto. Quello era il posto ideale.

- Nonna, nonna – domandavamo con tanta insistenza – verrà anche quest’anno la Befana?-

-  Ma certo che verrà. Se siete stati buoni e bravi vi riempirà anche quest’anno la calza di bei regali -

- Siamo stati bravi, nonna, dunque verrà anche per noi? -

- Ma certo, miei cari nipotini! Verrà anche per voi e per tutti i bravi bambini italiani. Questa notte a fianco a lei ci sarà un grande uomo che le suggerirà dove andare. Le dirà a chi portare i doni e quali giocattoli e regali infilare nella calza -.

E quali erano i regali che noi aspettavamo? Qualche castagna, qualche fico, due arance, due mandarini, tre o quattro caramelle al miele “Ambrosoli”, qualche cioccolatino, alcuni spiccioli, un soldatino di stagno. Per i più fortunati una bambolina di pezza, un cavalluccio di carta pesta con le rotelline, una macchina di latta.

Chi era quell’uomo che secondo il racconto della nonna volava al suo fianco e le suggeriva dove andare e cosa infilare nella calza? Quell’uomo era Mussolini, il nostro Duce, che voleva tanto bene ai bambini, ai Figli della Lupa, ai Balilla e alle Piccole Italiane.

Quella notte io sognai la Befana e mi svegliai piangendo perché mi sembrava che si fosse dimenticata di me. Fui tranquillizzato dalla nonna e mi riaddormentai. Nel sogno vidi il Duce il quale con mano ferma strattonava la vecchietta e le diceva: - Ti sei dimenticata di questo bambino, come mai? Perché non gli dai qualche giocattolo? E’ forse stato cattivo? No, i Figli della Lupa non sono mai cattivi. Fai la brava, riempi la sua calza e voliamo via perché si sta facendo giorno ed io ho molto da fare -. Era un ordine del Duce e la vecchietta, anche se a malincuore, dovette obbedire. E così, anche nella mia calza, appesa vicino al caminetto, infilò qualcosa.

La mattina mi alzai di buonora e corsi verso il caminetto e trovai la calza piena. Ero felicissimo.

 Gli altri bambini, quelli meno abbienti, che non avevano ricevuto la visita della Befana, si recarono frettolosamente alla Casa del Fascio e lì trovarono i regali che la Befana e il Duce avevano lasciato. Per loro c’era la Befana fascista.

Ogni bambino riceveva il suo dono e se lo stringeva felice al seno. Alcuni, poi, quelli più poveri, ricevevano dei pacchi dono con dentro giocattoli, bambole, vestitini, scarpe, libri, quaderni, farina, zucchero, marmellata. Erano tutti felicissimi. Il nostro Duce aveva pensato anche a loro. Non aveva dimenticato nessuno.

Aveva ragione la mia cara nonna. Anche quest’anno era arrivata puntualmente la Befana.

 

 


 

 

Leggenda di Natale

"Il fantoccio di cenci" 

 

Ho sempre detto e scritto che la nonna era bravissima nel raccontare storielle, leggende e “rumanze”, al momento opportuno e nei giusti periodi dell’anno.

  - Ascoltatemi - disse un bel giorno di un mese di dicembre di tantissimi anni fa e si mise a raccontare il passo del Vangelo di Luca: La nascita di Gesù.

   - Giuseppe e Maria, sua affezionatissima sposa, che era incinta, si trovarono a Betleem, in Giudea e lì giunse il momento del parto e così Maria diede alla luce un bel maschietto. Poi lo fasciò e lo mise in una mangiatoia perché nella camera dell’albergo, al quale avevano bussato invano, non c’era posto per loro.

Nella zona dove nacque Gesù c’erano tantissimi pastori che sorvegliavano il gregge. Non dormivano, perché avevano paura che qualche ladro potesse rubare le pecore e gli agnellini. Apparve un Angelo del Signore e annunciò loro la nascita di un bambino prodigioso. Disse loro che questo è un grande evento e che sarebbe stato motivo di grande gioia per tutti. Oggi è nato un salvatore, dicevano. Andate ad adorarlo. Lo troverete avvolto in fasce in una mangiatoia, riscaldato soltanto dal fiato di un bue e di un asinello. L’Angelo cantava: Gloria a Dio, negli altissimi cieli e in terra pace tra gli uomini che gli sono graditi.

Allora tutti i pastori lasciarono il gregge negli stazzi e andarono ad adorare il piccolo bambino nato in quella notte fredda e buia. Non andarono a mani vuote, i poveri portano sempre qualcosa. E così anche loro quella notte portarono qualcosa da offrire a quel bambino che sua madre, Maria, se lo teneva stretto stretto fra le braccia per riscaldarlo un po’.

Anche una donna sterile che non aveva avuto la gioia di avere un bambino, anche se lo desiderasse tanto, voleva andare a Betleem per vedere il bambino e adorarlo. Voleva andare, ma le comari del vicinato la indussero a desistere. Si era sparsa la voce che solo le madri avevano il privilegio di andare a Betleem a vedere il bambino nella grotta.

Quando vide i pastori e le madri avviarsi verso la grotta, guidati da una stella splendente, si mise a piangere. Era disperata. Solo a lei era proibito andare a visitare Gesù. Povera donna, povera sposa. Che colpa aveva se non aveva potuto dare alla luce almeno un figlio? Per anni e anni aveva aspettato la nascita di un bambino, ma per un motivo o per un altro, il bambino non arrivò mai. Si consumava così nel pianto e nella disperazione. Voleva a tutti i costi andare a Betleem, voleva correre anche lei verso la grotta a vedere il Messia tanto atteso, il figlio di Dio, il Salvatore del mondo. E sapete cosa fece? Preparò un bel pupazzo di pezza con cenci di lana che sembrava un bambino in fasce, se lo strinse in braccio, lo coprì ben bene per non fargli prendere troppo freddo e si mise anche lei in cammino insieme alla moltitudine dei pastori.

Faceva freddo, tanto freddo. Il cielo era limpido e brillava una grande stella che indicava loro la mèta da seguire. La donna era scalza, le spine dei rovi e dei cardi le avevano trapassato le piante dei piedi e sanguinavano. Le vesti erano tutte strappate e avevo freddo. Malgrado ciò avanzava senza lamentarsi e senza fermarsi un attimo, stringendo sempre con forza al suo seno il fantoccio di pezza come se fosse un bambino vero e s’illudeva di difenderlo dal freddo, dai rovi e dalle spine e dalle occhiate maliziose degli altri viandanti.

Faceva attenzione a non cadere, a non inciampare fra le rocce, mentre il suo sguardo era sempre rivolto a quella stella misteriosa che le indicava il cammino. La voce dell’Angelo le risuonava negli orecchi: Andate e troverete il bambino avvolto in fasce, in un’umile mangiatoia.

E quando giunse alla grotta ed entrò, si inginocchiò davanti al bambino e incominciò ad adorarlo, stringendo ancora più forte al suo seno il fagottino di cenci che aveva in braccio. Aveva paura di essere scoperta. Qualcuno, fra i presenti, avrebbe potuto scoprire l’inganno, perciò stava con gli occhi bassi e non scoprì mai il volto del finto bambino che stringeva al grembo. Fu tentata di buttare il fantoccio e chiedere perdono a Giuseppe e a Maria, ma quando alzò gli occhi vide il Bambinello che con la manina la benediceva e le faceva un bel sorriso. Anche Maria e Giuseppe sorrisero.

Cercò allora di rialzarsi, ma non vi riuscì. Il fagottello di cenci era diventato molto pesante, incominciò a muoversi, ne uscì un lungo vagito e le comunicò un dolce tepore e poi vide un Angelo del Signore posarsi accanto che con voce misteriosa cantava: Gloria a Dio nel più alto dei cieli.

Scostò sbigottita la coperta che avvolgeva quel fagottino e con sua grande sorpresa vide che fra le sue braccia aveva un bambino bellissimo, roseo e sorridente come Gesù nella mangiatoia.

Ritornò a casa lodando il Signore. I sentieri che aveva attraversato irti di spine e di rovi si erano trasformati in un immenso prato verde, il cielo era di un altro colore, la terra non era più umida e fredda, la strada che la portava nella sua umile casetta sembrava più breve.

Anche gli uccelli dell’aria lodavano il Signore. Il suo cane le venne incontro e le fece una gran festa. Entrò nella casa col suo bambino in grembo, si sedette e incominciò a cullarlo cantandogli una dolce ninna nanna: Dormi, dormi, mio bambino, tesoruccio della mamma. Dormi, dormi nel lettino, che ti canto ninna nanna.

Anche il gallo era felice e incominciò il suo incessante e struggente chicchirichi. La donna chiuse la porta e la  finestra di casa per paura che il canto del gallo potesse svegliare il suo bambino e poggiatolo sul letto matrimoniale anche lei si addormentò, mentre un coro di Angeli gridava ancora una volta : Pace in terra agli uomini -.

   - Vi è piaciuta la favola?- disse la nonna. – Ora sono stanca, datemi un bicchiere di acqua -.Rispondemmo: - Un’altra volta, nonna, raccontaci la favola un’altra volta. E’ stata bellissima -. – Domani, domani, ora siamo tutti stanchi e dobbiamo andare a letto. Andiamo a dormire -

Mi sembra che il tempo si sia fermato e mi sembra di sentire ancora una volta la voce della nonna che mi cantava la ninna nanna quando non volevo andare a dormire e quella degli Angeli che cantavano all’unisono la nenia a Gesù Bambino.

 

 


 

In ricordo di mia madre Teodora

Il mio povero cor mai non V’oblia

O guardi, o baci, o tenere carezze,

O dolce amore della madre mia.

Mia madre ebbe dalla vita due grandi dispiaceri: la morte prematura di un bambino di appena due anni e la mia partenza dall’Italia in cerca di fortuna.

Ciccillo, così si chiamava affettuosamente quel bambino che io non ebbi la fortuna di conoscere. Era una bambino bellissimo, simpaticissimo. Aveva due grandi occhi e tantissimi capelli riccioluti. Tutti lo volevano accarezzare e baciare. Ancora oggi, nella stanza di mia madre, c’è una sua fotografia grandissima che lo ritrae seduto e nelle mai  tiene un libricino.

Una malattia, che i medici di allora non seppero diagnosticare e non seppero intervenire in tempo, lo rapì all’affetto di mia madre. Rimase sconvolta e per tantissimo tempo trascurò ogni cosa: la casa, i campi, il lavoro, mia sorella. Il dolore l’aveva prostrata e irrimediabilmente distrutta. Mio padre, minatore, che lavorava allora nelle miniere di carbone della Pennsylvania, U.S.A., abbandonò l’America ed il proprio lavoro e si precipitò in Italia.

A poco a poco, con l’aiuto e la presenza premurosa di tutti i parenti, specialmente delle care nonne Anna e Teresa, si riprese e dopo due anni dalla morte di Ciccillo sono nato io. Diverso da lui. In confronto a lui io ero un mostriciattolo. Tanto è vero che mia sorella Anna appena mi vide emise un urlo selvaggio e si rifugiò in casa della nonna. Ci vollero diversi giorni prima che mi prendesse in braccio.

Mia madre ora è morta da diversi anni, le piaghe alla gamba destra l’avevano completamente distrutta. Una vita intensa tutta dedicata alla famiglia ed al lavoro. Tutto il peso della famiglia ricadeva su di lei, anche perché mio padre è stato sempre all’estero a lavorare. Malgrado tutto, malgrado i dispiaceri e gli affanni, le malattie e le sofferenze, le privazioni, specialmente in tempo di guerra quando neppure le lettere giungevano dall’America, e le preoccupazioni, non smise mai di sorridere. Era una donna forte, lavorava dalla mattina alla sera, non ci fece mancare mai nulla. Sapeva nascondere così bene le sue sofferenze per evitare ai familiari e ai parenti altri dispiaceri e preoccupazioni.

E poi un bel giorno anche io la lasciai. Sono partito per la lontana America come fece mio nonno e mio padre, e come fecero tantissimi emigranti calabresi in cerca di fortuna. Ti ricordi mamma? Quanti pianti facesti! E prima che io partissi, con gli occhi lucidi di pianto, di commozione e di malinconia, quanti consigli vorresti darmi! Mi vorresti accompagnare fino al molo Beverelli di Napoli e prima che salissi la scaletta della motonave Andrea Doria mi abbracciasti forte forte e mi dicesti:- Quando ritornerai? Quanto tempo starai in America?-

Quanti pianti facesti! Sono passati tantissimi anni e mi sembra appena ieri. Ma i pianti più intensi se li fece quando apprese che il Governo degli Stati Uniti d’America mi aveva chiamato a prestare servizio militare e con il contingente dell’O.N.U. mi aveva spedito nella lontana Corea a combattere una guerra contro un nemico che io ignoravo completamente l’esistenza.

E che festa facevi quando il portalettere del paese, lo zio Domenico Guido, ti portava le lettere che io spedivo dal fronte! Ti chiudevi in casa e leggevi e rileggevi la mia lettera, fino a quando imparavi a memoria il contenuto. Subito rispondevi. Volevi sapere tutto: quello che facevo, quello che mangiavo, come mi vestivo, se avevo imparato la lingua, se avevo fatto amicizia coi commilitoni e poi ogni volta il solito ritornello: quando ritornavo. Avevi tanta paura che io potessi essere ucciso in combattimento lontano dalla mia terra e dagli affetti più cari.

E quando qualche lettera tardava ad arrivare ti chiudevi nel più ostinato e rigido mutismo e non volevi vedere nessuno. Ti recavi in chiesa a pregare il buon Dio perché proteggesse dai pericoli tuo figlio e lo facesse ritornare a casa sano e salvo.

Ritornai a casa e in Italia dopo alcuni anni trascorsi in Corea, Giappone e America e d’allora non l’ho più lasciata. Ora, pero, la mamma non c’è più e mi sento tremendamente solo e triste. Oggi ho tutto dalla vita: amore, gioie, benessere, salute, una vecchiaia serena, una moglie stupenda, due figli meravigliosi, un nipotino che fra non molto nascerà. Una sola cosa mi manca: l’affetto della mamma ed è la cosa che più mi rattrista.

E quando ritorno in San Pietro in Amantea, il mio paese natale, ed entro nella casa dove sono nato e non sento più la voce della mamma e non vedo la sua nobile figura seduta accanto al braciere intenta a guardare la televisione, mi vien voglia di piangere. A volte ho pianto davvero quando la ricordo seduta accanto al portone che mi aspettava. Adesso non c’è più. Ritorni a casa e non trovi la mamma che ti aspetta. Che brutta cosa! La mamma è morta, è partita per un lungo viaggio e per sempre. E’ volata in cielo ad abbracciare il suo Ciccillo, quella gioia di figlio che il buon Dio le aveva strappato in tenerissima età. Forse perché era così bello e buono che Iddio lo ha voluto con sé, insieme ai suoi Angeli e ai suoi Santi.

Fra non molto, mamma cara, verrò a trovarti anch’io, così potrò conoscere ed abbracciare il mio fratellino scomparso prima che io nascessi e così potremo stare ancora una volta insieme, e questa volta per sempre…


 

 

La bambola americana 

Quando mio padre, dopo la morte di Ciccillo, si precipitò in Italia, portò in dono dall’America a mia sorella Anna una bellissima bambola, che a guardarla sembrava davvero una vera bambina. Sembrava una bambina di due anni, aveva i capelli veri, due grandi occhi che si aprivano e si chiudevano, le ciglia e le sopracciglia, e poi un paio di scarpette marrone di vera pelle. Era tutta in porcellana e le gambe e le braccia snodabili. Era, insomma, una bambola fenomenale, una di quelle bambole che tutte le bambine del mondo sognano di possedere.

Superfluo dire che mia sorella era felicissima. Aveva per lei delle cure particolari: la spogliava, la vestiva, la lavava, la metteva a letto, le toglieva le scarpe, le cantava la ninna nanna per farla addormentare. Veniva trattata come davvero fosse una vera bambina, come una sorellina più piccola. Anche lei era rimasta scioccata dalla morte del fratellino, quindi tutte le premure, le carezze, le moine si riversarono, ora che il fratellino non c’era più, verso quella bambola che il papà, malgrado il dolore per la perdita del figlio maschio, aveva portato dalla lontana America. Le faceva, insomma, tutte quelle attenzioni che aveva visto fare alla mamma quando cresceva Ciccillo e che venivano suggerite dall’amore materno.

Era gelosissima, guai a chi osava toccarla o accarezzarla. Restò nella nostra casa fino a pochi anni fa e le sue scarpette, forse, sono ancora conservate in una scatola di latta nel comò della mamma insieme ad una ciocca di capelli di Ciccillo che lei volle conservare fino alla sua morte in ricordo del figlio prematuramente scomparso.

Le sue compagne di scuola venivano a casa nostra non per studiare, ma per ammirare la bambola e tutte erano innalzate alla dignità di zie della bambola e come tali potevano assistere alla svestizione e alla vestizione, alla pettinatura e alla toeletta. Potevano ammirarla, guardarla, raccontarle storielle, porgere i vestitini o il pettine a mia sorella quando la pettinava o la cambiava, fuorché toccarla. Toccarla, mai!  Questo privilegio spettava soltanto a lei e le amichette, invidiose, si struggevano dal desiderio di fare quello che lei faceva e che a loro aveva proibito di fare.

Ma un bel giorno accadde quello che non doveva accadere. Mia madre, sempre a lavorare, rivoltava i fichi nella “cannizzola” che aveva fatto preparare nell’orto sotto casa e, avendo bisogno di aiuto, chiamò mia sorella. Lasciò la bambola seduta sopra una poltroncina e ordinò alle amichette di non toccarla. Non ressero alla tentazione.

La presero delicatamente fra le braccia, l’accarezzarono, la baciucchiarono, finché venne loro l’infelice idea di farla camminare sul pavimento. Non l’avessero mai fatto. Una bambina inciampò ad una sedia e fece cadere la bambola per terra. Nel cadere si ruppe il nasino. Quella disgraziata bambina emise un urlo così selvaggio che fece precipitare in casa in un baleno mia madre e mia sorella. La trovarono svenuta sul pavimento pallida come la cera . Sembrava un cadavere.

Mia madre la sollevò, l’accarezzò e la fece rinvenire spruzzandole in faccia un po’ di acqua fresca. Mia sorella Anna, invece, nel vedere il nasino rotto della bambola che lei amava tanto, impallidì, poi arrossì ed infine si mise a piangere che le lagrime scendevano copiose come un torrente dalle rosse gote.

    - Cattiva, cattiva, brutta dispettosa!- incominciò ad urlare. - Me la pagherai! Da oggi in poi tu non giocherai più con la mia bambola!-

Le altre bambine erano rimaste nel frattempo mute ed immobili. Quando si ripresero dallo shock, raccolsero delicatamente i cocci e li porsero a mia madre, la quale si mise a consolare mia sorella Anna dicendole: - Non ti preoccupare, zio Stefano ha un mastice speciale e dalle proprietà miracolose, superiore a quello di zi’ Dima, che in un battibaleno rimetterà a nuovo la tua cara bambola e vedrai che il suo bel nasino ritornerà ad essere più bello di prima -.

Così fu, però, da allora, mia sorella Anna non permise più a nessuno di sfiorare neppure con un dito quella favolosa bambola. Era un caro ricordo di papà che lei non vide mai più. Infatti, da allora non ritornò mai più in Italia. E’ morto nella lontana America.

 


 

 

Il fabbro e meccanico ingegnoso 

Nuda la fronte, le braccia nude,

desto coi primi raggi del dì,

batte il martello sopra l’incude

poi che la fiamma lo rammollì. 

 

Marciamo nella nebbia mentre comincia a cadere una spruzzaglia minuta e quasi invisibile. I pochi passanti si fermano a guardare, ma i Figli della Lupa tirano diritto. Entriamo nell’officina del migliore meccanico di qui. Quante cose belle e interessanti! . Così scriveva la mia cara maestra di prima elementare, l’indimenticabile Sig.ra Adele Mazziotti in Politano, in quel lontano 14 marzo 1940 nelle osservazioni e note del registro di classe. L’officina meccanica visitata era ubicata in Via Michele Bianchi n.74 e 76 ora Via del Popolo, nelle vicinanze del famoso mulino elettrico sempre della famiglia Sesti. Io ero di casa in quel luogo fantastico, perché il meccanico era mio zio Stefano Sesti, ora scomparso. Infatti, trascorrevo quasi tutti i pomeriggi con gli allievi meccanici e mi divertivo un mondo a incominciare a manovrare martelli, pinze, tenaglie, compassi e torni.

Nel silenzio del mattino e nei meriggi estivi quando il sole picchiava forte e tutto intorno era pace e tranquillità, si udivano i colpi leggeri del martello sull’incudine del mastro “forgiaro” e i colpi alquanto duri della mazza vibrati con forza dal garzone o dagli allievi “forgiari”. Tutt’intorno c’era fumo e fuliggine sprigionati dalla fucina dove i carboni ardenti erano tenuti desti da un grande mantice i cui tiranti venivano azionati da un altro ragazzo.

C’era di tutto in quella forgia : incudine, martelli , mazze, pinze, morse, cesoie, trapani, compassi, squadre, mole, saldatrici, lime, tenaglie, punzoni. Mio zio era bravissimo. In quei tempi adoperava soltanto il fuoco e il martello per costruire congegni di sua invenzione e poi era bravissimo a fare: zappe, chiavi, picconi, vanghe, aratri, vomeri, serrature, catenacci, toppe, chiavistelli, lucchetti, saliscendi, maniglie, chiodi, bullette, grucce, cancelli, balconi, ringhiere ed inferriate. Gli oggetti di uso agricolo e domestico, lavorati con certosina pazienza e maestria dal fabbro, sono quasi scomparsi. Al mondo dei ricordi appartiene l’arte del ferro battuto. Ne restano testimonianza in alcuni cancelli e balconi, nei battenti da porta, nei portoni dove ancora oggi si vedono i ferri da cavallo appesi come portafortuna o contro l’invidia :“a jettatura”. Mio zio, dal ferro rovente sapeva trarre mirabili effetti decorativi. Da quella fucina  scura ed affumicata uscivano vere opere d’arte e di bellezza. E che dire dei battenti da porte? Erano spesso eleganti e fantasiosi. Il visitatore che batteva alla porta e prendeva in mano un antico battente si rendeva subito conto dell’appartenenza della famiglia che abitava in quella casa. Infatti, alcuni battenti erano ornati con stemmi nobiliari e monogrammi. In tutti si poteva ammirare la maestria di tanti dimenticati artefici del ferro battuto.

E poi, com’era talentuoso! E poi era un buon servitore di tutti. Riparava finanche lumi, ferri da stiro, pompe idrauliche, automobili. I contadini, poi, ogni giorno gli portavano i loro attrezzi agricoli per essere riparati. Ed anche noi ragazzi, quando avevamo bisogno urgente di qualche bullone, chiodo, cuscinetto, per costruire il monopattino, sapevamo dove andare. Peccato che il monopattino veniva sistematicamente sequestrato dalla solerte guardia municipale don Nicola Coscarella, sempre ligio al dovere. I cuscinetti facevano troppo rumore e disturbavano la quiete pubblica, secondo lui.

 Al talento di mio zio nulla sembrava difficile. Era sempre curioso di apprendere e costruire cose nuove. Ancora oggi, a distanza di quasi 60 anni dalla sua morte, troverete nei locali che allora erano adibiti ad officina meccanica un aggeggio da lui stesso inventato e costruito e serviva e serve ancora a caricare le batterie delle automobili.

Tutti i miei compagni di classe, quel giorno, erano felicissimi. Volevano toccare ogni cosa. Incominciarono a far girare il grande trapano, ad azionare il tornio e la mola, a tirare il tirante del grande mantice, a picchiare il martello sull’incudine il cui suono festoso portava tanta allegria. Erano contentissimi di porgere il loro aiuto a mio zio e ai suoi aiutanti. Aprivano e chiudevano il rubinetto dell’acqua che scorreva in una grande vasca dove veniva immerso il ferro incandescente per essere temperato. Non avevano mai visto un  rubinetto. Infatti l’acqua nelle nostre case arrivò tantissimi anni dopo.

Era dura la vita del “forgiaro” e del meccanico una volta, però dava tanta soddisfazione e piacere.

Uscimmo dall’officina felici, contenti e inebriati. Ritornammo nella nostra aula scolastica marciando battendo il tempo e cantando a squarciagola senza fermarci mai. Il sole, intanto, aveva fatto capolino e ora, una moltitudine di persone si era affacciata dai balconi che applaudiva e salutava romanamente. La maestra chinava il capo e sorrideva. Anche lei era molto felice quel giorno. In classe ci disse - Bravi - e concluse il suo breve intervento con le famose massime del nostro Duce:- Voi siete l’aurora della vita. Voi siete la speranza della Patria. Voi siete soprattutto l’esercito di domani -.


 

Con uno starnuto si liberò dai mostri e dalle streghe

C’era una volta un bambino che aveva tanta paura…

Strane voci di gelidi inverni
 

’C' era una volta un bambino di circa sei anni che viveva in una casa abbastanza grande e comoda, ma piuttosto fredda specialmente durante il lungo inverno. Ancora il riscaldamento centralizzato o autonomo non esisteva ed il metano era di là da venire. Solo la cucina era riscaldata perché lì c’era il camino nel quale il fuoco serviva per cuocere le vivande e per riscaldare anche l’ambiente. L’ampia stanza da letto, dove dormivano tutti i componenti della famiglia, era freddissima specialmente d’inverno quando tirava un gelido vento di tramontana. Fischiava il vento e gli spifferi gelidi entravano nella stanza attraverso le fessure del balcone e della finestra. La notte, per riscaldare il letto, si collocava tra le lenzuola una borsa d’acqua calda oppure un mattone fatto riscaldare prima sul fuoco e poi avvolto da un panno di lana per evitare eventuali scottature. La mamma ne controllava il calore e ne assaggiava la temperatura posandovi la guancia.

Quando la temperatura scendeva abbastanza si andava a letto quasi completamente vestiti. Quando poi il letto era riscaldato la svestizione avveniva tra le lenzuola. Lascio a voi immaginare come avveniva il cambio dei vestiti. Era davvero problematico sfilarsi i pantaloni, la camicia e la maglietta, e poi infilare il pigiama di lana, i lunghi calzettoni e la papalina.

Prima di andare a letto la mamma raccontava sempre al suo bambino qualche racconto o qualche fiaba. Gli dava l’ultimo bacio, gli rassettava le lenzuola, spegneva la lampada del comodino e tornava in cucina al calduccio a sferruzzare.

Il bambino, rimasto solo nella stanza grande e buia, incominciava ad avere paura. Aveva paura del buio, del vento che fischiava forte, dei rumori strani che venivano dalla strada che per lui erano voci dei morti che si lamentavano perché non avevano trovato pace nel Paradiso, dei mostri che durante la notte scendevano in paese dai monti circostanti e rapivano i bambini piccoli, delle belve che ruggivano nelle notti buie e che cercavano di entrare nelle case scardinando porte e finestre per mangiare i bambini cattivi. Tutte queste paure se l’è portate dietro per diversi anni ed ancora oggi quel senso di paura gli è rimasto. Tutta colpa delle streghe, dei mostri, delle “grattosse” e delle strane storie che si erano imbastite intorno ad esse e che venivano raccontate ai bambini piccoli per farli stare buoni.

Anche i passi della mamma che si allontanavano lo facevano tremare di paura. Il prolungato e lontano mormorio della procella, gli aspri sibili della tramontana, la brezza funesta, arida e gelata, le raffiche del vento violento, i lampi che squarciavano il cielo il cui bagliore penetrava nella stanza, i sordi e lunghi sibili dei tuoni ripetuti con forza e violenza che facevano tremare il letto e il resto dei mobili, gli ululati lamentosi e prolungati, i ruggiti, i graffi, lo sbattere delle porte e delle finestre, gli facevano venire la pelle d’oca. Si rizzava dal letto e tutto spaventato chiamava la mamma che venisse in suo aiuto.

- Mamma, mamma, ho paura! -

Rispondeva la mamma premurosa: - Cosa c’è?. Cerca di dormire. Non aver paura. Nessuno ti vuole fare del male. E’ il vento che fischia forte e fa sbattere porte e finestre. E poi ci sono io. Sono sempre vicino a te. Buona notte, figliolo! -

- Mamma ho tanta paura! Portami un bicchiere d’acqua, ti prego! Mi racconti un’altra storiella? Ho paura e non posso prendere sonno. Ho paura che i lampi ed i tuoni penetrino nella stanza -.

- Adesso dormi - ripeteva la mamma. - Copriti la testa con le lenzuola e non pensare alle storie delle streghe, degli orchi ed delle altre belve cattive. Tutte queste sono state inventate dagli adulti per spaventare i piccoli. E poi c’è l’Angelo Custode che ti sta accanto e che ti vuole tanto bene e ti protegge sempre. Pregalo! -

Il bambino tremava tutto, malgrado la vicinanza dell’Angelo Custode. Le strane storie che si erano imbastite intorno alle streghe e ai diavoli gli erano rimaste impresse nella mente e quando era solo tremava di paura. E tante altre storie immancabilmente nascevano nella sua mente quasi da sole.

Si sentiva quasi assediato dai lamenti, dai sussurri, dagli strepiti, dai rumori strani provenienti dagli angoli più bui della stanza, da sotto il letto, dal grande armadio che aveva di fronte. Cercò di addormentarsi, ma il sonno tardava a venire. Sentì uno strano rumore, scostò la coperta, sbarrò gli occhi nel buio e un brivido gelido gli corse giù per la schiena. Uno strano animaletto si era arrampicato sul letto e lentamente avanzava sulla coperta. Era un innocuo animaletto, ma per quel bambino era un diavolo, un mostro, uno “spirdo” che voleva certamente divorarlo. Avrebbe voluto gridare, ma la voce non voleva uscire dalla sua bocca che nel frattempo si era completamente serrata. Avrebbe voluto saltare giù dal letto ma le forze gli erano venute meno, i muscoli non reagivano ai suoi ordini. Avrebbe voluto scacciare con i piedi e con le mani quel mostriciattolo, ma essi rimanevano immobili. Povero bambino! Si vedeva completamente perso in balìa del mostro. Lo vedeva avanzare lentamente quando i lampi illuminavano un poco la stanza. Ma anche nel buio più profondo percepiva la sua presenza. Era arrivato ad un certo punto fino alle narici e cercava di infilarsi dentro. Il bambino tremava, sudava freddo e si sentiva solleticare terribilmente. Fece l’ultimo tentativo di gridare. Non ci riuscì. Gli riuscì, invece, un colossale starnuto che fece addirittura impaurire la mamma. Fu così violento che fece schizzare quel mostriciattolo dispettoso che si voleva conficcare imprudentemente  e impudicamente nelle narici del bambino.

La mamma accorse tutta spaventata, accese la luce del comodino e scoprì, con somma sorpresa, che sulla parete della stanza c’era una piccola macchia rossa. Allora capì che le preoccupazioni e le paure del bambino non erano completamente inventate. Da quella sera non lo lasciò più solo e non gli raccontò mai più storie di streghe e di mostri. Finalmente capì che quelle favole, quei racconti, nell’età infantile, creano emozioni forti ma negative e condizionano per sempre i comportamenti delle persone.

 


 

 

L’occhio bendato

 

Anno scolastico 1946-1947. Istituto Tecnico Inferiore Privato Roberto Mirabelli, Amantea (Cosenza). La scuola, che prima si chiamava Michele Bianchi, sconfitto il regime fascista, venne intitolata a Roberto Mirabelli, un illustre personaggio di Amantea che in tempi passati aveva  combattuto per la libertà e l’indipendenza dagli stranieri. L’Istituto era ubicato in  Via Garibaldi, presso la locale Scuola elementare. Noi avevamo a disposizione soltanto tre aule, più un ampio salone da disegno che serviva per tutte e tre le classi, e una piccola aula per la presidenza. Quella scuola e fino agli anni sessanta è stata l’unica istituzione culturale di tutto il circondario di Amantea. Annoverava, tra i suoi alunni, ragazzi provenienti dai paesi vicini: Lago, S. Pietro in Amantea, Aiello, Cleto, Serra d’Aiello, Belmonte, Longobardi, Falerna. Essendo allora scuola parificata tutte le spese erano a carico delle famiglie degli scolari compresi gli stipendi dei professori.

 A quel tempo l’istruzione si pagava e la scuola dell’obbligo era ancora ben lontana. Ci volle il 1950 perché la scuola da parificata passasse statale però come sezione staccata  dalla scuola media di Via Monte Santo di Cosenza. Acquistò la piena autonomia dopo solo tre anni. Il professore di lettere quell’anno era il Sig. Chiodo Florindo ed io ero l’unico ragazzo di S. Pietro in Amantea che frequentava quella scuola. Per raggiungerla, ogni giorno dovevo percorrere 18 chilometri a piedi, nove all’andata e nove al ritorno. Il percorso all’andata si faceva in fretta, perché era tutto in discesa e poi perché la mattina ero più rilassato e più in forma, mentre il ritorno, essendo tutto in salita e dopo cinque ore di scuola sempre seduto, essendo molto stanco, era molto faticoso, specialmente d’inverno quando pioveva o in primavera quando faceva molto caldo.

Ho ritrovato, qualche giorno fa, una vecchia fotografia che il fotografo dell’epoca ci scattò davanti la scuola. Si vede un ragazzo piccolino, con i pantaloncini corti, all’estrema sinistra, seduto per terra con un occhio bendato. Quanti ricordi! Se chiudo gli occhi rivivano nomi ed immagini di allora, e tante voci dimenticate riecheggiano nella mia mente, rinfrescando care memorie di un tempo bello, sereno, affascinante, semplice, privo di ostacoli e ricco di speranze.

Per l’occhio bendato e perché ero seduto per terra ci sono due motivi: ero il più piccolo  e perché il giorno prima ero stato ferito ad un occhio in classe. Per spiegare il fatto, beh…non è semplice da raccontare.

Avevo come compagno di banco un ragazzo di Amantea, Gigino P., molto discolo. Non stava mai fermo, neppure quando il professore spiegava. In tasca aveva sempre un temperino molto tagliente col quale, spesso e volentieri, incideva il banco che allora era di legno. La parte superiore l’aveva quasi resa impraticabile. A furia di incidere aveva scavato lunghe gallerie e diceva che aveva trovato una miniera di carbone. Le tarme , che vivono nel legno, avevano fatto poi il resto. In questo lavoro di minatore, purtroppo, coinvolgeva anche me.

Il professore, un giorno, aveva letto in classe un racconto tratto dall’antologia “Casa giocosa”: Il soldino bucato. Gigino, durante l’ora di italiano, non fece altro che ridere, disturbare e punzecchiarmi con la punta del temperino. Per casa, dovevamo scrivere le nostre impressioni sul racconto che l’indomani dovevamo leggere in classe.. Io ero molto contento. Infatti sul quaderno scrissi quattro paginette. Gigino, invece, scrisse soltanto due righi appena:- Il racconto non mi è piaciuto. Non ci sono in circolazione soldi bucati -.

Tutti prendemmo un ottimo voto, tranne il mio compagno di banco. Tutti avevamo capito quello che dovevamo scrivere, lo stupido era stato invece soltanto lui, perché volle fare il furbo e preferì andare a giocare a pallone piuttosto che scrivere le impressioni ricevute dal racconto in classe. Si giustificò dando la colpa a me ed al professore. A me, perché, secondo lui, lo avevo disturbato durante la lezione e quindi non aveva capito quello che doveva scrivere. Al professore, perché non si era saputo spiegare. Quella volta, debbo dire, che Gigino non aveva tutti i torti. Aveva un po’ di ragione. Infatti, il professore, aveva detto in classe:  Scrivete le vostre impressioni e non quello che vi ho raccontato. E Gigino, essendo uno scansa fatica, prese le parole del professore alla lettera e così scrisse quei due righi.

Il professore non si accontentò delle spiegazioni dategli, si alzò dalla cattedra e cercò di dare un sonoro scappellotto a quello scavezzacollo del mio compagno di banco. Come un pugile professionista e con un repentino movimento del corpo schivò il colpo, il quale andò a colpire la mia guancia sinistra. Persi l’equilibrio e andai a sbattere allo spigolo della finestra e mi ferii ad un occhio. Proprio il giorno dopo venne il fotografo e scattò quella foto ricordo davanti la nostra scuola. Per questo non sorrido e ho quella benda nell’occhio sinistro. Un caro ricordo del mio carissimo compagno di banco e del professore di lettere ormai scomparso da diversi anni. Un bel ricordo di un anno scolastico di circa sessanta anni fa che ha rinfrescato nella mente care memorie di un tempo sereno.

 


 

 

 

La Befana? Esiste, eccome! Io l’ho incontrata.

Peccato che era la nonna 

 

La Befana? Chi era questo caro e favoloso personaggio che portava i regali ai bambini nella notte dell’Epifania?  Era una simpatica vecchietta che ogni anno immancabilmente la notte del 5 gennaio scendeva dai camini delle case e portava doni a tutti i bambini del mondo. Ho usato il verbo al passato perché credo ormai che questa cara vecchietta con la gobba e col naso un po’ adunco, piena di rughe e di acciacchi vari, sia completamente sparita dalla circolazione. Vi siete chiesti il perché? I bambini di oggi ricevono regali dai propri genitori ogni giorno dell’anno, non devono necessariamente aspettare la Befana. E poi la calza appesa al caminetto è stata sostituita dall’albero di Natale, vuoi perché nelle case non c’è più il caminetto, vuoi anche perché l’albero di Natale ha preso il posto nelle tradizioni natalizie del nostro antico presepio. Abbiamo dimenticato le nostre tradizioni ed abbiamo importato quelle del Nord Europa e della lontana America. Ci siamo emancipati anche noi. I doni, dunque, i bambini di oggi li ricevono a Natale e li trovano sotto l'albero d’abete inghirlandato e ben illuminato. E li trovano, cosa ancora più strana e buffa allo stesso tempo, ogni giorno nelle edicole, nelle cartolerie, nelle librerie e nelle farmacie, ovunque, allegati alle riviste e ai giornali di mamma e papà.

Nelle edicole, una volta, trovavi soltanto libri, giornali e riviste, oggi, invece, trovi di tutto. L’edicola, come la farmacia o il super mercato, è diventata un bazar. E gli editori, in crisi di vendite, allegano a riviste e giornali, oltre ai libri, di tutto e di più: bambole, pupazzetti, automobili, trenini, barchette, orologi, penne, bicchieri veneziani, cappelli, guanti, borse, impermeabili, giubbotti fluorescenti ad alta visibilità per gli automobilisti, radio d’epoca, DVD, Cd-Rom, vasi cinesi, quadri in miniatura, e finanche pasta e profumi.

E così, la povera vecchietta, vistasi esautorata e negletta, e anche per l’età avanzata e per gli acciacchi vari, si è trasferita in qualche paradiso terrestre, forse in Egitto, sul Mar Rosso, dove vanno a svernare le persone facoltose alla ricerca di un sole caldo, di spiagge meravigliose e di alberghi accoglienti. O forse, visto che nella nostra Italia ricca e opulenta non ci sono più bambini poveri, semplici, ingenui e buoni soprattutto, si è trasferita con tutto il suo armamentario magico in luoghi più accoglienti dove i doni, i semplici regali, i cari giocattoli di una volta fatti di pezza e di latta, sanno ancora di sorpresa e riescono ancora a rendere felici i bambini dal cuore ingenuo e tenero. O forse è sparita per sempre, precipitata in qualche burrone inaccessibile dove neppure i vigili del fuoco, le squadre del soccorso alpino e quelle del pronto soccorso del 118, riescono a raggiungerla. O forse ha consumato la scopa magica che le consentiva di volare?

Per volare in alto nei cieli e sopra i tetti delle case usava sempre una lunga scopa fatta con rami di erica, come quelle che usavano una volta gli spazzini per pulire le strade. Oggi sono scomparse le scope e sono scomparsi pure gli spazzini. E chi va più nei boschi bruciacchiati dalle fiamme estive a trovare e raccogliere i ramoscelli di erica per confezionare le scope? Scomparsi gli spazzini, scomparsa l’erica, scomparse le scope, la Befana, è andata in pensione. Mi rifiuto di pensare che sia già morta.

Se fosse ancora in vita, oggi dovrebbe avere più di centocinquanta anni Era già vecchia e decrepita allora quando io ero ancora bambino e, sono passati circa settanta anni da quella magica sera, in cui la vidi per la prima e l’ultima volta col sacco sulle curve spalle colmo di giocattoli riempire la mia calza appesa al caminetto, figuriamoci ora. Era nonna e bisnonna allora e facendo bene i calcoli oggi dovrebbe essere quattro o cinque volte nonna e dovrebbe avere una nidiata di figli e nipotini. Avrà insegnato, ora che è vecchissima e stanca, il mestiere di Befana ad uno di loro, oppure il suo magico segreto e la scopa miracolosa che le consentiva di volare se li ha portati nella tomba o li ha rinchiusi in un cassetto?

Io, l’ho incontrata la Befana, peccato però che era la nonna, la quale, quella volta di tantissimi anni fa, ebbe l’ardire e la spudoratezza di travestirsi e spacciarsi lei per Befana. Ho riconosciuto la nonna osservando le scarpe e la gonna che indossava, i capelli bianchi raccolti sotto un fazzoletto nero, lo scialle grigio che aveva sulle spalle, tipico delle nostre donne del mio paese. Erano i capelli, le scarpe e lo scialle di nonna Teresa.

Fu la prima e l’ultima volta che incontrai la Befana, perché dopo quell’incontro fortuito non venne più a casa mia di sera quando ancora eravamo svegli, ma neppure di notte quando tutti eravamo a letto e dormivamo. L’incantesimo si era sciolto e la cruda realtà aveva già preso il posto dell’innocenza. Per me fu una vera delusione, la prima delusione della mia vita. Altre se ne aggiunsero in seguito, ma quella fu la più tremenda, la più lunga e la più triste da poter dimenticare.

Ma oggi, ormai anch’io vecchio, anche se quella sera scoprii che la nonna si era travestita da Befana, so che la vera Befana, quella che porta ancora i regali ai bambini buoni di tutto il mondo, esiste davvero. Esiste, esiste, eccome! E come ero felice e contento, divenuto papà,  quando la mattina del 6 gennaio aprivo insieme ai miei figli i pacchetti dei giocattoli che la sera prima avevo messo sotto l’albero o in un angolo della casa e dicevo che li aveva portati la Befana. Dove è andata a cacciarsi ora? Dove è finita? Aspetta con ansia che qualcuno la vada a scovare, che abbia tanta voglia di rivederla, che abbia tanta voglia di ritornare bambino.

Lei, la Befana, non si lamenta, non è irosa, ha tanta pazienza, sa aspettare. C’è qualche bambino volontario che vuole sacrificare un po’ del suo tempo libero, del tempo che dedica spesso al computer e alla televisione, e vada alla ricerca di questa  vecchietta a noi tanto cara? Perché non la cercate anche voi, miei cari amici lettori, insieme ai vostri figli e ai vostri nipotini? Sarebbe davvero bellissimo andare alla ricerca di un bene perduto, delle cose belle e simpatiche di una volta, della Befana, quando in famiglia c’era tanto concordia e tanto amore, e la sera del 5 gennaio tutti riuniti ci raccoglievamo intorno al braciere o al focolare ad aspettare il lieto evento.

 


 

  

 

Brevi cenni di storia di 50 anni di televisione italiana

(Seduti per terra a guardare la televisione)

 

 

La data di nascita ufficiale della televisione italiana risale al 3 gennaio 1954. Le trasmissioni erano pochissime, solo di pomeriggio e di sera. L’opinione diffusa era che in Italia questo nuovo mezzo di comunicazione non avrebbe fatto molta strada per ovvie ragioni: l’apparecchio televisivo era costosissimo, il canone annuale molto elevato e poi dai più snob gli spettacoli che offriva all’inizio erano considerati soltanto degli stravaganti e precari passatempi  solo per i ricchi. Si erano completamente sbagliati. Nel campionato mondiale di calcio che si svolse in Svizzera e precisamente nella finale tra Germania ed Ungheria, per la prima volta migliaia di persone riuscirono a seguire la partita di calcio standosi comodamene seduti in poltrona nelle proprie case, nelle strade, nei caffè, davanti ad ogni televisore di fortuna esposto nelle vetrine dei negozi. La televisione in Italia già nel 1959 era diventata il mezzo di comunicazione più diffuso del nostro paese: fece conoscere una miriade di personaggi, contribuì a combattere l’analfabetismo, la lingua ufficiale entrò in ogni casa dalle Alpi alla Sicilia, inventò nuovi linguaggi, fece scoprire agli italiani i vantaggi delle cambiali: un nuovo modo di fare gli acquisti anche senza avere denaro in tasca. Ha fatto scoprire inoltre agli italiani ciò che non avevano, ha fatto scoprire che i panni sporchi si possono lavare anche in casa  con le lavatrici, che il cibo e la carne possono essere ben conservati nei frigoriferi, contribuendo così allo sviluppo e alla crescita della grande industria italiana.

- La televisione raggiunse notevoli risultati. Il primo e forse più importante fu quello di imporre una lingua nazionale, anche se ciò portò, in breve tempo, alla quasi scomparsa dei dialetti e delle tradizioni regionali. Ma, più in generale, grande e positivo fu il suo effetto culturale su un paese ancora provinciale e molto lontano da una società del benessere. La TV allargò gli orizzonti degli italiani, mettendoli in contatto con “il lontano” e “il diverso”. Quello che si affacciava in TV era lo “spirito del tempo”, il “nuovo” che schiacciava la tradizione. Adesso le notizie arrivavano anche ai molti che non avevano mai letto un quotidiano o un libro. Tutti apprendevano, naturalmente, che ci si doveva occupare di quanto avveniva nel mondo e non solo nel proprio paese. Perfino la neonata pubblicità servì a suggerire alle donne di prendere maggior rispetto senza doversi ammazzare di fatica nei lavori domestici, incoraggiava i giovani a una maggiore libertà verso l’altro sesso o, fatto non meno importante, a essere meno accondiscendenti verso le diverse autorità: a scuola, in famiglia, in chiesa, ecc. (Livolsi Marino. Televisione. Aspetti sociali) Ma se nel lontano 1959 la televisione veniva seguita da oltre 20 milioni di persone, pochissime ancora la possedevano  e non tutto il territorio nazionale era servito da appositi ripetitori adatti per captare il segnale e tantissime contrade di campagna ancora non erano servite dall’energia elettrica. Alle sue origini la televisione si è diffusa prima nelle grandi città del Nord, poi nelle città del Centro, poi in quelle del Sud e infine anche nei piccoli paesi e nelle campagne di tutta Italia. I governanti di allora e i magnati dell’industria si sono interessati in primo luogo alle esigenze di profitto delle aziende che fabbricavano televisori e che erano impegnate poi nella vendita degli apparecchi, trascurando le necessità sociali, i bisogni di cultura e di informazione della gente e ai profondi squilibri tra le diverse zone del paese. Le industrie, per ragioni di mercato, hanno scelto e privilegiato prima le regioni più ricche, poi quelle più povere. Hanno scelto i cittadini e le regioni che rendevano di più e più in fretta, trascurando di proposito tutti gli altri.

Moltissime persone, pur non possedendo il televisore in casa, assistevano agli spettacoli televisivi e si vedevano in casa degli amici, dei vicini e dei conoscenti del quartiere o nei bar o nei pubblici locali, che nel frattempo, avevano fatto istallare un televisore per non perdere gli spettatori. L’ascolto era dunque collettivo ed era facilitato dai cosiddetti grandi appuntamenti, cioè trasmissioni di richiamo, messe in onda sempre negli stessi giorni e alla stessa ora: il film al lunedì, il quiz al giovedì, il varietà al sabato, il romanzo a puntate alla domenica.  Andare a vedere la televisione fu per un certo periodo simile all’andare al cinema o al teatro, con il vantaggio che si pagava una sorta di biglietto a prezzo assai ridotto: il costo di un caffè o di una aranciata, di una semplice consumazione qualsiasi, che, naturalmente, in quel caso, era d’obbligo. E così tantissimi personaggi, sconosciuti alla maggior parte degli italiani, di colpo diventarono famosi e popolari: il Prof. Cutolo, padre Mariano, Mario Soldati, Enza Sampò, Enzo Tortora, Silvio Noto, Gianni Granzotto sempre con la penna in mano, Ugo Zatterin, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Mike Bongiorno. “Lascia o raddoppia?”, il quiz televisivo di Mike Bongiorno, importato dall’America, ottenne un grande successo. I vecchi ancora ricordano i concorrenti di allora poi divenuti famosissimi. E così, il giovedì sera quando andava in onda, svuotava i cinematografi e riempiva le case e i bar dei paesi che, nel frattempo, erano stati costretti a installare i televisori in apposite salette. La consumazione al tavolo era necessaria. Non tutti trovavano posti a sedere. La maggior parte assisteva allo spettacolo in piedi e i bambini, poi, erano costretti a stare seduti per terra. Ma ne valeva la pena. Il divertimento era assicurato e i telespettatori seguivano con ansia e trepidazione le risposte dei concorrenti, facendo a volte un tifo da stadio, A volte si indignavano quando i concorrenti erano un po’ impacciati e non avendo dato risposte esatte facevano brutte figure. Applaudivano, invece, quando le risposte date risultavano esatte. E di ogni concorrente ne facevano le parodie. Ripetevano le battute, gli accenti, le smorfie, l’intercalare e così ne moltiplicarono la popolarità.

La pubblicità, invece, debutta in T.V. con “Il Carosello”. Siamo a febbraio del 1957. Piccoli spettacoli di circa 2 minuti e soltanto 35 secondi di pubblicità per il prodotto reclamizzato. Il Carosello è costituito da racconti brevissimi con codino pubblicitario. E’ un successo, diventa un fenomeno culturale di massa, che regola gli orari degli italiani: i bambini non vanno a dormire senza aver visto Carosello. Sin dall’inizio ebbe un grande successo. Fu lo spettacolo televisivo in assoluto più popolare seguito sia dagli adulti sia dai piccini. Dopo “Carosello” i più piccini andavano a dormire. “Il Carosello” creò nuove abitudini, fece conoscere agli italiani nuovi prodotti fino ad allora completamente sconosciuti, diffuse motti e proverbi celebri, creò una infinità di neologismi, rese celebri e famosi tantissimi attori ed attrici di teatro e di cinema.

Ecco cosa scrive Calabrese:- A quelle che diverranno le fatidiche ore 20,50 scatta una sigla dalla musica assai orecchiabile, e agli occhi esterrefatti dei telespettatori del dopocena si presenta uno spettacolo inusitato: dieci minuti di pubblicità. Era nata la più duratura, la più nota e la più seguita delle trasmissioni di tutti i tempi, era nato Carosello -.

Così Enzo Biagi scrive sul Corriere della Sera del 22 luglio 1976, quando Carosello scomparve dagli schermi televisivi:- Carosello ha educato i nostri figli, è stato dal lontano 1957, un appuntamento e una pausa nell’angoscia quotidiana. Mostrava un mondo che non esiste, un italiano fantastico, straordinario, alcolizzato e sempre alla ricerca di aperitivi o di qualcosa che lo digestimolasse: puzzone, perennemente bisognoso di deodoranti e detersivi, sempre più bianchi; incapace di distinguere la lana vergine e quell’altra, carica di esperienze; divoratore di formaggini e scatolette, e chi sa quali dolori se non ci fossero stati certi confetti, che, proprio all’ora di cena, venivano a ricordare come, su questa terra, tutto passa in fretta –.

E Padre Baragli su Civiltà Cattolica:- Se ne rammaricheranno, c’è da crederlo, milioni di bambini e di mamme, nonché milioni di italiani privati del favoliere - nanna quotidiano. E se ne dorranno registi e animatori, soggettisti ed attori, defraudati del supplementare facile pane e companatico. Ma non lo rimpiangeranno quanti ritengono che è tutt’altro compito di un’azienda praticamente di Stato avallare per venti anni, come servizio pubblico, una pubblicità quale Carosello che, più di altre rubriche, ha identificato l’essere col sembrare -.

Il 14 dicembre 1957 debuttò “Il Musichiere”, spettacolo musicale di Mario Riva, ineguagliabile, irripetibile. Così il presentatore, prematuramente scomparso, definì questo quiz televisivo che ebbe una grande fortuna:- E’ stato ideato per l’Italia semplice che ama le canzoni e il facile svago, per regalare un’ora serena a tutte quelle persone che nei piccoli centri il sabato sera non possono andare al cinema, né a teatro, né a ballare -. Lo svago era davvero assicurato e le canzoni erano tantissime. Gli italiani di allora avevano urgente bisogno di svago e di divertimenti, perché molto cose ancora mancavano nelle case della gente, incominciando dal pane e dal companatico. La guerra era terminata da poco e gli italiani incominciarono ad abbandonare la propria terra per andare a lavorare all’estero. Non in tutte le case c’era l’elettricità, non c’erano i frigoriferi, non c’erano le lavatrici, non c’erano le lavastoviglie, non c’erano i telefoni, che avrebbero poi sconvolto le abitudini e i comportamenti di tutti gli italiani. E nei piccoli centri non c’erano cinematografi o teatri, non c’erano sale da ballo, e la gente non soltanto il sabato sera ma tutte le sere, perché non c’era null’altro da fare, si riuniva nei bar o nelle cantine a giocare a carte e a bere vino.

 E nel dicembre 1957 venne ufficialmente inaugurato il Centro di produzione televisiva di Via Teulada in Roma. E da questa data, dopo solo quattro anni di sperimentazione e di consolidamento, iniziarono spettacoli di grande successo, grandi show all’americana, grandi riprese di manifestazioni sportive, le Olimpiadi di Roma del 1960, le tappe ciclistiche del Giro d’Italia e del Tour di Francia, grandi manifestazioni culturali e politiche.

L’11 ottobre del 1960 i politici invadono per la prima volta il piccolo schermo. Quel giorno, infatti, il Ministro degli Interni l’On. Mario Scelba aprì la campagna elettorale per il rinnovo dei Consigli comunali in Italia e dette inizio alla prima Tribuna elettorale. Nel 1961 venne inaugurato il secondo canale televisivo. Non tutti potranno vederlo perché non tutte le zone italiane hanno i ripetitori adatti. Passeranno parecchi anni. Nel frattempo, i teleabbonati, sono molto cresciuti.

“Mina è la cantante stella del periodo, creatrice di mode, modello di nuovi comportamenti sentimentali-sessuali; Modugno e i cantanti “urlatori” riformano la vecchia canzone melodica all’italiana; i cantautori (Paoli, Tenco, Endrigo, Bindi, Lauzi) forniscono ai giovani un linguaggio neoromantico e piccole filosofie esistenziali; Celentano si fa portatore del rock americano” (Lietta Tornabuoni).

Le prime annunciatrici televisive all’improvviso diventano popolarissime, piacciono agli italiani. Sono simpatiche, belle, ben vestite, si muovono con signorilità: Fulvia Colombo, Anna Maria Gambineri, Nicoletta Orsomando,. E poi Gabriella Farinon e Aba Cercato.

Nel 1958 hanno inizio le prime lezioni di “Telescuola”, un corso scolastico dedicato agli studenti che non possono andare a scuola perché le località dove abitano e dove lavorano sono prive di scuole e di strutture scolastiche. Seguirà poi il corso per gli analfabeti “Non è mai troppo tardi”, condotto egregiamente dall’inimitabile maestro Manzi, seguito da milioni di telespettatori, specialmente dell’Italia meridionale. Grazie al maestro Manzi, moltissimi italiani impararono a leggere e a scrivere. Ancora oggi gli anziani lo ricordano con tanto affetto.

I bar, le cantine, le osterie, i caseifici, le terrazze, hanno la televisione. E si trovano pure nelle piazze sotto le stelle, nelle stalle, sulle barche, in occasione di alcuni avvenimenti importanti. Tutti guardano la televisione, giovani ed adulti, anche i bambini e le donne, ma soprattutto i bambini.

Con “Lascia o raddoppia?” prima e poi con “Telematch” ha inizio la febbre del sabato sera, telequiz che conquistano l’Italia intera e svuotano i cinematografi. Tutti li vedono, tutti ne parlano, tutti si appassionano ai quiz e Mike Bongiorno, “con la sua mediocrità assoluta” secondo Umberto Eco, conquista l’Italia.

Nel 1961 va in onda “Campanile sera”. Presentatore: Enzo Tortora. E’ la prima trasmissione strapaesana televisiva, tra le molte trasmissioni di quiz. E poi “Il musichiere”. L’Italia, si sa, è una nazione dove tutti cantano e tutti hanno la passione per il canto. Così Garinei e Giovannini hanno pensato bene  allestire una trasmissione dedicata alla canzone italiana, mescolando quiz e comicità. Tutto venne affidato alla professionalità, alla bravura, alla comicità di un grande presentatore purtroppo prematuramente scomparso, Mario Riva.

I telespettatori prendono sul serio i giochi delle domande e delle risposte. Ci sono in gioco oltre alla notorietà tantissimi premi in denaro.

La rubrica più amata e più famosa fra le tante è senza dubbio “Carosello”, come abbiamo già visto, rubrica amata da grandi e piccini ed aveva sempre un orario prestabilito. Carosello ha creato personaggi famosi, ha fatto conoscere alla maggior parte degli italiani prodotti fino ad allora sconosciuti: dentifrici, cera, sapone, bevande, utensili.

Ricordiamo alcuni attori celebri: Gino Cervi pubblicizzava Vecchia Romagna etichetta nera, un brandy che crea una atmosfera. Amedeo Nazzari pubblicizzava il Bianco Sarti, il bianco vigoroso: Chi non beve con me, peste lo colga e un’acqua di colonia Pino Silvestre.  Calindri: Bevete Cynar, aperitivo a base di carciofo, contro il logorio della vita moderna. Calimero, il pulcino piccolo e nero: Non sei nero, sei solo sporco. Ava come lava! Nino Manfredi sempre con la tazzina di caffè in mano: Più lo mandi giù e più ti tira su. Carlo Dapporto: E tutto d’un tratto il coro: Pasta del capitano. Cesare Polacco, il famoso ispettore Rock: Anche io ho commesso un errore, non ho mai usato la brillantina Linetti. Tino Scotti, che pubblicizzava il famoso lassativo della Falqui:- Per dindirindina che confusione! Ma quando si dice Falqui, basta la parola! E poi lo slogan dei Brutos: Che bella cera, ottima direi, ho cera Grey. Paolo Villaggio, tenendo fede al suo personaggio, con metodi brutali e cattivi, pubblicizzava una marca di sapone: Sole bianco, più bianco non si può. Corrado anche lui pubblicizzava un sapone per lavatrici, però con modi cordiali e euforici. Tutti questi attori che ho menzionato, ma ce ne sono tantissimi altri, hanno visto modificata la propria carriera teatrale avendo ottenuto dalle brevi comparsate televisive uno straordinario successo e i prodotti da loro pubblicizzati hanno avuto un enorme successo di vendite. Tutti ricordano, come se fosse ieri, i prodotti che gli artisti famosi pubblicizzavano nel Carosello, le musichette, gli attori e le loro battute. Moltissimi oggi non solo rimpiangono i programmi di una volta, ma anche la pubblicità vecchio stampo in stile Carosello, i deliziosi slogan pubblicitari che si ricordano tuttora a tanti anni di distanza, alcuni dei quali hanno fatto capolino nel corso di una trasmissione RAI intitolata “Abbasso il Frollocone”: Non è vero che tutto fa brodo; Con quella bocca puoi dire ciò che vuole; Il signore sì che se ne intende.

La maggior parte dei prodotti allora erano però sconosciuti alla povera gente come la Cera Grey, il bruciatore Riello, la Manetti e Roberts, Spic and Span, Max Factor, Brylcremm, Gelati Alemagna, Bianco Sarti, Colonia Pino Silvestre Vidal, China Martini, Sole, Biol, la carne Montana e molti altri prodotti. In quei tempi moltissimi di questi prodotti reclamizzati in televisione difficilmente potevano essere acquistati dal pubblico. Mancavano i soldi per poterli acquistare e ancora non se ne comprendeva l’uso e l’utilità. Ancora da noi si faceva il bucato a mano e si usava il sapone fatto in casa. Il pavimento si lavava con acqua e sapone. Si mangiava carne la domenica e nelle feste comandate, quella carne di maiale che veniva conservata nei vasetti con la sugna. La carne in scatola era considerata una ghiottoneria che se la potevano permettere soltanto i ricchi e poi moltissimi prodotti reclamizzati in T.V. nei nostri negozi di genere alimentare ancora non erano arrivati. Quando arrivarono cominciarono a cambiare i comportamenti di tutta la famiglia, il modo di vestire, il modo di mangiare, il modo di camminare, il modo di stare in società, il modo di stare con la ragazza, il modo di baciare e di fare l’amore. E così, quando la gente scendeva in Amantea, nei negozi di Socievole e Gambardella comprava brillantina, cromatina, cera, dentifricio, lame da barba, saponi, shampoo, panettoni, carne in scatola, formaggini, dado per brodo, omogeneizzati che il giorno prima aveva visto in televisione.

Ormai la televisione ha conquistato tutti gli italiani, li ha condizionati, li ha ipnotizzati, gli ha imposto nuovi personaggi, nuovi stili di vita, nuovi principi morali. Gli italiani, dipendono in tutto e per tutto, dalla televisione, dal Grande Fratello. Lo hanno capito finanche gli uomini politici che ci governavano allora. E così il primo e il secondo canale televisivo vengono lottizzati tra i maggiori partiti politici: alla Democrazia Cristiana  il primo canale televisivo, al Partito Socialista Italiano, che nel frattempo era entrato a far parte del Governo con Pietro Nenni, il secondo canale televisivo. I partiti sopra menzionati ne designavano i dirigenti.

Nell’anno 1976, c’è una svolta nella televisione, incominciano le regolari trasmissioni a colori. Solo pochissime trasmissioni, però. E non tutti hanno il televisore a colori. Costa ancora troppo e il canone televisivo è caro. A dicembre del 1979 venne inaugurato il terzo canale, lottizzato questa volta dal Partito Comunista Italiano. Dal terzo canale vennero poi irradiati i Telegiornali Regionali, delle ore 14, delle ore 19,30 e delle 22,30.

Moltissimi programmi televisivi, teleromanzi, film polizieschi, western, cartoni animati, vengono importati dall’estero. Le trasmissioni di maggiore successo furono alcuni teleromanzi a puntate come “Radici” e “Olocausto”. I programmi per bambini che riscossero maggiore successo furono: “Furia”, “Happy Days”, “Apriti Sesamo” e i cartoni animati come “Heidi”, “Remì” e “Atlas-Ufo-Robot”. Non bisogna dimenticare che agli inizi “Le avventure di Rin Tin Tin” e di “Lassie”, allietarono i pomeriggi dei bambini italiani. Il cane lupo Rin Tin Tin è un protagonista d’eccezione. E’ un cane molto simpatico e intelligente, amico di un bambino di nome Rusty che vive a Fort Apache col Settimo Cavalleggeri. Aiuta i soldati nelle loro battaglie contro gli indiani e spesso salva il bambino Rusty dai guai in cui si è cacciato. I film e i telefilm invadono i programmi della sera.

Ai tantissimi personaggi che diventarono  famosi grazie alle loro apparizioni negli sceneggiati televisivi e nei Caroselli, si aggiunsero nuovi personaggi che di colpo diventarono popolari e familiari: Valentini, Paternostro, Orlando, Pastore, Nonno, Vespa, Fede, Corrado, Vianello, Mondaini, Scala, Costanzo, Arbore. Mike Bongiorno, non invecchia mai, ancora resiste e raddoppia la sua popolarità con “Fiera dei sogni” e con “Scommettiamo? E con ancora “Rischiatutto”. Nascono nel frattempo nuove rubriche come “Domenica in..” e “Bontà loro”, “L’altra domenica”. E poi abbiamo una miriadi di comici che invadono il piccolo schermo:- Se negli Anni sessanta Paolo Villaggio ha sovvertito il rituale dello spettacolo televisivo, i comici televisivi dei Settanta sono sovvertitori del sistema: Dario Fo con le sue satire professorali e volteriane; Cochi e Renato con l'insensatezza surreale che scopre l'insensatezza del reale; Roberto Benigni o Enrico Montesano con la finta ingenuità di Bertoldo, con la riproposizione d’una grossa e primaria comicità contadina che irride la cultura industriale piccolo borghese; Alighieri Noschese e Carlo Verdone con la condensata imitazione che basta a distruggere personaggi della realtà -.(Tornabuoni - Del Buono).

Nel 1980 ha termine il monopolio della RAI-TV. Le televisioni private irrompono sul mercato anche in Italia e incominciano a fare vera concorrenza alla TV di stato, anche perché all’utente non costano nulla, non hanno un canone da pagare. Canale 5, Rete 4, Italia 1, La 7 sono i canali privati di maggiore successo che trasmettono in tutto il territorio nazionale con ripetitori che prolificano ovunque. E poi centinaia di piccole televisioni private che trasmettano nelle provincie e nelle regioni. Con i proventi della pubblicità si espandono, rinnovano le strutture tecnologiche e produttive, anche perché i padroni delle nuove emittenze televisive godono di risorse industriali e finanziarie sufficienti a espandersi e svilupparsi e fare dunque grande concorrenza.

Nuovi mezzi busti e nuovi personaggi invadono il video: Michele Cucuzza, Paolo Bonolis, Enrico Mentana, Gerry Scotti, Amadeus, Licia Colò, Gad Lerner, Giuliano Ferrara, Piero e Alberto Angela, Livia Azzariti, Paola Salluzzi, Paolo Brosio, Claudio Lippi, Luca Laurenti, Ezio Greggio, Iacchetti, Gene Gnocchi, Simona Ventura, Maria De Filippi, Davide Mengacci, Antonella Clerici, Rosario Fiorello, Costanzo, Pippo Baudo, Raffaella Carrà,  e decini di altri.

I primi televisori arrivarono in Amantea a dicembre del 1954. I ripetitori che irradiavano le onde magnetiche erano piazzati a Gambarie d’Aspromonte e sul Monte Faito in Campania. Il negozio che vendette i primi televisori fu quello del Sig. Sicoli Saverio detto Mario in Piazza Commercio. Il genero Pasquale Aprile montava le antenne e il tecnico, l’unico tecnico della zona, era il compianto ed indimenticabile Bonanno Vincenzo. Con passione si dedicava alla riparazione dei guasti sia quando veniva chiamato spesso nelle abitazioni sia quando lavorava nel laboratorio di Via Orti. Tutti allora compravano il televisore presso la ditta del Sig. Saverio Sicoli, perché l’assistenza era assicurata. I televisori allora conosciuti e più venduti erano: Geloso, Allocchio Bacchini, Radio Marelli, Motorola e Brion Vega. Il primo televisore venne comprato da un pescatore del luogo che abitava nella zona antica di Amantea, alla “Chiazza”, in Via Indipendenza e fu il Sig. Mario Porco. Poi fu la volta del Maresciallo Giovanni Vecchio, Maresciallo dei Carabinieri, Comandante la locale Stazione. Ancora oggi la gente del circondario lo ricorda con affetto perché era molto stimato. E poi fu la volta del Sig. De Munno Alessandro, direttore della Banca di Risparmio di Calabria e Lucania e poi di Don Cortese, parroco della parrocchia di Santa Maria La Pinta (Capuccini). Comprò un Motorola che piazzò nei locali della parrocchia. I locali erano frequentati dai parrocchiani e dai ragazzi dell’Azione Cattolica.

Pasquale Aprile e Vincenzo Bonanno lavoravano dalla mattina alla sera. Per montare una antenna in quei tempi impiegavano molto tempo e spesso ritornavano a casa tardi la sera e molto stanchi. Saverio Mario Sicoli era l’unico, in quei tempi, il più fidato rivenditore della zona ed in alcuni periodi dell’anno la vendita dei televisori era molto alta specialmente a Natale e durante l’estate quando ritornavano dall’estero gli emigranti. Avevano lavorato sodo tutto l’anno, avevano messo da parte un bel gruzzoletto e così ora potevano dimostrare agli amici ed ai parenti, comprando un televisore nuovo, che all’estero avevano fatto fortuna. Ne valeva la pena fare tanti sacrifici e stare lontano da casa per diversi mesi dell’anno. L’acquisto del televisore voleva dire agli occhi della gente che le condizioni economiche e sociali erano completamente mutate.

Vincenzo Bonanno era un bravo tecnico ed era l’unico specializzato della zona. Chi comprava il televisore da Saverio Mario Sicoli si poteva considerare fortunato allora, perché aveva il tecnico sempre a portata di mano. Gli altri, che avevano comprato a Cosenza o altrove, quando il televisore si guastava ed allora si guastava spesso, dovevano telefonare a Cosenza presso la Ditta venditrice e aspettare giorni e giorni l’arrivo di un tecnico specializzato. E anche il costo per la riparazione era maggiorato. Bisognava pagare la chiamata, il lavoro e i pezzi di ricambio. Il più delle volte erano le valvole che si bruciavano.

Ad Aiello Calabro uno dei primi televisori venne piazzato nel retro bottega del bar gestito dal Sig. Ciccio Iacucci, conosciuto da amici e parenti come “Ciccio e Nella”. Non era un soprannome, era soltanto un modo per distinguerlo da altri Cicci del luogo. Infatti Nella era il nome della mamma. La gente del luogo che frequentava il bar e contemporaneamente voleva assistere agli spettacoli televisivi doveva necessariamente consumare e sulla consumazione pagare un prezzo maggiorato del 10% che andava poi al proprietario del televisore, il rivenditore locale ed autorizzato dei Televisori Radio Marelli, che era il signor Cicero. Il bar che allora gestiva “Ciccio e Nella” si trovava in Via De Seta, proprio di fronte l’ufficio postale di Aiello Calabro. Quando il sig. Iacucci, dopo un anno, si accorse che la presenza del televisore in sala era un ottimo affare, sciolse il contratto stipulato col venditore e ne comprò uno nuovo. Il bar era sempre affollato, specialmente il sabato sera. Le sedie non bastavano mai e il più delle volte gli avventori erano costretti a portarle dalle proprie abitazioni. I ragazzi, invece, si mettevano a sedere per terra ed erano esonerati da consumare bevande e caffè.

A S. Pietro in Amantea i primi televisori arrivarono con un po’ di ritardo rispetto alle zone limitrofe. Il Parroco Don Pietro Cricelli verso la fine dell’anno 1957 lo acquistò per primo e lo piazzò nei locali della chiesa della Madonna delle Grazie e che fu anche la sua abitazione per diversi anni. Poi lo acquistò il direttore Giovanni Lupi, Rinaldo Grassullo, Settimio Gagliardi, Don Nicola Coscarella, Don Filiberto Lupi, zu Peppino Prati e poi agli inizi degli anni sessanta tutti gli altri. Solo gli abitanti del centro poterono acquistare il televisore, gli abitanti delle contrade dovettero aspettare ancora un po’ perché le loro abitazioni erano ancora sprovviste di energia elettrica. Il Consiglio comunale, sindaco il Sig. Salvatore Gagliardi, deliberò in data 29 febbraio 1960 la costruzione della rete elettrica nelle contrade rurali di Grottone, Muglicelle, S. Elia, Giardini e Gallo dando l’affidamento a trattativa privata alla Società Elettrica delle Calabrie per la realizzazione degli impianti di trasporto, trasformazione e distribuzione dell’energia elettrica.

Ecco cosa scrivono Giovanni Sole e Rossella Belcastro a proposito dell’arrivo della televisione a S. Giovanni in Fiore “Sulle bombole del gas a guardare la Tv”,. S. Giovanni in Fiore è un paese calabrese sulla Sila, molto diverso dal nostro e dai paesi limitrofi, ma simile al nostro per quanto riguarda l’accoglienza riservata allora alla Tv. E i comportamenti della gente erano finanche simili. - Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, ogni perplessità era comunque svanita, e anche i sangiovannesi più ostili o increduli erano stati conquistati dalla televisione. Diverse famiglie acquistarono il televisore e gruppi di persone che abitavano nella stessa “ruga” (rione), si recavano a gruppi nelle loro case per vederla. In segno di augurio i vicini portavano la “stimanza”, spesso una bottiglia di amaro, un pacco di zucchero o di caffè. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivo di orgoglio e di prestigio sociale nella comunità. La padrona di casa, in genere prima delle trasmissioni preparava il caffè e offriva dolci fatti in casa. Parenti, amici e vicini, ammassati in piccole stanze, guardavano le immagini sullo schermo come irretiti da una sorta di magia. Tutti ricordano con una certa incredulità che, nonostante le case fossero piene di gente, regnava il silenzio più assoluto, tanta era forte l’attenzione che la televisione riusciva a catalizzare -.

A Campana, un altro comune della provincia di Cosenza, nell’altipiano della Sila, la televisione arrivò un po’ in ritardo rispetto agli altri comuni calabresi. La ricezione del primo canale televisivo era pessima agli inizi. Mi ha raccontato l’amico Domenico Ausilio che a Campana, dove allora abitava ed insegnava, allo scoccare delle ore 20 e prima del Telegiornale della sera, tutte le persone che possedevano un orologio lo sintonizzavano con quello della Televisione. Una sera, un buontempone, suscitando l’ilarità dei presenti che erano tutti riuniti a guardare la televisione in un pubblico locale, disse a voce alta:- E chi ve lo assicura che l’orologio della RAI indica l’ora esatta? Potrebbe andare avanti o indietro di qualche minuto, come i nostri orologi. Il mio orologio non lo sposto, resta così com’è. Voi fate come vi pare -. Non era soltanto scettico, era pure un po’ ignorante. Non sapeva che l’orologio della RAI era sintonizzato con l’Istituto Galileo Ferraris di Torino. Quell’orologio segnava e segna tuttora l’ora esatta.

Un episodio ridicolo e buffo mi ha raccontato un caro amico, bibliotecario della Civica di Cosenza, verificatosi nella sua contrada di un piccolo paese del cosentino dove negli anni cinquanta ancora viveva coi genitori in quella sperduta contrada. Da poco era arrivata anche in quel luogo la televisione e il primo a comprarla fu il sacerdote del luogo. Non era calabrese. Era stato mandato dal Vescovo per contrastare la penetrazione capillare della chiesa evangelica. Ora in quella contrada non c’è più il parroco, non ci sono scuole, non ci sono bambini, sono rimaste solo poche persone anziane. Ma allora, quando è successo l’accaduto, la contrada era molto popolata.

I bambini, se volevano guardare il pomeriggio e la sera la televisione che il parroco aveva fatto istallare nella sua abitazione, dovevano frequentare la chiesa e il catechismo. Non solo i bambini allora frequentavano la chiesa, ma anche le donne e gli uomini adulti. Anche loro volevano assistere agli spettacoli televisivi. E così la sera, dopo aver cenato, in massa si recavano presso l’abitazione del Parroco. C’era posto per tutti. I bambini per terra, gli uomini accovacciati sui gradini delle scale, le donne sedute sulle sedioline che portavano da casa.

Una sera, terminato lo spettacolo e apparso sullo schermo la sigla finale delle trasmissioni quotidiane, tutti lentamente si alzarono felici e contenti e si ritirarono ognuno nelle proprie case a dormire. Il parroco spense il televisore, chiuse la porta, spense la luce della stanza e si ritirò nella stanza da letto. Si spogliò, indossò il pigiama e incominciò a leggere le ultime pagine del breviario. Non si era accorto e neppure gli altri se ne erano accorti che nelle scale interne era rimasto un vecchio contadino, il quale, avendo bevuto quella sera qualche bicchiere di vino di troppo, si era messo a dormire. Nessuno se ne era accorto, nessuno lo aveva svegliato.

Dopo alcune ore si svegliò di soprassalto e si accorse che nella stanza completamente buia non c’era nessuno. Cercò di scendere dalle scale, inciampò e ruzzolò andando a sbattere ad una sedia facendo un grande fracasso. Il parroco, che era ancora sveglio, sentendo quel forte rumore e credendo che qualche ladro si era intrufolato nella sua abitazione, incominciò a chiedere aiuto e incominciò a gridare:- Al ladro, al ladro! -. - Ma quale ladro, signor curato, sono io!-     - Io chi?-. - Sono………..-. - E che ci fai a quest’ora in casa mia?-. - Evidentemente mi sono messo a dormire e non mi sono svegliato alla fine della trasmissione. Volevo uscire facendo piano piano, però ho inciampato e sono ruzzolato dalle scale. Ora, per favore, accendete la luce perché io non riesco a trovare l’interruttore, fatemi uscire e così potrò togliere il disturbo -. - E chi mi dice che sia andata proprio così, oppure l’hai fatto apposta per rubare le salsicce e le soppressate appese in soffitta?-. – Ma quali salsicce, quali soppressate! Sbrigatevi, signor curato, altrimenti me la faccio addosso!-. – E pure la pipì ora mi fai sul pavimento, brutto ubriacone che non sei altro! Fuori, fuori, e non venire più in casa mia!-.

L’indomani la gente della contrada seppe dell’accaduto e da quel giorno incominciò a prendere in giro il povero………., il quale per guardare gli spettacoli televisivi dovette accontentarsi di stare all’esterno della stanza e per giunta in piedi sullo scalino della porta. Stare due o tre ore in piedi non era facile specialmente per un uomo anziano che tutto il giorno aveva lavorato nei campi. Non poteva addormentarsi altrimenti sarebbe ruzzolato dal ballatoio. Ma ne valeva la pena fare tanti sacrifici. Non poteva, lui soltanto, perdersi lo spettacolo serale e che spettacolo! Andava in onda “Il Musichiere” con Mario Riva.

Gli abitanti di S. Pietro in Amantea , allora, erano tantissimi. Sia il centro del paese, sia le contrade rurali erano affollatissime e le campagne erano tutte coltivate e le “turre” erano tutte abitate e contese dai coloni e mezzadri. Non solo dovevano coltivare il terreno dei padroni, ma dovevano finanche allevare pecore, capre, maiali e mucche e metà del ricavato dalle vendite doveva andare ai padroni. “Le turre” sono da anni abbandonate e la maggior parte di esse sono completamente crollate o invase da alberi e sterpaglie. A S. Pietro e nelle zone rurali, fatta eccezione della contrada Gallo, vivono oggi pochissime persone, moltissime si sono trasferite anche in Amantea. S. Pietro si popola soltanto d’estate e solo per due mesi all’anno, quando i nostri cari emigranti ritornano al paesello per riposarsi un po’ e per andare al mare dopo un lungo periodo di stress e di lavoro in terre certe volte ostili. Le case vuote e abbandonate sono tantissime. Quelle case vuote potrebbero accogliere senza esagerazione, almeno tre mila persone.

I contadini, i braccianti, i mezzadri ed i coloni del luogo erano abituati a stare insieme. D’inverno frequentavano le cantine o i retro bottega e giocavano a carte, briscola, scopa, tressette oppure a “patrune e sutta”. D’estate, invece, si riunivano nella villetta di “Nmienzu u Puritu” o sotto il grande pioppo di “Mnienzu u Largu”. “U zu Minicu”, “U zu Giachinu”, il Cavaliere Sconza, Pasquale Socievole poi, compare Alberto Miraglia per segnalare ai viandanti ed agli avventori la presenza del vino appena spillato dalle “vutte”, sull’uscio delle cantine o delle botteghe mettevano una frasca di quercia. Quella frasca di quercia stava ad indicare che in quel locale c’era vino buono appena spillato dalla botte. E la gente si poteva fidare. Niente truffa, niente inganni. Vino paesano fatto esclusivamente con uva. Certe volte preparavano, di solito per gli amici più intimi, qualche “spizzicariellu” e così poi gli amici erano costretti a chiamare a turno un litro di vino ed una gassosa. Il signor Alfonso Policicchio era un grande maestro in questo. Per gli amici aveva sempre qualcosa.

Nei locali si discuteva di tutto, di sport, di lavoro e di politica nazionale e locale, ma anche di quello che accadeva in Italia e nel mondo. C’è stato un periodo in cui anche le sezioni dei partiti politici erano molto frequentate. La sezione della Democrazia Cristiana era sempre affollata di gente, specialmente durante le campagne elettorali e quando venne installato un televisore nei locali di Via S. Bartolomeo Apostolo alle “Prache”.

Il negozio di generi alimentari, di sale e tabacchi, di Alfonso Policicchio, vendeva anche i giornali, ma in quei tempi se ne vendevano pochissimi. Pochissimi erano i lettori, tantissimi forse non sapevano neppure leggere. Arrivavano in giornata anche perché la posta veniva distribuita due volte al giorno ed arrivava col postale delle 6,30 da Amantea e delle ore 16 da Cosenza. Malgrado ciò poche persone li compravano e poche li leggevano. Alcune persone addirittura se lo scambiavano comprandoli a giorni alterni. Erano in vendita: Il giornale d’Italia, Il Tempo, la Domenica del Corriere, Il Corriere dei Piccoli. Pochissimi ascoltavano la radio anche perché poche persone la possedevano. Tutte le domeniche pomeriggio ad ascoltare il secondo tempo di una partita di calcio trasmessa da Nicolò Carosio andavamo a casa del “Barone” Filiberto Lupi, l’ufficiale postale del luogo. Possedeva un Allocchio Bacchini. C’era Ciccio, Emilio e Saverio che ci aspettavano. Eravamo sempre bene accolti. Con noi c’era immancabilmente il caro ed indimenticabile amico Ciccio Cicerelli, il calzolaio, grande sportivo e grande tifoso della Juventus, ora scomparso in Argentina. Don Gaetano Nesi, l’applicato di segreteria del Comune, aveva fatto installare sopra la finestra della sua abitazione in Via del Popolo una grossa “trumba”, l’altoparlante, e faceva spesso ascoltare alla gente il giornale radio (il famoso comunicato) e alcune partite di calcio della nazionale italiana.

Sfogliando l’album dei ricordi, le vecchie immagini di circa cinquanta anni fa, ci accorgiamo che tantissimi nostri eroi della Televisione Italiana non ci sono più: Tortora, Bramieri, Carosio, Jacobelli, Ruggero Orlando, Alighiero Noschese, Peppino De Filippo, Marcello Marchesi, Andrea Barbato, Nando Martellini, Peppe Viola, Sandro Ciotti. Altri sono andati in pensione e tantissimi si sono perduti strada facendo e nessuno più li ricorda.

La televisione, sin dall’inizio, ha portato un po’ di scompiglio nelle nostre case. La famiglia era sì riunita ogni sera intorno al televisore, però tutti i componenti dovevano stare zitti, non dovevano disturbare durante la trasmissione. Non esisteva più dialogo, non c’era più comunicazione, nessun scambio di idee e di esperienza. Ha creato anche una spaccatura tra italiani ricchi e italiani poveri, tra italiani del Nord e italiani del Sud. Infatti i primi acquirenti furono i ricchi e gli abitanti del Nord. Allora l’Italia era un paese povero, ancora profondamente ferito dai disastri della guerra e con una grande disoccupazione specialmente nell’Italia meridionale. Il reddito medio pro capite era bassissimo, il consumo di carne era irrisorio, le automobili in circolazione erano scarsissime, il prezzo minimo di un televisore di 14 pollici era di circa 160.000 lire e il prezzo massimo era di 1.300.000 lire con un canone annuale di 12.250 lire. Ecco perché solo pochi italiani all’inizio potevano comperare il televisore e quei pochissimi erano concentrati soprattutto a Milano e a Torino.

Essere proprietario di un televisore negli anni 50 era un onore, e aprire le porte di casa ai vicini ed agli amici non provvisti ancora di televisione, voleva dire sacrificare l’intimità familiare all’invasione dell’indiscrezione altrui.

Moltissime famiglie, accoglievano, però, l’invasione con piacere. Infatti non solo facevano trovare le sedie e le panche per guardare i programmi serali, ma spesse volte offrivamo un thé caldo, un bicchiere di vino e all’occorrenza anche qualche bicchierino di amaro, quello che Calindri reclamizzava a Carosello. I più piccini erano costretti a stare seduti per terra, sempre però sopra un tappeto di lana e spesso e volentieri erano gratificati con l’offerta di biscotti o di pasticcini fati in casa. Il sacerdote del luogo, Don Pietro Cricelli, ai ragazzi dell’Azione Cattolica offriva spesso le noccioline americane.

Nei bar, nei caffè, nei pubblici esercizi chi assisteva agli spettacoli non era costretto a pagare il biglietto come si faceva quando si andava al cinema, però era d’obbligo la consumazione. In alcuni paesi, durante la trasmissione, il proprietario del locale passava fra la gente con una vassoio in mano e chiedeva un piccolo contributo per il consumo dell’energia elettrica.

La gente che per la prima volta guardava quelle immagini in bianco e nero provenienti da quella scatola quadrata posta su un comodino nell’angolo più bello della abitazione e collegata con un lunghissimo filo ad una altissima antenna posta sui tetti delle case era affascinata. Per la povera gente in quella scatola ci doveva essere necessariamente qualche cosa di magico. Nessuno riusciva a spiegare come personaggi distanti migliaia di chilometri e forse in un’altra parte del mondo, all’improvviso, muovendo una manopola, potessero comparire sul vetro di quella scatola. Molta gente mostrava incredulità su quanto si vedeva sullo schermo. Si raccontano diverse storielle e su queste si sono imbastiti diversi aneddoti. Alcune persone volevano toccare con mano il televisore, lo ispezionavano, lo controllavano davanti e di dietro per vedere se in quella scatola magica ci fossero nascoste delle persone, degli animali o delle cose. Altre si domandavano:- Se per caso riuscissimo a capovolgere il televisore le gonne delle ballerine e delle signorine si capovolgerebbero?- Altre, invece, quando apparivano sullo schermo le signorine “buonasera”, rispondevano al saluto delle annunciatrici come se ce le avessero davvero davanti e come se il saluto fosse stato rivolto esclusivamente a loro. Rispondevano compiaciute con un “Buonasera a lei” alla gentilezza di Nicoletta Orsomando, ai sorrisi di Aba Cercato. Altre ancora dialogavano addirittura con i protagonisti e con i personaggi dello sceneggiato, con i concorrenti dei quiz, come se fossero davvero presenti in quella stanza. Davano loro dei suggerimenti e consigli, sussurravano come dovevano comportarsi e cosa dovevano rispondere. Facevano un tifo da stadio. Se riuscivano a rispondere alle domande del presentatore gridavano ed applaudivano. Se sbagliavano urlavano improperi e in coro dicevano. Scemo, scemo, che figura che hai fatto!-

In quegli anni la televisione era ancora, più che un elettrodomestico, un mobile di casa; un mobile a dire il vero un po’ bruttino, squadrato, ma pur sempre un mobile da armonizzare col resto del mobilio. Veniva piazzato ad un angolo della stanza più bella e per chi lo possedeva nel salotto, nel salotto buono, quello che non veniva mai usato prima di allora, quello che aveva ancora le sedie nuove eternamente ricoperte di cellophane. E per ripararlo dalla polvere veniva ricoperto da una magnifica tovaglia finemente ricamata a mano.

Anche quando il 21 luglio del 1969 la televisione trasmette l’approdo sulla luna dell’astronauta Neil Armstrong e il commento subito dopo aver posto piede sul suolo lunare:- E’ il piccolo passo di un  uomo, ma è un balzo gigantesco per l’umanità -, non tutti credono al grande evento. Per molti è stato un trucco televisivo. Il Sig. Antonio Policicchio, fino all’ultimo, non volle crederci. Ora anche alcuni uomini illustri mettono in dubbio quella straordinaria impresa spaziale. Forse zio Antonio non aveva tutti i torti nel dubitare.

La ricezione del primo canale televisivo, l’unico allora esistente, non era sempre delle migliori. Il segnale spesso andava e veniva e i rivenditori erano costretti a montare sui tetti delle case delle antenne altissime che poi immancabilmente d’inverno venivano spesso piegate dal vento. Al posto del televisore moltissime persone preferirono avere in casa il frigorifero. Serviva per tenere l’acqua sempre fresca e i cibi si potevano conservare a lungo. Nessuno pensava di acquistare una lavatrice, anche perché l’acqua in casa non c’era, arrivò soltanto nel 1970 in casa dei sampietresi. Fino ad allora alcuni si arrangiavano con pompe volanti ed erano quelli che avevano l’abitazione vicino le pubbliche fontane di Piazza Municipio, Piazza IV Novembre e Piazzetta Margherita. Il 2 agosto del 1970 il Consiglio Comunale deliberò di utilizzare anche per uso privato l’acqua che alimentava le pubbliche fontane perché era stata costruita e ultimata la rete idrica interna. I panni sporchi venivano lavati “Ai quattro canali” o nelle “cibbie” di Terramarina. La mia famiglia, però, usava la lavatrice elettrica sin dal 1964, era una Rex, comprata nel negozio di elettrodomestici del Sig. Polillo da Rovito, utilizzando l’acqua proveniente dal pozzo che aveva fatto costruire sotto casa.

La famiglia tradizionale con l’avvento della televisione ha smesso di esistere. Un altro nucleo familiare si era formato, composto per lo più di pezzi di famiglie del vicinato, diverse fra loro, tenute insieme non da legami di parentela o di sangue, ma di legami televisivi. Anche i consueti orari del ritorno a casa dalla campagna, della cena serale e del dormire furono sconvolti. L’inizio della programmazione regolare ha cambiato moltissime abitudini degli italiani. Si cenava prima del telegiornale; i bambini andavano a letto dopo aver visto Carosello; le cantine, i cinema e le osterie si svuotavano; la sigla finale delle trasmissioni segnava l’ora che si doveva andare a dormire. Anche l’autorità del capo famiglia andava scemando. Gli antichi valori che venivano tramandati da generazioni da padre in figlio a poco a poco perdevano d’importanza o venivano messi in discussione. Gli anni del boom economico, gli anni dell’illusione del benessere collettivo, gli anni del consumismo sfrenato hanno avuto nella televisione, con i caroselli prima e con i consigli per gli acquisti dopo, la propagandistica più accanita e più poderosa, più suadente e travolgente. Ma la vita non è solo Carosello o quello che la televisione pubblicizza. Per moltissime famiglie la televisione ha preso il posto che un tempo aveva la mamma o il papà. Hanno rinunciato all’educazione dei propri figli demandandola tout court alla televisione. Infatti molti bambini parlano e si comportano come i divi televisivi o come gli eroi dei cartoni animati, perché stanno diverse ore al giorno davanti al televisore e guai a chi li disturba. La TV è diventata una governante, una “tata”, una intrattenitrice, un insegnante, una mamma e un papà, una divulgatrice di verità. I figli non hanno più alcun legame coi genitori, ma esclusivamente con la televisione. Gli adulti, perché non vengano disturbati, lasciano i bambini ore ed ore soli davanti all’apparecchio e non si preoccupano minimamente se durante le loro assenze guardano programmi cruenti, sanguinari scandalosi, pornografici e a volte anche pericolosi. La televisione troppo spesso viene utilizzata come una sorte di baby-sitter elettronica per liberarsi dal “peso” dei figli. Sarebbe bello se potessimo offrire ai ragazzi delle valide alternative per riempire le giornate e le serate. Ah! se potessimo dare più spazio e importanza alla conversazione, alla lettura di libri e giornali, al commento delle notizie del giorno, ai giochi all’aria aperta, alle passeggiate in campagna, alle escursioni in bicicletta.

I giochi, è risaputo, offrono l’occasione per apprendere i modelli di comportamento dei grandi in modo piacevole e consentono nello stesso tempo, ai ragazzi che li praticano, di esercitare il corpo, di mostrare la propria abilità, di apprendere, di rispettare gli altri e a considerarli leali competitori.

Forse, giocare con i coetanei piacerebbe ancora di più, ma al giorno d’oggi è difficile trovarli ed è ancora più difficile, specialmente nelle grandi città, trovare luoghi adatti per farlo. Un tempo la strada era il teatro dei giochi fanciulleschi; teatro oggi contrastato dagli automezzi, che lo rendono pericoloso. Vedere la televisione è, dunque la sola cosa che si può fare. E’ un’ottima compagnia. Ha così buon gioco nell’essere l’unica occasione per non  restare soli in casa e annoiarsi.

Se chiedessimo direttamente ai bambini di oggi perché guardano la televisione, probabilmente essi risponderebbero così:- Perché mi piace. Perché diverte. Perché fa ridere. Perché informa. Perché ci fa provare tante emozioni e poi perché in televisione si vedono tante cose sia belle che brutte. In ogni momento della giornata attraverso i telegiornali ci tengono informati in tempo reale di quello che sta succedendo nel mondo. E poi la televisione ci racconta tantissime cose che  sono ancor più divertenti di come le avrebbero potute raccontare i nostri genitori che, fra l’altro, sono spesso assenti da casa o completamente distratti o stanchi o svogliati oppure tanti impegnati in altre faccende -.

I bambini mangiano mentre sul televisore passano immagini cruenti e violente, immagini di guerre, di stragi, di omicidi, di suicidi, di stupri, di attentati, di fame, di morte, di bambini violentati ed abbandonati, di madri assassine, di neonati lasciati morire sui prati.

Un po’ di astinenza da video farebbe molto bene ai bambini di oggi, farebbe senz’altro riscoprire il vivere con gli amici e la famiglia. Poveri bimbi, troppo soli, storditi dalla televisione e dai rimproveri, quando, invece, basterebbe tornare a trovarsi tutti insieme, mamma, papà, fratelli e sorelle, intorno al tavolo del pranzo e della cena familiare. E raccontarsi la giornata appena trascorsa.

I bambini che escono poco dalle loro case dormitorio e ancor meno dai loro quartieri e dalle loro città, che d’estate non vanno al mare o in montagna, che nei wek end non vanno in gita o che non fanno piccoli o lunghi viaggi coi genitori, imparano a conoscere il mondo soltanto guardando la televisione. Solo guardando il piccolo schermo imparano a conoscere non solo i luoghi molto lontani ma anche i luoghi più vicini e quelli della fantasia. Solo così potranno incontrare personaggi più diversi e situazioni più strane.

I bambini di oggi hanno appreso molte cose, hanno visto in televisione moltissime località del mondo, hanno imparato a conoscere tantissimi animali del mondo, hanno visto fiumi, laghi, monti, cascate, città e paesi certamente molto di più di quanti ne avevano visto ed ammirato i bambini della mia generazione, molto di più di quanti ne avevano conosciuti i nostri padri e infinitamente di più dei nostri nonni vissuti per tutta la vita all’interno di un piccolo paese di provincia dove non c’era l’acqua in casa e non c’era neppure la luce elettrica da cui non erano mai usciti fino alla morte. Ma tutte queste cose belle che esistono al mondo le hanno solamente viste in televisione e non dal vivo che è tutto un’altra cosa.

La televisione non ha cambiato solamente la vita dei nostri figli, ma ha cambiato profondamente soprattutto la nostra. Osservate una città o un piccolo paese quando in televisione trasmettono una partita di calcio della nostra nazionale italiana. Ad un certo punto la città o il paese si svuotano completamente, non si vede nessuno in giro come se ci fosse il coprifuoco, le strade sono completamente deserte, le automobili sono come d’incanto scomparse. Poi all’improvviso al triplice fischio dell’arbitro che indica che la partita è terminata e che gli azzurri hanno vinto, le strade, i bar, i locali pubblici si riempiono di masse di giovani e meno giovani, per le strade compaiono le motociclette e le automobili strombazzando rompendo i timpani alla gente che vuole riposare. Questo è un esempio abbastanza preciso di questi cambiamenti, come lo sono il pranzo e la cena in silenzio. Guai a disturbare papà durante la lettura del telegiornale, guai a disturbare mamma quando vanno in onda “Beautiful” o “Un Posto al sole”. C’è poco tempo in famiglia per parlare. C’è il telegiornale: fai silenzio. Ci sono i ragazzi di Maria De Filippi: non disturbare. C’è Zelig Circus: statte cittu che mi fai perdere le battute. Quando poi non c’è niente in televisione, mamma e papà non ci sono, sono andati via o completamente affaccendati in altre cose. Se poi esiste nelle nostre case più di un televisore allora non c’è nemmeno l’occasione di discutere e magari litigare. Ognuno se ne sta chiuso nella propria stanza e guai a disturbare. Ognuno è libro di scegliere i propri programmi.

Nel giorno dell’inaugurazione della televisione in Italia Mike Bongiorno interrogò, fra gli altri, Luigi Barzini Jr. Alla domanda:- Crede lei che la televisione possa avere una buona influenza sulla vita culturale italiana?- così rispose:- Dipende da loro, da quello che avrebbero trasmesso -. E la Tv, da quel giorno, ne ha fatto di strada.

Il Papa Pio XII disse il giorno precedente l’inaugurazione:- Innumerevoli sono i vantaggi della televisione se messa al servizio del perfezionamento dell’uomo. Ma come non inorridire al pensiero che, mediante la televisione, possa introdursi tra le stesse pareti domestiche quell’atmosfera avvelenata di materialismo, di fatuità e di edonismo che troppo sovente si respira in tante sale cinematografiche?-.

E Pier Paolo Pasolini così scriveva circa venti anni dopo:

- C’era la speranza che le difficoltà per introdurre la televisione da noi fossero gravissime, invincibili; che l’atmosfera che ci avvolge e ci dà così tersi cieli, così limpidi luci all’aurora e al tramonto, che imbeve di arcane dolcezze i nostri frutti e di solare vigore i vini, che la nostra cristallina atmosfera fosse inadatta alle onde televisive. La nostra speranza fu vana. Fra pochi mesi saranno già numerose sugli edifici quelle antenne fatte come un fusto di ombrello ; ci saranno in tutti i bar quegli schermi con su la danza di spettrali figure grigie in una nebbia grigia… Se in questi anni l’Italia è rimasta un po’ addietro, riprenderà il suo posto all’avanguardia delle nazioni in marcia verso il progresso all’ingiù: verso una società di analfabeti, di conformisti, di meccanizzati…l’umanità sarà sempre più schiava delle macchine…l’intelligenza cederà il posto all’istinto, i sensi si ottunderanno…la televisione, subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza, non lascia altra libertà che quella di passare da un programma all’altro, finisce con l’imbottire i crani -. Le previsioni catastrofiche di Pasolini non si verificarono anche se i tetti delle nostre case sono invase da antenne tradizionali e paraboliche che deturpano l’ambiente e, i bar e le pizzerie, per attirare clienti durante le trasmissioni a pagamento delle partite di calcio, hanno istallato nei locali schermi giganti. La televisione di Stato e quella privata si sono diffuse ovunque e tutti possono ricevere i segnali e la nostra atmosfera, anche se nelle grandi città è inquinata, è adatta alle onde televisive. E l’industria, per allargare il mercato del nuovo mezzo di comunicazione, sforna ogni giorno apparecchi sofisticatissimi e anche a buon mercato. E in ogni casa di ogni italiano ci sono oggi 3 0 4 televisori e pure a colori. Tutti guardano la televisione e gli sceneggiati, i film e i reality show messi in onda sia dalla Rai che dalle reti Mediaset (quelle di Berlusconi) vengono seguiti con una passione popolare da milioni di telespettatori.

    L’acquisto del televisore una volta era una conquista. La scelta del tipo, poi, era oggetto di dialogo fra tutti i componenti la famiglia. A volte anche i nonni, gli zii, le zie, i cugini partecipavano all’analisi delle caratteristiche dei vari modelli, che duravano settimane prima della scelta definitiva. Venivano presi in considerazione il prezzo, l’eleganza, la grandezza, l’efficienza, la qualità del televisore, ma soprattutto l’affidabilità e la convenienza di avere vicino un tecnico specializzato che all’occorrenza sarebbe stato disponibile a riparare il guasto dell’apparecchio ed infine la serietà del rivenditore. Oggi, invece, la scelta viene fatta dai figli. Sono molto competenti in materia tecnologica. Abbiamo nuove marche di televisori fabbricati all’estero ed importati in Italia. che richiedono poco o niente manutenzione. Anche le antenne televisive sono cambiate. Oggi abbiamo le paraboliche che deturpano l’ambiente. In ogni balcone c’è una antenna. Che schifo!

    La televisione ha condizionato e condiziona tuttora il     pubblico. Lo condiziona nelle scelte e gli fa credere qualsiasi scemenza. Lo costringe a pensare, a fare, a scegliere quello che lei vuole. E gli scaffali delle nostre case sono pieni di prodotti insignificanti e che non ci serviranno, che purtroppo abbiamo comprato nei supermercati perché visti in televisione. E chissà quante volte siamo andati in un negozio a comprare un liquore pubblicizzato in televisione da un attore famoso che noi amiamo e stimiamo perché  secondo lui fa bene alla salute. Quante persone sono diventate alcolizzate seguendo i suoi consigli per gli acquisti!

E quante persone si fanno fregare dagli imbonitori di turno o da quei maghi che promettono vincite al lotto e successi folgoranti in amore. E i nostri figli si fanno infinocchiare da quei ragazzi che partecipano agli spettacoli condotti da gente famosa e gli fanno il lavaggio del cervello. Li costringono a pensare, a comprare, a vestirsi, a comportarsi, come vogliono loro. La televisione impone personaggi e tutti oggi parlano dei ragazzi “dell’Isola dei famosi”, dei personaggi del “Grande Fratello” , della “Talpa” e della “Fattoria” del 1870 e li copiano. Allora è vero che chi è padrone della televisione è onnipotente, è quasi Dio. Bisogna ricorrere ai ripari. Domani sarebbe troppo tardi.

 


 

 

 

Col cuore in gola e la valigia di cartone legata con lo spago

La valigia dei sogni

 

Che cosa è l’emigrazione? La definizione più semplice è questa: è l’abbandono dell’ambiente di origine da parte di individui con l’obiettivo dell’inserimento provvisorio o permanente in un nuovo ambiente, che può essere all’interno dello stesso stato di origine o in uno stato estero.

Questi spostamenti possono essere non solo provvisori o permanenti, ma anche volontari, spontanei o coatti. Gli spostamenti degli emigranti sampietresi sono stati per la maggior parte dei casi spontanei e permanenti. Soli pochissimi emigranti, dopo aver lavorato all’estero, sono ritornati nel paesello natio.

Le migrazioni, nei secoli passati, hanno contribuito alla formazione di moltissime nazioni moderne. Quelle più recenti, invece, hanno contribuito alla loro crescita sul piano industriale, economico, sociale e culturale. Interi continenti devono il loro popolamento ai flussi migratori. I paesi maggiori che si giovarono della nostra emigrazione furono il Brasile, l’Argentina , il Canada e gli Stati Uniti d’America. Questi Stati,  grazie al lavoro degli emigranti e alle ingenti risorse naturali, ebbero un notevole sviluppo economico basato principalmente sull’allevamento del bestiame, sull’agricoltura, sulle industrie del ferro, dell’acciaio, sulla costruzione di ponti, strade e ferrovie, sulla estrazione di minerali i cui sottosuoli erano e sono ricchissimi.

I fattori che influenzarono i movimenti migratori furono: le variazioni climatiche, i traffici, le guerre, la povertà, la fame, le carestie, la scoperta di nuove terre, l’industrializzazione, l’attrazione delle città, le persecuzioni di minoranze etniche, la sovrappopolazione, la schiavitù. L’immigrazione coatta di negri dell’Africa catturati e venduti come schiavi in America ha contribuito allo sviluppo economico e agricolo degli Stati Uniti d’America. Infatti la maggior parte dei negri venduti come schiavi andavano a lavorare nel profondo Sud dove venivano occupati come inservienti nelle case dei bianchi proprietari terrieri e come coltivatori delle immense piantagioni di cotone.

Il flusso migratorio calabrese e di S. Pietro in particolare verso gli stati esteri fu dovuto principalmente al fattore fame e miseria, al sogno di miglioramento economico e sociale, alla disoccupazione, al sovrappopolamento. Chi è emigrato è stato mosso dalla speranza di trovare migliori condizioni di vita, un lavoro stabile e duraturo, molto remunerativo, un ambiente sociale diverso che avrebbe potuto favorire anche un maggiore benessere a tutta la famiglia e ai propri discendenti.

Accanto al movimento migratorio con l’estero S. Pietro ha dovuto registrare anche un altro movimento migratorio, quello delle migrazioni interne, cioè da S. Pietro verso altri comuni italiani, certamente non di analoga entità quantitativa. Moltissimi nuclei familiari si sono spostati nella vicina Amantea e Campora S. Giovanni. Altri, invece, sono andati verso il Nord Italia, a Genova, Albenga, Torino, Reggio Emilia, Mantova, Parma, Milano e dintorni, e persino in Toscana, Sicilia e Sardegna. Si sono adattati benissimo nelle nuove città e nei nuovi posti di lavoro anche perché le persone adulte emigrate avevano frequentato le scuole superiori, avevano conseguito un diploma di specializzazione, non hanno dovuto imparare una nuova lingua, non hanno dovuto abbandonare i loro usi e costumi. Lo sradicamento dall’ambiente d’origine e l’insediamento nel nuovo ambiente quindi non ha comportato grossi problemi.

Anche S. Pietro in Amantea, terra di emigranti, pagò un lungo tributo di sangue. Moltissimi operai si ammalarono nelle miniere e nelle cave di pietra, due di loro e per giunta fratelli, morirono in due gravi incidenti sul lavoro. Uno, Guzzo Vittorio, morì il 12 ottobre del 1961 alla giovanissima età di appena 21 anni, l’altro, Guzzo Settimio il 9 agosto del 1965, anche lui alla giovanissima età di appena 23 anni. Tutte e due i fratelli Guzzo morirono sullo stesso luogo di lavoro e sempre per l’esplosione di una mina che loro stessi stavano preparando. Brutto destino il loro.

Ianni Giuseppe, invece, morì di silicosi, una terribile malattia professionale causata per infiltrazione nei polmoni di polvere di silice che respirò per lungo tempo nella miniera dove era costretto a lavorare. Morì a febbraio del 1965.

In due diversi incidenti morirono nell’aprile del 1968, sempre in Francia, Gatto Giuseppe e nel gennaio 1971 Valentino Gagliardi. Giuseppe era nato nel 1940, mentre Valentino era nato nel 1943. Lasciarono  ciascuno due orfanelle ancora in tenera età. La moglie di Valentino restò in Francia dove vive tuttora, mentre l’intera famiglia di Giuseppe abbandonò la Francia e si stabilì a Torino.

Molti altri calabresi, emigrati in terre lontane in cerca di lavoro, perirono nelle miniere di carbone degli Stati Uniti. La più grande tragedia si verificò nel West Virginia nel lontano 1907 dove morirono migliaia di minatori, il numero esatto non si è mai saputo. Trentaquattro di essi erano di San Giovanni in Fiore.

Moltissimi sampietresi morirono all’estero di morte naturale e non fecero più ritorno nella loro amata terra di Calabria. A questo punto mi preme ricordare mastro Benedetto Guido, il sarto, e la moglie Meluzza Sicoli, originaria di Amantea. E così pure Gatto Delfino con la moglie Graziano Maria e la madre di lui la Sig.ra Caterina Gatto e tanti altri di cui oggi mi sfugge il nome e che tutti ricordano con tanta stima ed affetto.

Dopo aver affrontato enormi sacrifici solo pochi sampietresi sono ritornati definitivamente nel nostro paese. Fra i tanti voglio ricordare Attilio Miraglia che ritornò dalla lontana America con moglie e due figlie. La terza figlia, la cara Priscilla, è nata in S. Pietro. E poi il Sig. Franco Caruso con la moglie Clementina Gagliardi. Le due figlie sono rimaste a lavorare in Germania. Vengono, però, spesso a S. Pietro non solo d’estate, ma anche a Pasqua e a Natale. Dopo essere stati lontani dal paesello natio per lunghi 40 anni in Germania ora vivono in S. Pietro in Vico Mario Policicchio. Hanno ristrutturato una bella casetta e vivono felici e contenti e si godono il frutto del loro onesto lavoro. La casa è meravigliosa e dalla terrazza si gode un panorama bellissimo con l’immensa località Terramarina proprio sotto la veranda dalla quale si vede persino il Mare Tirreno e il Castello di Amantea. Durante le belle giornate si intravede persino il vulcano lo Stromboli. Anche zio Peppino Prati ritornò dal Venezuela. Gestì per molti anni il negozio di genere alimentare in Via del Popolo, poi si trasferì in Amantea dove i figli e il genero Riziero Miraglia aprirono per primi un grande supermercato M.P. (Miraglia e Prati) ora affiliato alla catena Sidis.  Anche Franco Prati, ritornato dalla Germania, insieme a Riziero Miraglia, aprì un negozio all’ingrosso in Amantea. Adesso è socio del supermercato Sidis. Con tutta la famiglia si è stabilito in Amantea. Altri lavoratori che erano emigrati fecero ritorno in Patria, come Palmerino De Grazia, Mario Presta, Alfredo Gagliardi, Cadetto Francesco con moglie e figli, tutti dal Venezuela. Anche Antonio Cadetto e la moglie Edvige fecero ritorno a S. Pietro. E così pure Michele Ziccarelli e la moglie Carmela Posteraro con l’intera famiglia fecero ritorno dalla Francia. Mastro Francesco Naccarato (lo stagnino proveniente da Dipignano) con la moglie Merinda, invece, fece ritorno dalla Germania. Gabriella Gagliardi e la sorella  fecero ritorno dal Venezuela ed ora vivono in due bellissime località della Ciociaria nel Lazio.

Verso la fine degli anni cinquanta la gente di S. Pietro volle cambiare completamente vita, e così intere famiglie emigrarono all’estero e non fecero più ritorno. Riuscivano a portare nelle nuove terre poche cose. La biancheria portata in dote, frutto di tanto lavoro e sacrifici, veniva messa in grandi valige di cartone legate con lo spago e si avviavano verso la stazione ferroviaria di Amantea accompagnate tristemente da tutti gli amici e parenti. Per l’occasione usavano il mezzo di trasporto pubblico di Tittuzzo Morellli della vicino Amantea, proprietario della vecchia “Balilla” di colore verde o il camioncino di Alfonso Policicchio, l'unico mezzo di trasporto esistente in paese. Prendevano il treno diretto per Napoli, biglietto di terza classe, quella più economica, per lo più l’accelerato, quello che si fermava ad ogni stazione ferroviaria perché poco affollato, e lì si imbarcavano sulle navi, vecchie carrette di mare, residuati bellici della seconda guerra mondiale. La maggior parte erano diretti in Brasile, Argentina, Venezuela, Canada, America del Nord e finanche Australia.

I più fortunati andavano a lavorare in Belgio, Francia, Germania e Svizzera. Erano considerati i più fortunati perché sapevano che un giorno sarebbero tornati nel paesello natio. Infatti partivano da soli e in S. Pietro lasciavano i genitori, le loro mogli, tutti i loro affetti. Era gente che lavorava sodo e mandava in paese tutti i loro risparmi, che poi venivano puntualmente depositati nei libretti postali che sarebbero serviti un giorno per comprare una casetta, un pezzo di terra. Facevano enormi sacrifici, specialmente i primi tempi. Infatti si cucinavano da soli e dormivano nelle baracche che i datori di lavoro assegnavano loro, per risparmiare vitto e alloggio. Si lagnavano spesso del vitto. In verità, la maggior parte di loro, non avevano una grande opinione della cucina straniera. Mancavano nella loro parca mensa gli spaghetti fumanti e la pasta e fagioli, le fave, i piselli, i pomodori e poi la frutta di stagione che nel nostro paesello si trovava allora in abbondanza ed infine il vino genuino delle nostre campagne.

La maggior parte degli emigranti erano scapoli. In un secondo tempo, dopo aver fatto fortuna e trovato un lavoro stabile, si facevano raggiungere dai familiari. E in compagnia di amici e compaesani fondavano nuovi agglomerati fuori dalle città, lontani dalle fabbriche e dalle miniere, dando nomi di città  italiane e solo così davano loro un senso di libertà.

I primi che partirono vivevano tutti insieme nelle baracche, ma si sentiva immancabilmente l’assenza di una donna che avrebbe potuto lenire le ansietà del paese nuovo e straniero. Mancava loro il calore dell’ambiente calabrese e paesano, la possibilità di godere di intimità durante le serate e i week end in cui si giocava solo a carte. Dopo una giornata di duro lavoro avrebbero voluto e desiderato un po’ di tenerezza  e di riposo, invece dovevano dedicarsi alla cucina, alla lavatura, alla stiratura, al rammendo. L’atmosfera delle baracche, fredda di aroma di birra e di fumo, dissimile dall’atmosfera calda di vino del paese natio, dissimile negli odori e nei rumori da quella del paesello lontano, non dava un senso di sicurezza, non leniva le ansietà. A volte gli emigranti si isolavano, scrivevano lettere struggenti ai parenti lontani e si mettevano a piangere. Si lamentavano della lontananza, del cibo, del clima, degli usi e dei costumi, della lingua che non riuscivano ad imparare. E qui mi preme ricordare, parlando di nostalgia per la terra lontana, la bellissima canzone di Bovio “Lacreme Napulitane”, che anche se intrisa di grande teatralità, ci fa rivivere la grandissima tragedia e sofferenza dei nostri cari emigranti in terre lontane. Si avvicinava il Santo Natale e struggente era il ricordo della sera della Vigilia. L’emigrante avrebbe voluto essere in mezzo a tutti i familiari, avrebbe voluto ascoltare il suono della zampogna! Io non ci sono ma quando apparecchierete la tavola mettete anche il mio piatto “comme si ‘mmiez’a vuje stesse pur’io”. Quante lacrime mi costa questa America, come è amaro il pane che col sudore ci guadagniamo ogni giorno!  Io che ho perso la patria, la casa e l’onore, sono carne da macello : Sono un emigrante!

Sognavano ad occhi aperti la cara e dolce terra di Calabria, così selvaggia e così bella. Così bella nelle splendide notti d’estate di luna piena e profumata dalle ginestre in fiore. Non passava una settimana che non mandassero una lettera a casa. Che festa quando arrivava e veniva consegnata con tanto affetto dal portalettere Don Lisandro prima e zio Domenico Guido poi. Veniva letta avidamente da tutti i componenti della famiglia, come del resto dagli amici e dai vicini di casa. Non si stancavano mai di farsi ripetere le incredibili descrizioni della terra lontana contenute in quelle lettere. Anche loro avevano tanta voglio di partire. Ecco il tono tipico di una di queste lettere indirizzata ad un amico del posto che lo invitava a lasciare il paese e a raggiungerlo all’estero:- Pensa a venire prima che sia troppo tardi. Quanto a me, non ho nessuna intenzione di ritornare in Italia. Fra un anno o due spero di essere in grado di farmi raggiungere dal resto della famiglia. Di lavoro, qui, ce n’è tanto, e la paga è buona -. Ecco cosa scriveva un emigrante ai propri genitori. Tralascio per ovvie ragioni di scrivere il nome del sacerdote e il nome della famiglia : - …… mi raccontava sempre delle storie straordinarie sul paradiso, se è ancora vivo, ditegli che il paradiso l’ho trovato qui, e che è infinitamente migliore di come lui l’immaginava -.

I nostri emigranti chiudevano le lettere mandando i saluti a tutti gli amici ed ai parenti che erano rimasti a casa. Salutatemi tutti quelli che mi conoscono e che domandano di me. Io non li ho dimenticati. Non avevano dimenticato nessuno e non volevano essere dimenticati.

 Scrivevano agli amici e parenti rimasti in paese e li invitavano ad abbandonare la Calabria e a partire per l’America. Lì avrebbero dato un calcio alla miseria ed avrebbero fatto certamente fortuna.

Quando partivano erano sempre in molti, non erano mai da soli. Subivano, spesso, il “tiraggio” degli amici o dei parenti e si andavano a collocare in terra straniera proprio vicino ai paesani che in patria erano stati suoi amici. Lavorando insieme, l’assistenza reciproca, lo scambio di idee ed esperienze, il parlare la stessa lingua e lo stesso dialetto paesano faceva superare loro molte difficoltà. Condividevano e sopportavano insieme le mille e mille difficoltà, i sacrifici e le privazioni alle quali si sottoponevano giornalmente per risparmiare. Infatti, ancora oggi, noi troviamo grosse comunità di sampietresi consolidate A  Caracas e Punto Figo in Venezuela, Chambèry in Francia, a Buenos Aires in Argentina, e a New York e Chicago negli Stati Uniti d’America.

D’Angelo, nel libro “ Son of Italy”, scrive che gli emigranti sbarcati in America cercavano di riprodurre addirittura l’ambiente del villaggio natio, si attaccavano disperatamente gli uni agli altri. Il vivere separati da parenti ed amici e il lavorare da soli li spaventava. Preferivano sopportare i sacrifici insieme piuttosto che staccarsi. Isolati si sentivano smarriti, perduti, perché non sapevano niente della lingua, delle usanze, delle leggi del paese che li ospitava. E così anche i negozi che frequentavano erano gestiti da italiani, serviti da italiani, con clientela esclusivamente italiana.

 Antonia Pola nel libro “Who can buy the States” ci descrive così bene le condizioni di vita degli emigranti italiani nelle città minerarie della Indiana.  Ci parla dello squallore del campo minerario, delle miserabili casette tutte uguali fatte di legno aventi sul retro un fazzoletto di terra coltivato a orto con la campagna all’intorno incolta e invasa da erbacce. Era maggio, il mese delle rose e tutto doveva essere coperto di bei fiori. In quel paese del carbone tutto era invece senza colore e coperto di polvere. Il suo pensiero corre all’Italia, alle colline del Piemonte che a quell’epoca erano così intensamente vive di verde brillante, i prati molli di rugiada, i campi di grano sfiorati dalla carezza amica del vento, i fiori selvatichi occhieggianti lungo le strade di campagna, e le si stringe il cuore.

Francesco Arese, invece, così scrive:- E’ facile, quando si parla d’America, trovare ragioni per parlarne male; facilissimo, poi, dar prova di acume scoprendovi degli aspetti ridicoli: niente di più comodo, qui. Ma chi abbia un minimo di onestà, i suoi preconcetti deve rimetterseli in tasca e , per quanto europeo sia e si senta, deve riconoscere che questo è un paese stupendo, magico, miracoloso, e che le cose sono tali, qui, che per crederle bisogna vederle -. Aveva perfettamente ragione. E le impressioni che Arese e  altri riportarono in Italia contribuirono a determinare l’atteggiamento degli italiani e dei calabresi in particolare nei confronti del Nord America.

La maggior parte dei nostri emigranti erano di religione cattolica anche se non molto praticanti. La tradizione cattolica ebbe però il grande  merito di mantenere sempre vive ed operanti le idee e le memorie di un tempo. Le comunità calabresi celebravano le feste dei Santi Patroni dei loro paesi d’origine con solennità, con spari di mortaretti, messe solenni, processioni, giochi, bande musicali, fuochi d’artifizio, complessi musicali e poi lauti banchetti e riffe finali. Esse davano grande importanza a queste feste le quali venivano celebrate in forme e con uno spirito molto particolari e significativi. Le feste dei Santi Patroni li facevano sentire vicino ai paesi d’origine, alle tradizioni ed agli usi e costumi che avevano dovuto lasciare. Poi, però, quando raggiunsero il pieno successo, la ricchezza, il potere politico e la piena integrazione, abbandonarono a poco a poco il vivere paesano e con l’ansia di portarsi alla pari con le altre comunità di immigranti iniziò il processo di europeizzazione e americanizzazione delle comunità italiane.

Vennero mantenuti gli usi e i costumi della terra natia, anzi, mentre questi ultimi in Calabria e in S. Pietro si evolvano, presso le comunità create dai nostri emigranti rimasero intatti. E così moltissime parole dialettali da noi completamente scomparse presso le comunità calabresi all’estero sono rimaste tali e quali a quelle di una volta. Per esempio la parola “ritratto” da noi è completamente scomparsa.

Tutti emigravano all’estero armati di una risolutezza che gli americani, i francesi, gli svizzeri, i tedeschi, i canadesi, gli australiani, i venezuelani, gli argentini, i brasiliani, guastati dal benessere, non conoscevano. I nostri emigranti, pur non possedendo una specializzazione di mestiere e pur brancolando nella miseria, appartenevano ad una razza sana e robusta ed erano gente morigerata, religiosa e laboriosa. E così, lavorando sodo, fecero fortuna, migliorarono le loro condizioni economiche e sociali. Le rimesse in Italia aumentavano sempre di più e i parenti rimasti in Calabria gelosamente le andavano a depositare nelle banche e negli uffici postali. Quando, poi, col passare degli anni avevano creato una piccola fortuna, si attaccavano di più al paese che li aveva ospitati, cambiavano addirittura mestiere, si mettevano in proprio e non erano più tentati di ritornare in patria. Nel frattempo moltissimi si erano sposati con gli abitanti del posto, avevano imparato benissimo a parlare la lingua della nazione che li ospitava, erano nati i figli che poi incominciavano a frequentare le scuole, si erano completamente adattati agli usi ed ai costumi del luogo, avevano cambiato casa e comprato l’automobile, erano diventati commercianti, proprietari di bar, di pizzerie, di negozi, di supermarket, di sartorie, di calzolerie, di panetterie, e così la nostalgia del luogo natio si andava a poco a poco affievolendosi. Cercavano il successo affrontando rischi e sacrifici e lo hanno ottenuto dopo anni di duro lavoro.

Dopo pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale moltissimi sampietresi un po’ in treno, un po’ a piedi, con una piccola valigia di cartone o un fagotto in mano, si misero in marcia verso la Francia, attraverso la frontiera, e clandestinamente passarono il confine e raggiunsero i nuovi posti di lavoro.

Un emigrato calabrese negli Stati Uniti d’America, Michele Pane, così scrive a suo padre, invitandolo a lasciare pure lui la Calabria e partire per l’America lontana. Ha fatto fortuna e nel commercio fa grossi affari, è diventato pubblico notaio, si è americanizzato ed ha finanche cambiato nome. Non si chiama più Michele ma Mike. La lettera è un misto di calabrese e americano facilmente comprensibile. Ha inizio con caro Tata. Ancora oggi, nei piccoli paesi, si suole chiamare il padre con l’appellativo di “Tata”. Ricordate il bellissimo racconto del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis: L’infermiera di Tata? Ecco l’inizio:

Dear Tata,

te fazzu chista littera

ppe’ te dire ca io vorra mu venissi

puru tu dduve figliutta alla Mérica,

pperchì all’Italia ‘un cè cchi fare cchiù.

Lu tue Michele, ccà se chiama Màicu

-Ch’edi  ‘Ngrisatu,- è misu ‘mbissinissi,

è notaru, è di Fùrmine, è di ‘Ntrepitu

de Curte,oi tata mio, mu lu sai tu!

Il poeta Mastro Bruno Pelaggi descrive così la triste situazione dei calabresi e li invita ad abbandonare la Calabria: La fami culla pala / si pighhia e culla zappa / e cu pota si la scappa a Novajorca.La speranza di una vita migliore costringe il calabrese a lasciare la propria terra e a scappare in America, a New York, la terra promessa.

Si erano riaperte finalmente le emigrazioni verso gli Stati Uniti e tutti furono contenti, anche perché il viaggio con la nave costava poco. L’America avrebbe dato a tutti gli emigrati un lavoro, una casa, una vita migliore. La miseria e il soffrire erano così terminati. Da un canto del Cilento:

 O che preiezza ca c’è a sto paese

  Mo ca l’America tutti pono ire

  Ca li ‘mbarchi so’ ppe poco spese

  Finita è la miseria e lo soffire.

Da una canzone popolare, intitolata “Chiantu de l’emigranti” il poeta  descrive l’abbandono del proprio paese e delle vie che lo hanno visto nascere e piangendo se ne va per le vie del mondo a cercare migliore fortuna. Non sa dove la fortuna lo porta, però sa con certezza che dovrà lasciare il paesello natio e partire per l’America lontana.

Strada mia abbandunata, mo te lassu (1)

chiagnennu me ne vaju le vie vie.

O quanti passi che da tie m’arrassu,(2)

tante funtane faru l’uocchie mie.

Nun so’ funtane, no, ma fele e tassu,(3)

tassu che m’entassau (4) la vita mia.

Io partu pe’ l’America luntana,

nun sacciu adduje me porta la furtuna.

1.Lascio  2.Allontano  3.Veleno  4.Avvelenato

Quelli che restavano in Calabria, però, soffrivano la lontananza dei propri cari ed aspettavano con ansia il giorno del loro ritorno a casa. Questa è una lettera di una moglie spedita da Rovito al marito che lavora in America e lo invita a ritornare a casa dove l’aspettano con ansia e trepidazione anche i figli.  Aveva fatto fortuna, aveva messo da parte tanti soldi, ma i soldi nella vita non sono tutto. Lo invita a ritornare a casa, lunghi sono quattro anni.

Littara pressante di Mariano Salerno:

Si capisci, ricogliate le nzone

e vienitinne cchiù priesti chi pue,

ca li dinari, cce vonnu puru,

ma nu servanu a tutti li bisuogni.

E fazzu puntu lluocu; li guagliuni

t’abbrazanu e te vasanu la manu,

a lu coru te stringia la tua spusa.

Gli emigranti avevano difficoltà con la lingua inglese, tedesca, francese e spagnola, a causa soprattutto del loro analfabetismo. Fra di loro si esprimevano in dialetto. E la maggior parte di loro erano contadini, braccianti, manovali, muratori, calzolai, barbieri e nelle nuove terre immancabilmente andavano a finire nelle miniere e venivano sfruttati dai loro datori di lavoro. L’emigrato Francesco Saverio Riccio in questa poesia intitolata “La Scola” rivela le condizioni degli emigrati calabresi a causa della loro ignoranza. Non sapevano leggere e scrivere. Per comunicare con i propri cari lontani si facevano aiutare da qualche amico compiacente e che poi spifferava ai quattro venti tutte le notizie provenienti dalla Calabria.

Anche le notizie più intime erano sulla bocca dei paesani. Erano emigrati sfruttati, disprezzati, trattati come cani. Non sapevano difendersi, non sapevano chiedere i loro diritti, tutti venivano ingannati. E nella lettera invitava i figli che erano rimasti a casa ad andare a scuola anche se dovevano fare tanti sacrifici. Frequentate la scuola, è l’invito pressante. Impegnatevi magari la camicia. Imparate a leggere e a scrivere, avrete così tutte le porte aperte. In America noi siamo da tutti disprezzati “pecchì l’assai de nui ebbi la sorte amara a nu sapire data na pinnata”

Poi le cose cambiarono. E i loro figli che, nel frattempo li avevano raggiunti nelle nuove terre, incominciarono a frequentare le scuole, impararono la nuova lingua ed ebbero un grande successo in tutti i campi, nelle arti, nelle lettere, nel commercio, nelle professioni, nell’industria. E così i nostri cari emigranti in terre lontane buttarono presto dietro alle spalle gli anni dei duri sacrifici e delle terribili privazioni.

E così ce l’abbiamo fatta. Inondando il mondo di arrotini, contadini, pescatori, fabbri, maniscalchi, muratori, calderai, sopravvivendo a mille e mille stereotipi insultanti. Quante offese, quante porcherie, quante diffidenze ci venivano all’inizio rovesciate addosso, quanti nomignoli offensivi ci venivano appiccicati. I meno offensivi erano dago, wop, ladri e mafiosi, litigiosi e violenti, assetati di vendetta e di sangue, per il solo fatto di essere compatrioti di uomini mafiosi e faccendieri che disonoravano la nostra terra e la nostra Patria. La maggior parte degli emigranti detestava e respingeva con sdegno questa immeritata nomea e giudicavano ingiuste le accuse di criminalità che venivano rivolte alla nazione di origine. Quanti preconcetti ostili e quanti pregiudizi dovettero combattere ed evitare!

    Per dare una idea di quanti pregiudizi vi siano ancora nei confronti degli italiani bastano un paio di aneddoti che abbiamo ricavato da un giornale inglese, che è il più diffuso giornale domenicale, Il “Sunday Times”. Il direttore di questo famoso giornale aveva chiesto ad un giornalista di scrivere un articolo nel quale avrebbe dovuto spiegare ai lettori inglesi che tutti gli italiani sono mafiosi. Il giornalista si rifiutò e scrisse invece che gli italiani non sono mafiosi, dimostrò che in Italia la parola “mafioso” è un insulto grave e che gli italiani sono i primi a condannare la mafia. Il “Sunday Times” pubblicò l’articolo con questo titolo:- C’è un mafioso in ogni italiano- confermando così il solito stereotipo.

E così i nostri cari emigrati all’estero, confusi e disorientai, subivano  spesso ogni sorta di angherie. Moltissimi sfidarono le leggi e le drastiche misure antiespatrio e si affidarono ad alcuni signorotti, vere e proprie sanguisughe senza scrupoli, i quali li facevano partire pretendendo lauti compensi. Poiché erano senza contratto di lavoro e clandestini, venivano prelevati sul posto da altra gente losca e mafiosa che si prodigava a trovare loro un lavoro, ma poi li sfruttava sino al midollo. Spesso venivano depredati dei loro averi, a volte anche ad opera dei loro stessi connazionali. In alcuni casi per lavorare dovevano pagare finanche la tangente. Moltissimi, per non sottostare, per sfuggire ai ricatti ed alle persecuzioni lasciavano il posto di lavoro e si spostavano altrove, altri, invece, per sfuggire a quella terribile organizzazione mafiosa che si chiamava “Black hand” (Mano nera), fecero ritorno in patria abbandonando tutto e tutti. Uno dei tanti luoghi comuni che sono stati detti e ripetuti a sproposito degli emigranti calabresi è che essi non erano adatti soprattutto alla vita delle grandi città, perché la maggior parte di loro venivano dalla campagna e dai piccoli paesi e, quindi, non si adattavano alla vita di città e sembravano a disagio. Invece si adattarono benissimo.

   - Ce l’abbiamo fatta. Siamo riusciti giorno dopo giorno a guadagnarci la riconoscenza, la stima, l’amicizia di chi ci ha accolto. E abbiamo dato a tutti dall’America all’Australia, dalla Francia all’Argentina, statisti e pittori, scrittori e scienziati, banchieri ed eroi, sindaci amatissimi e sportivi celeberrimi, professori universitari e giudici, banchieri, artisti, cantanti e registi. Eppure della nostra storia di emigranti, una storia di formidabili successi e lancinanti dolori, sappiamo poco -. (Gian Antonio Stella - Odissee).

    Alcuni di loro, spesso e volentieri, ritornarono in Calabria per qualche visita breve e quando rimpatriavano nei loro paeselli diventavano personaggi importanti e familiari. Erano famosi perché all’estero si erano fatti onore. Alcuni di essi avevano cambiato finanche il nome e anche il cognome. Francesco divenne Frank; Giovanni John; Tommaso Thomas; Antonio Anthony, ecc. Indossavano vestiti costosi ma di cattivo gusto, giacche e cappotti troppo lunghi, cravatte vistose e larghissime, scarpe con la punta “pizzuta”, ineleganti e sgraziate, che in quei tempi facevano ridere. Nelle dita delle mani esibivano grossi anelli d’oro e nei taschini delle giacche c’erano immancabilmente i famosi sigari “Avana”. Le donne indossavano gonne, camicette e magliette dai colori sgargianti. Erano partite con lo scialle nero sulla testa, tornarono, invece, indossando voluminosi cappelli e sfoggiando borsette di vera pelle.

   Ritornavano in patria non per restarvi, ma per una breve visita ai parenti ed agli amici di un tempo. Oramai si erano adattati alla nuova patria, avevano raggiunto il successo, e chi si era arricchito difficilmente voleva restare definitivamente in Italia, anche se le cose, a dire il vero, anche da noi erano un po’ cambiate.

I problemi incontrati dai nostri emigranti e che hanno dovuto affrontare sono stati numerosi, primo fra tutti quello della conoscenza della lingua, indispensabile per comunicare con gli altri e per non sentirsi isolati. Per i più giovani e per quelli che avevano frequentato le scuole l’apprendimento della lingua non presentava grandi difficoltà. Per gli altri, invece, ed erano la maggioranza che lavoravano per lo più nelle miniere di carbone, che non sapevano esprimersi neppure in italiano, la lingua inglese specialmente, così diversa dall’italiano nel lessico e nella costruzione, diventava difficilissima da imparare, veniva quindi deformata completamente. Anche così deformata, però, la nuova lingua creata dagli emigranti era loro di effettiva utilità. Era l’unico mezzo di comunicazione comune a tantissimi lavoratori emigranti abituati a parlare solo in dialetto paesano così diverso da luogo a luogo anche in ambito della stessa provincia e regione. E questa nuova lingua permetteva agli emigranti della prima ora non solo di dare un nome alle cose, ma di esprimersi e farsi in qualche modo capire quando si recavano negli “Stores” a fare la spesa.

E così tantissime parole italiane venivano tradotte in lingua straniera in modo completamente diverso. Il lessico, la pronuncia, la costruzione inglese così difficili da imparare, venivano completamente trasformati e deformati e solo quelli dello stesso ambiente riuscivano a capire i significati delle parole. La nuova lingua era di grandissima utilità non solo perché permetteva loro di comunicare con gli altri, ma permetteva anche di dare un nome a cose che fino a ieri erano sconosciute nel loro ambiente.

E così bar diventava barro; automobile(car) diventava carro; lavoro (job) giobba; negozio (shop) scioppo; vagabondo (bum) bummo; scarpe (shoes) sciuse; via (street) stritta; pane (bread) prete; pala (shovel) sciabola; ferrovia (rail road) re erode; buca (hole) olio; pavimento (floor) floro; giardino (backyard) beccaiarda; recinto (fence) fenza; tetto (roof) ruffo; cantina (cellar) sello; autocarro (truck) troccu; stanza (room) rummo; parcheggiare (to park) parcare; gassosa (ginger ale) gingerella; assicurazione (insurance) asciuranza. Per dire poi Figlio di buona donna (son of bitch) dicevano sanimabicci. La pala della ferrovia diventava la sciabola del Re Erode.

Ad Aiello Calabro era ritornato dall’America un certo signore di nome zio Luigi……che non aveva fatto fortuna. La colpa era stata tutta sua, perché non aveva mai voluto lavorare come gli altri paesani. Preferiva andare sempre in giro e trascorrere le ore e le giornate nelle birrerie e nei locali notturni. I ragazzi del luogo conoscevano bene la sua storia e quando lo incontravano per le vie del paese, anche in Aiello Calabro non aveva perso il vizio di frequentare le cantine e i bar, gli chiedevano cosa aveva fatto quando lui era in America. Così rispondeva gridando:- Ho fatto u bummo -.

Un altro signore, invece, aveva fatto fortuna e ritornato in Aiello andava in giro sempre vestito a festa indossando ampi e lunghi vestiti con cravatte sgargianti, lunghe e larghe e con un ferma cravatta d’oro. Si vantava di aver fatto fortuna e di aver imparato benissimo la lingua inglese. Ogni mese si recava presso la filiale della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania e ritirava il suo assegno in dollari (pezze), la sua cecca (check), proveniente dal Social Security Americano. Tutti sapevano, però, che era un ignorante, non sapeva leggere né scrivere, quindi era impossibile che avesse potuto imparare la lingua inglese. Quando gli chiedevano come avesse fatto, lui rispondeva che per lui era stato molto semplice. Bastava cambiare le parole, dire a volte anche il contrario. Infatti lui diceva che per dire cavallo in inglese (horse) bisognava dire orso. Per dire pane (bread) dovevi dire prete. Solo una parola era identica a quella italiana, cioè moglie. Infatti moglie (wife) in inglese si diceva guai.

Questo italiese fra pochi anni scomparirà di sicuro. Creato dai primi emigranti in terra straniera, parlato e compreso dai figli, capito dai loro nipoti, ora le nuove generazioni si esprimono solo in inglese anche in famiglia e se vorranno imparare la lingua dei nonni la dovranno studiare a scuola, dove impareranno la vera lingua italiana e non il dialetto calabrese condito con parole inglesi storpiate e modificate.

Se un turista occasionale laureatosi in una delle tante università italiane e conoscitore della lingua di Shakespeare entrasse in un negozio gestito da un italiano e riuscisse ad ascoltare una breve conversazione tra il commerciante e un qualsiasi cliente di origine italiana cosa capirebbe? Nulla.

- Dissi sciabola is very good per fare gli oli per mettere la fenza. E’ una sciabola del re erode end tu la puoi pusciare benissimo. Nesso taime se vuoi parcare lu carru lo puoi parcare dietro u baccaiarda -. Ci avete capito qualcosa? Ebbene vi traduco la frase:- Questa pala è molto buona per fare le buche per mettere lo steccato. E’ una pala che la usano anche i ferrovieri e tu la puoi spingere benissimo. La prossima volta se lo vuoi puoi parcheggiare la macchina dietro il giardino -.

Chi arriva per la prima volta in America o in Canada trasale nell’imbattersi in questo frasario simpatico, pittoresco, straripante di italianismi, parole in dialetto e in inglese storpiate e modificate. Questa lingua nuova però, perché sempre di lingua si tratta, è stata per tantissimi anni l’unica parlata e compresa da tantissimi nostri cari emigranti, un vero compromesso linguistico, nato, come abbiamo visto, dal bisogno di comunicare.

Oggi moltissimi nostri emigranti vorrebbero ritornare in patria, ma non possono. Penso ai nostri cari emigranti dell’Argentina che in questi ultimi anni stanno vivendo una vita difficile a causa dell’inflazione, del basso reddito, della crisi economica, politica e sociale, delle dittature. Non hanno nemmeno i soldi per il biglietto aereo. La distanza, perciò, è il fattore più importante. Ma se ritornassero nel paese natio chi troverebbero? Hanno venduto tutto quando sono partiti, hanno venduto le case e i terreni che allora erano tutti coltivati e che ora invece sono completamente diventati boschi. I padri e le madri sono da tempo morti, i compagni sono pure partiti altrove, e poi troverebbero anche qui da noi molte cose cambiate e sarebbe difficilissimo riadattarsi alla nuova società. I vecchi emigranti non riuscirebbero più a comprendere il loro paese d’origine. E’ cambiata non solo la gente, ma anche gli usi e i costumi sono cambiati.

I primi emigranti che ritornarono in S. Pietro in Amantea dopo aver fatto fortuna all’estero, furono zio Settimio Sesti e zio Frank Guido, il figlio della zia Agata. Vennero in S. Pietro nel lontano 1948 con una nuova, fiammante, bellissima, lunghissima  “Cadillac”. Possedere una macchina di lusso allora e portarla in Calabria poi con la nave era davvero un lusso e loro se lo potevano permettere perché in America avevano fatto fortuna. Essere proprietario di una macchina così lussuosa nel lontano 1948 voleva dire che l’emigrante aveva raggiunto l’apice del successo. Io ebbi la fortuna di visitare la casa di zio Frank in San Antonio, nel Texas, quando prestavo servizio militare in Fort Sam Houston. Ero un ospite fisso quasi tutti i week end e non potrò mai dimenticare l’affetto, le premure e la stima ricevuti dalla cara zia Saveria Sesti e del figlio Gino che nel frattempo aveva sposato una francesina conosciuta in Francia durante il servizio militare nell’aviazione americana. Ritornarono in S. Pietro non solo per riabbracciare i loro genitori, zia Maria e zio Palmerino Sesti e zia Agata Guido, ma anche per trascorrere un breve periodo di vacanze e anche di relax nel paradiso delle Terme di Spezzano Albanese.

Alcuni emigranti che erano andati a lavorare in Francia, in Germania, in Belgio e in Svizzera ritornarono definitivamente in Calabria e in S. Pietro in Amantea. Quelli erano i cosiddetti lavoratori stagionali, lavoratori di passaggio, i quali dopo aver lavorato sodo ed accumulato un bel gruzzoletto, fecero ritorno a casa, tra le persone care, con i soldi appena fatti. Per quest’ultimi le sopracitate nazioni erano considerate soltanto terre di fatica.

La più grande ondata migratoria che era iniziata alla fine della seconda guerra mondiale si è esaurita negli anni ottanta. E così l’Italia in meno di mezzo secolo ha cessato di essere un paese di emigranti per diventare un paese di immigrazione. Migliaia e migliaia di nord africani, Filippini, Pachistani, Indiani e poi migliaia di cittadini provenienti dall’Est europeo, specialmente dopo il crollo del muro di Berlino, hanno invaso il nostro territorio. Ancora oggi migliaia di cittadini provenienti da paesi lontanissimi sbarcano nelle coste pugliesi, calabresi e siciliane clandestinamente stipati come sardine in vecchie carrette di mare. E così come per i contadini calabresi gli USA erano “la Merica” cinquanta anni fa, oggi per i nord africani e gli asiatici “la Merica” è l’Italia.


[ Dolci ricordi dell'infanzia © Francesco Gagliardi ]                                                                                                                                                   < torna su >      < indietro >