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La casa Il bambino La donna
Le armi Le terme Abbigliamento e cibo

 

 

la domus

La domus, la casa dei ricchi, era riservata a pochi privilegiati ed era quasi sempre ad un solo piano e a pianta rettangolare, con l’ingresso posto sul lato più corto sorvegliato da uno schiavo portinaio che aveva una piccola stanza nei pressi.
Essa si presentava chiusa verso l’esterno: non aveva né finestre né balconi e tutte le stanze prendevano luce dal cortile interno.
Lungo il vestibolo (ingresso) si trovavano i sedili per i clienti dove potevano sedere in attesa di essere ricevuti.
Da un corridoio, fances, si accedeva direttamente ad un cortile coperto (atrium) con un’apertura rettangolare sul soffitto (compluvium) e una vasca scavata nel pavimento (impluvium), per raccogliere l’acqua piovana, che comunicava con la cisterna sottostante. Nell’atrium si svolgeva la vita pubblica della famiglia e si ricevevano gli ospiti.
Vi si affacciavano la sala da pranzo (triclinium) e la biblioteca: qui si trovavano gli altari degli dei domestici.
Sul lato opposto all’ingresso si trovava lo studio (tablinum) e da qui si accedeva al giardino (peristilium) abbellito da aiuole, statue vasche e fontane.

le insulae

Se la casa dei ricchi era sempre a un solo piano, a causa della scarsa disponibilità di aree fabbricabili, l’edilizia popolare si sviluppava in altezza. Apparvero quindi le insulae: grandi edifici a più piani e a pianta quadrangolare, con cortile o giardini interni, suddivisi in piccoli appartamenti in affitto.
Nella facciata dell’insula si apriva una serie di botteghe, spesso una taverna, una stalla, una lavanderia pubblica; il pianterreno interno era occupato da inquilini benestanti e si affacciava sul giardino.
I piani superiori avevano dei prezzi d’affitto più bassi e gli alloggi erano occupati da famiglie povere.
Le stanze erano anguste, umide, quasi prive di luce, calde d’estate e fredde d’inverno.
Negli appartamenti non esistevano camini: ci si scaldava e si cucinava sul braciere rischiando di rimanere intossicati e di incendiare l’intero caseggiato.
Inoltre c’era la mancanza d’acqua corrente, così come di un impianto igienico, per cui gli inquilini ricorrevano alle fontane e alle latrine pubbliche, o usavano vasi da notte, che nel buio venivano vuotati dalle finestre.

la villa

In epoca imperiale l’aristocrazia romana investì parte delle sue ricchezze nelle zone fertili, nei pressi dei porti e delle vie di traffico. Sorsero così le ville romane che erano ricche residenze padronali e aziende agricole.
La villa era divisa in due parti dette pars urbana e pars rustica.
La prima era destinata alla famiglia del padrone, l’altra ai servi, agli operai liberi e soprattutto agli schiavi che vi lavoravano; nella pars rustica era compresa anche la pars fruttuaria riservata alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti dei campi.
La parte urbana aveva tutte le comodità e in più aveva un complesso di bagni con piscine di acqua calda e fredda.
Durante l’assenza del padrone c’era il fattore che gestiva la tenuta; sua moglie, la fattoressa, dirigeva le attività riservate alle donne come la filatura, la tessitura e l’allevamento degli animali da cortile.

le decorazioni degli interni
Internamente la domus era molto ricca: tranne la cucina e le stanze destinate ai servizi, le altre erano ornate con pitture, mosaici e stucchi colorati.
Molto di moda erano le pareti a finta struttura muraria (trompe-l’oeil) che rappresentavano colonnati, podi, corridoi, soffitti che sovrapponendosi trasformavano l’ambiente in uno spazio irreale e fantastico.
A volte si dipingeva un’edicola o una finestra, con sullo sfondo paesaggi,vedute di città e santuari.
I pavimenti erano coperti di un intonaco usato anche per le pareti, a mosaico, bianco e nero o a colori.
I mosaici erano posti al centro presentando motivi tridimensionali o illusionistici (meandri, onde, reticolati, schemi a tappeto).
Nel vestibolo era frequente la raffigurazione del cane da guardia con la scritta "cave canem" (attenti al cane!).

l’arredamento:
Nel tardo periodo repubblicano, le abitazioni dei ricchi divennero più confortevoli e più sfarzose.
I mobili (sgabelli, sedie, tavoli, letti) diventarono pezzi di lusso, con piani di marmo pregiato e intarsi in argento e in avorio.
Il mobile più diffuso era il letto: infatti, oltre al letto per dormire (per salirci si doveva prendere uno sgabello), c’erano anche i letti da studio, e il letto tricliniare usato per pranzare.
I piatti erano di bronzo e d’argento, i vassoi in ceramica dipinta, vasi, bicchieri, brocche erano di vetro lavorato.
Apparvero lanterne di ogni genere e lampadari ornamentali, si faceva uso di ampi contenitori per tenere l’acqua in fresco, treppiedi per i bracieri (smontati nei mesi caldi).

il riscaldamento:
da principio c’erano solo i bracieri, alimentati con carbone o legna, poi si diffuse il riscaldamento interno effettuato per mezzo di aria calda circolante nelle intercapedini del pavimento e delle pareti.
la temperatura cosi’ prodotta era costante ed era estremamente importante anche l’assenza di fumo, nocivo all’uomo e alle decorazioni degli ambienti.

i servizi:
L
a cucina non ebbe mai una collocazione precisa: poteva essere collocata in un sottoscala, in un angolo dell’atrio, o in un cubicolo cieco. consisteva in un focolare con una nicchia circolare destinata a mantenere accesa la legna. la parte superiore era inclinata e coperta di brace e formava il piano di cottura. al lato del focolare c’era l’acquaio per rigovernare, foderato di un intonaco impermeabile e dotato di un tubo di scarico per l’eliminazione dell’acqua sporca.
Questo condotto, insieme a quello della latrina, si dirigeva verso la fogna che raccoglieva le acque chiare e le acque scure.
La cucina era infatti quasi sempre vicino alla latrina per poter usufruire del medesimo condotto idrico.
gli utensili e gli strumenti della cucina erano semplici ed essenziali: mestoli in legno, pentole e boccali di terracotta con coperchio, vasi di vetro per conserve e sale….
Eppure le ricette dei cibi erano raffinate ed elaborate: per preparare il pasto della sera i cuochi iniziavano a lavorare fin dalle prime ore della giornata.
La stanza del bagno era stretta e buia. Quando si diffuse l’abitudine del bagno caldo, si iniziarono a costruire nelle domus stanze apposite con vasca e catino che assomigliavano sempre più a quelle delle terme.

la citta’ ordinata: pompei

Pompei, come pure Ostia, urbanisticamente erano migliori di roma.
I ricchi abitavano in grandi case (fino a 3000 mq) in posizione panoramica, con attorno giardini, portici, grandi saloni e botteghe sulla strada per la vendita al dettaglio delle derrate padronali.
Gli artigiani ed i commercianti abitavano in case più piccole, da 120 a 350 mq circa.
Anche a pompei lo sfruttamento dello spazio avrebbe portato alla creazione dell’insula. Ma il 24 agosto dell’anno 79 d.c a Pompei il tempo si fermò.

roma: “caput mundi”

Roma divenne nel corso della sua storia una megalopoli imperiale, ma crebbe in maniera disordinata e senza regole.
Le strade passavano negli spazi non occupati dalle case e si dividevano in 3 tipi: gli itinera, percorribili solo dai pedoni, gli actus, in cui poteva transitare un solo carro alla volta e le viae, che consentivano il passaggio per due carri.
All’interno delle mura c’erano solo due vie: la via sacra e la via nova.
Non si cercò mai un piano regolatore, tranne uno che prevedeva la deviazione del corso del Tevere lungo i monti Vaticani, ma che venne vanificato da augusto perché troppo dispendioso.
 

Alessio maiani
Matteo cariddi
Nicolò moroni



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I BAMBINI DELL’ANTICA ROMA


L’EDUCAZIONE DEI BAMBINI ROMANI

Fino al II secolo a.C. l’educazione dei bambini fu compito esclusivo dei genitori, e nelle famiglie più povere restò sempre questa norma.
Il bambino fin da piccolo era affidato alla madre o alla balia. Una volta cresciuto era preso in consegna dal capo famiglia che gli insegnava a scrivere, a leggere, a fare i conti e la legge delle Dodici Tavole.
I ragazzi e le ragazze delle famiglie ricche cominciavano a frequentare la scuola a 6-7 anni.
Queste erano scuole pubbliche (ludi) e i primi corsi di studio erano tenuti spesso da maestri greci.
All’età di 12-13 anni la maggior parte dei ragazzi smetteva di studiare, mentre le ragazze finivano la scuola a 11 anni. Chi proseguiva era affidato ad un insegnante di letteratura e oltre ad esercitarsi a scrivere testi in prosa e in versi, gli studenti intraprendevano lo studio della geometria, approfondivano quella dell’aritmetica e ricevevano un’infarinatura di storia, geografia, musica e astronomia.
Compiuti i 16 anni, cioè all’inizio dell’età adulta, i migliori frequentavano la scuola di retorica, dove imparavano a guadagnarsi la vita facendo l’oratore. Infatti nell’antica Roma, il massimo grado dell’educazione era imparare ad essere un bravo oratore, cioè a parlare efficacemente, soprattutto nel mondo della politica.

LE LEZIONI IN CASA DEL MAESTRO

Le lezioni iniziavano all’alba, quindi i ragazzi si svegliavano quando faceva ancora buio, e nei mesi invernali dovevano andare a scuola a lume di lanterna.
Le famiglie più facoltose potevano permettersi uno schiavo che accompagnava a scuola i figli del padrone portando per loro le tavolette cerate e quanto altro occorreva per il lavoro scolastico.
 
 

TAVOLETTE DI CERA




IN CLASSE

Le lezioni si tenevano in ambienti angusti come un vano annesso a una bottega o un locale di una abitazione privata. L’arredo, semplicissimo, era composto da una sedia a spalliera alta per il maestro e da qualche panca per gli alunni, i quali, per scrivere, appoggiavano la tavoletta cerata sulle ginocchia. Gli schiavi accompagnatori sedevano in attesa in fondo all’aula.
 

i rotoli di papiro E PORTAROTOLI



L’APPRENDIMENTO

Gli alunni imparavano a leggere e a scrivere disegnando e ripetendo in modo meccanico le lettere dell’alfabeto.Gran parte del tempo veniva occupato da esercizi di dettatura.

L’ARITMETICA

Si imparava con l’aiuto di un pallottoliere (abacus): le file delle palline scorrevano su una bacchetta rappresentavano rispettivamente le unità, le decine e le centinaia.

LA DISCIPLINA

Nella scuola regnava un disciplina severissima. Il maestro teneva una bacchetta (fibula) con cui colpiva le mani di chi si distraeva o commetteva il minimo errore. Le lezioni terminavano a mezzogiorno, ora del pranzo, e riprendevano nel pomeriggio.
Nessuno sa quanto fosse lungo l’anno scolastico: probabilmente variava da scuola a scuola. Una cosa però era fissa: la data dell’inizio, il 24 di marzo.

IL MATERIALE PER LA SCUOLA

LA CERA E IL PAPIRO

Nelle scuole si usavano due tipi di materiale per scrivere: le tavolette di legno ricoperte di cera e i fogli di pergamena (membrana), o di papiro. Sulle tavolette cerate l’alunno scriveva con uno stilo di legno, d’avorio o di metallo, appuntito da una parte e appiattito dall’altra per cancellare. Alcuni fori sul margine delle tavolette consentivano di legarne due o più insieme in modo da formare una specie di quaderno. Più tardi si iniziarono ad utilizzare i fogli di papiro.Questi erano incollati l’uno all’altro, per formare un’unica striscia, e arrotolati attorno a un rullo formavano il volumen, sul quale si scriveva in colonne parallele.

LA PERGAMENA

Per scrivere si usava anche la pergamena, che si otteneva con pelli di pecora raschiate e levigate con pietra pomice. Dapprima veniva usata in rotoli, poi, all’inizio dell’età imperiale, si cominciò a tagliare e a piegare i fogli in 4, in modo da formare dei fascicoli o dei quaderni, da cucire insieme e raccogliere in una copertina. Sulla pergamena si scriveva, come sul papiro, con una cannuccia, o una penna d’uccello tagliata di sbieco a un’estremità, e con la punta resa flessibile da una fessura, come quella dei pennini. L’inchiostro, fatto con acqua, resina, nero di seppia e fuliggine, era conservato in calamai portatili, con coperchio.

L’EDUCAZIONE DELLE RAGAZZE

Come abbiamo già scritto, le ragazze avevano un’educazione diversa dai ragazzi. Esse infatti erano educate in casa, dove si preparavano al compito di madri di famiglia, dovevano imparare ad ubbidire e a filare la lana. Tutto ciò serviva per diventare una brava moglie. Solo più tardi anche le ragazze cominciarono a frequentare le scuole elementari e, concluso il primo ciclo di studi, quelle di condizioni più modeste, apprendevano a casa, dalla madre, le nozioni essenziali dell’economia domestica. Alle donne era infatti preclusa qualsiasi attività commerciale o professionale. Le ragazze di famiglia benestante, invece, erano affidate ad un precettore, o frequentavano una scuola privata, dove studiavano i classici greci e latini e imparavano a cantare e a suonare strumenti come la cetra e la lira.

I GIOCHI DEI BAMBINI

Quando i bambini tornavano a casa da scuola, a pomeriggio inoltrato, non dovevano studiare: giocavano da soli, con i loro animali, con i loro amici o con le cianfrusaglie più impensabili. I giocattoli erano molto simili a quelli d’oggi: giochi di scacchi e dama, cavallucci, aquiloni, piccoli modellini di persone o di animali. Se non potevano permettersi biglie di vetro o di ceramica, utilizzavano piccole nocciole e i loro dadi erano fatti d’osso.
Erano comuni e molto usati i trampoli e in giardino, allora come oggi, si facevano molti giochi con la palla, che costruivano con la vescica gonfiata di un maiale.
I ragazzi giocavano alla guerra. Combattevano con spade di legno, piuttosto violentemente. Un gioco di questo tipo in particolare, era il gioco di Troia: un piccolo gruppo di ragazzi dovevano resistere a un altro gruppo, più numeroso, senza essere trascinato oltre una linea tracciata sul terreno.
Il poeta Orazio racconta di bambini che costruivano piccole case,che cavalcavano cavalli a dondolo, e attaccavano topolini a piccoli carretti. Le bambine, invece, giocavano con bambole di stracci, di cera o di argilla. Le bambole avevano gambe e braccia snodabili, come quelle di adesso.

COME SI VESTIVANO I BAMBINI ROMANI

I maschi fino al momento della maggiore età, vestivano tutti allo stesso modo: con una tunica lunga fino alle ginocchia. Era bianca, con un bordo color porpora. Una volta che il ragazzo cresceva, smetteva gli abiti da bambino, lasciando la tunica bordata per vestirne una completamente bianca.
Le ragazze, invece, portavano una semplice tunica colorata con una cintura alla vita. Quando uscivano si coprivano con un soprabito: una seconda tunica più lunga che arrivava fino a terra.

LA “BULLA”

I bambini portavano uno speciale scrigno attorno al collo, che veniva loro donato alla nascita, chiamato bulla. Esso conteneva un amuleto come protezione contro il male ed era portato con una catena, una cordicina o un nastro.
Le ragazze la portavano fino alla sera del matrimonio, momento in cui la toglievano per riporla tra gli oggetti dell’infanzia.
I ragazzi la portavano fino al giorno della loro maggiore età.
Le bulle erano messe da parte e conservate gelosamente: infatti potevano essere usate ancora, durante la vita, in alcune speciali occasioni.
Accadeva ai generali di ritorno da una campagna vittoriosa: a loro veniva riservato il trionfo, una grandiosa cerimonia nella quale il condottiero sfilava nel Foro e veniva acclamato da tutta la popolazione. I generali, allora, per proteggersi dalla malevola gelosia degli uomini e degli dèi ricorrevano all’amuleto che li aveva protetti in gioventù: appunto la bulla.

Alex Bussolotti e Giovanni Paladini.


Ricerca del materiale sui libri: "Nel mondo degli antichi Romani", "Il perché delle antiche civiltà", "Le grandi civiltà del mondo antico."

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La donna romana

La donna romana era completamente sottomessa al pater familias e la sua esistenza si svolgeva in funzione della famiglia e del matrimonio. Infatti la vita di una donna si può desumere da un’epigrafe su cui è scritto: “Fu casta, si occupò della casa, filò la lana”. Il padre sceglieva per lei, sin da bambina, il marito che avrebbe sposato quando era ancora molto giovane, diventando sottomessa al nuovo capofamiglia, che poteva essere il marito, o addirittura il suocero se era in vita. La sua dote veniva amministrata dal marito ed entrava a far parte del patrimonio di quest’ultimo. In genere alle vedove venivano assegnati dei tutori, che gestivano i loro beni. Nella storia romana più tarda la donna poteva amministrare la sua parte d’eredità, poteva disporre della dote e del patrimonio del marito secondo come previsto nel testamento.
La donna romana era anche la custode del focolare, colei che manteneva sempre viva la fiamma della dea Vesta: era la Vestale della casa. Dirigeva la vita domestica ed era una preziosa consigliera per gli altri membri del nucleo familiare, marito compreso. Svolgeva all’interno della famiglia molte funzioni importanti, non tutte legate alla maternità, alla quale veniva comunque attribuita un’importanza elevata. La donna doveva occuparsi dell’educazione dei figli ed insegnare loro i valori tradizionali della società romana. La donna mangiava insieme al marito, seduta, però, e non sdraiata come gli uomini sul triclinio. Poteva uscire di casa quando lo desiderava, assistere agli spettacoli, alle feste e alle cerimonie. La donna romana, a differenza dell’uomo, portava solo un nome, quello della gens.
Se la donna non poteva avere figli il marito aveva la possibilità di divorziare, ma col passare degli anni anche la donna poté esprimere la sua volontà chiedendo lo scioglimento del legame coniugale.

Come si vestiva la donna romana?

Le donne romane, nei tempi antichi, vestivano esattamente come gli uomini. Ma l’influenza etrusca e greca ben presto portò una nuova moda esclusivamente femminile. L’indumento principale era una lunga ‘camicia’ aderente, sulla quale veniva indossato un abito (la stola) e, come soprabito, un mantello. Il tutto veniva infine adornato da un velo. La tunica intima era priva di aperture, eccettuati i fori per la testa e le braccia, e lunga fino ai piedi, con le maniche corte. Era il vestito “da casa”, inizialmente di lana, in seguito di cotone ed in seta o, ancora, di tessuto trasparente. A volte la tunica, indossata con una cinta, era ornata con bottoni e fibbie, in prossimità delle spalle. Sopra la tunica indossavano la stola, tagliata esattamente come la tunica intima, che aveva le maniche, più o meno strette e lunghe fino all’avambraccio. Per rendere questo indumento più prezioso, le donne romane tingevano le stoffe di rosso porpora e le ornavano con perle e spille d’oro. Spesso, la stola era fermata sulla vita con la cinta, che diventava un prezioso oggetto di ornamento.
Le giovinette indossavano al posto della stola un indumento abbastanza lungo, ma senza cinta. Quando le romane si mostravano in pubblico, indossavano un terzo indumento: la cosiddetta palla, simile alla toga maschile, che solo successivamente divenne molto voluminosa e di forma ovale o squadrata. Una donna romana non si poteva considerare vestita senza il velo, che veniva appoggiato, in vario modo, sul capo e ricadeva morbidamente sulla schiena e sulle spalle. Le donne romane raccoglievano i capelli in retine d’oro o d’argento. Infine le calzature erano un importantissimo indumento: i modelli erano coloratissimi, di vari materiali e forme - dallo stivale al sandalo - ognuno dei quali mostrava la ricchezza e lo status sociale di chi li calzava.

Curiosità: consigli di bellezza

Le donne romane, almeno quelle più ricche, impiegavano molta parte del loro tempo nella cura del corpo. Per le macchie della pelle serviva metà di un’oncia di alghe, prese dal nido di uccelli marini, amalgamate con biondo miele dell’Attica. Per avere una pelle del viso liscia e odorosa, bisognava mescolare l’incenso al nitro, circa un terzo di libbra, aggiungere un quarto di libbra di gomma e un dattero di mirra grassa. Si tritava poi il composto e lo si mescolava con miele, mirra odorosa, finocchio ed un pugno di rose secche. Si aggiungeva l’incenso e si versava sul tutto una terrina d’orzo.
Infine, per avere una pelle del viso delicata, si doveva sciogliere nell’acqua fredda dei papaveri. Una volta ridotti in crema, questa si spalmava sulle guance.


Camilla Pesaresi e
Linda Natalini

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LE ARMI ROMANE

 

I Romani erano forti guerrieri perché avevano un duro addestramento.

Il soldato romano era vestito con un’armatura composta da un elmo di ferro con guarnizioni di bronzo: il busto, che proteggeva il corpo, era costituito da una serie di placche di ferro (lorica), tenuta insieme da un’intelaiatura di pelle.

In vita portava una cintura (cingulum), coperta di placche metalliche, da cui pendeva una serie di strisce di cuoio ricoperte di dischi, metallici anch’essi.

Nel busto era attaccato un fodero dove era tenuta la spada (gladius) di bronzo con l’impugnatura d’osso.

Nella mano sinistra aveva un grande scudo di legno rivestito di cuoio che era rivolto sempre verso il nemico, mentre nell’altra mano portava un giavellotto (pilum) con punta di ferro e asta molto lunga di legno.

Indossava sandali (caliga) con dei lunghi lacci attorcigliati lungo le gambe e che avevano dei chiodi di ferro sotto le suole.

I soldati a cavallo si spostavano più rapidamente sul campo di battaglia, combattendo con asce di ferro con l’asta di legno, picche (pungiglioni fatti tutti di ferro), lance costituite da aste di legno lunghe più di due metri con punte di ferro, spade a doppio filo; in generale le armi della cavalleria erano più lunghe di quelle utilizzate dai soldati a piedi.

I Romani avevano anche costruito macchine potenti per conquistare nuovi territori che si adoperarono fino alla scoperta della polvere da sparo. Tra le più importanti ricordiamo:

  • La catapulta, chiamata anche “l’asino selvatico” (perché era potente come un asino quando tira calci), un’arma molto precisa, che tirava sassi oltre cento metri di distanza. La catapulta era una macchina tutta di legno con quattro ruote per poterla dirigere verso il bersaglio. Sopra aveva un braccio dove veniva messo il sasso, e che, mentre veniva caricato, era tenuto fermo da una corda fatta di capelli di donna intrecciati tra loro; lasciata la corda, il sasso partiva verso il bersaglio.
  • La balestra, un’arma che tirava frecce fino a cento metri di distanza e poteva perforare anche tavole di legno.
  • L’ariete, che i Romani usavano per sfondare mura, era tutto di legno ed assomigliava ad una casa su sei ruote. Al centro vi era una trave che fuoriusciva da una finestra per colpire il bersaglio, manovrata con una corda dai soldati.
  • La torre di legno: alta quanto le mura, con davanti un ponte levatoio attraverso il quale i soldati potevano entrare nelle fortezze.

Per difendersi dagli attacchi avversari, invece, l’esercito a piedi formava delle corazze di scudi (la cosiddetta “testuggine”), cioè si circondava di grandi scudi diventando pressoché impenetrabile.  

Marco Bernabei
Nicolas Vignoni
Mario Albanese

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Le terme romane


Già dalla metà del III secolo a.C. i Romani avevano appreso dai Greci l'uso di allestire una stanza da bagno nella loro casa di città o nella loro villa di campagna. Ma questo lusso era permesso solo ai ricchi, i quali solevano lavarsi tutte le mattine le braccia e le gambe, mentre il resto del corpo una volta ogni nundina (giorno di mercato). Questi lavacri si facevano in casa, talora in appositi locali che si chiamavano latrinae, che erano vicini alla cucina in modo da portarvi acqua calda.

Durante il II secolo a.C. i bagni pubblici, distinti naturalmente per gli uomini e le donne, apparvero in Roma. Per chi non poteva sistemare nella propria casa gli ambienti adatti, sorgevano stabilimenti pubblici, molto semplici all'inizio.

Vi erano diversi tipi di stabilimenti:

1) I bagni privati, i quali, come si vede a Pompei, non sono che case particolari con una o più stanze per il bagno. Erano frequentati da una clientela ristretta che voleva evitare il frastuono e la curiosità pettegola degli stabilimenti maggiori.

2) I bagni pubblici gestiti da un privato.

3) Le terme pubbliche, un'istituzione civica donata dai più ricchi, che permetteva anche ai più poveri di bagnarsi con comodità e a poco prezzo.

L'edificio, un dono fatto alla comunità da ricchi privati o da imperatori, era dato in appalto ad un impresario (conductor), il quale aveva diritto di esigere dai frequentatori una piccola tassa di ingresso che solitamente era di un quadrante. Vecchi e bambini godevano dell'entrata gratuita.

Le terme non erano solo un insieme di bagni, ma anche un luogo dove c'erano botteghe, portici, giardini, stadi, palestre, saloni da riposo, stanze per i massaggi e perfino biblioteche, musei e sale per conferenze, il tutto con profusione di statue, mosaici e colonne di marmo e granito. Al centro si levavano gli edifici delle terme propriamente dette, dove gli acquedotti immettevano immense quantità d'acqua che riempivano poi le vasche.

Il gigantesco complesso era affiancato da palestre, che a loro volta erano collegate con le scholae, dove i bagnanti, già svestiti, potevano dedicarsi agli esercizi preferiti. Tutto l'edificio era circondato da una spianata, dove si potevano trovare fontane e portici; dietro a questi c'erano le sale da ginnastica e le biblioteche, dove spesso si tenevano delle esposizioni.

La tecnica fondamentale di riscaldamento degli ambienti, già sperimentata nel mondo romano dal I secolo a.C., era basata sul principio di far circolare dell'aria calda sotto i pavimenti ed in inter-capedini ricavate nelle pareti. I pavimenti venivano raddoppiati sollevando il piano di calpestio, in modo da formare tunnel e cunicoli sotterranei che fungevano da tiraggio per i fumi surriscaldati da un apposito forno alimentato a legna.

L'acqua non arrivava direttamente all'edificio balneare, ma veniva raccolta in apposite cisterne destinate ad immagazzinare quantità enormi d'acqua. Da qui l'acqua veniva portata tramite condotti di terracotta o piombo direttamente alle vasche del frigidario e della piscina natatoria, mentre l'acqua che doveva essere scaldata era portata al forno. Quest’ultimo era alimentato a legna, preferibilmente di abete, che produceva poco fumo sporcando e annerendo meno gli ambienti. Le ceneri, opportunamente setacciate, venivano impiegate nelle lavanderie come detersivo.

Le terme aprivano a mezzogiorno, l'ora di accensione dei forni; l'entrata e l'uscita del pubblico erano regolate diversamente secondo i tempi e i luoghi, ma sempre una campanella dava il segno dell'apertura e della chiusura. Nelle terme in cui mancava lo scompartimento per i bagni femminili, le donne venivan
escluse, o erano ammesse in ore diverse da quelle degli uomini. 

Giornata tipo alle terme

Dopo essersi svestito, il bagnante entrava in un piccolo ambiente molto riscaldato, dove “boccheggiava” immerso in un vapore caldissimo, in modo che i pori della pelle fossero ben aperti e il calore diffuso uniformemente sotto l'epidermide. Per richiamare il calore sulla superficie del corpo si poteva procedere in diversi modi: alcuni si limitavano a fare un prolungato esercizio nella palestra (lotta, manubri), seguito da massaggi e numerosi giochi con la palla: i Romani amavano giocare nella spianata a un gioco chiamato palla a tre (trigon) o alla pallavolo; c'erano poi altri sport, come l'harpastum, nel quale la palla era riempita di sabbia, piume o aria; gli esercizi di questo tipo precedevano il bagno. L'acqua dei bagni era limpidissima. Finita l’immersione, entravano in scena il massaggiatore (unctor) con oli e unguenti profumati, il depilatore (alipilus) e il parrucchiere (tonsor); alcuni di essi erano schiavi che i ricchi signori conducevano con sé quando andavano alle terme, altri facevano parte del personale addetto agli stabilimenti balneari.

 

Le terme e le donne

Le donne, quando alle terme non esisteva ancora una sezione a loro riservata, avevano normalmente un turno di frequenza distinto da quello degli uomini; solitamente era al mattino, dall'ora quinta all'ora settima, cioè tra le 10 e le 13, prima dell'apertura vera e propria. Come è presumibile, però, la separazione dei sessi non era sempre rispettata rigidamente.

 

La fine delle terme

La triste fine dei grandi bagni pubblici sopravvenne nel VI secolo quando, già praticamente caduta in disuso la pratica del bagno quotidiano, nel 537 i Goti che assediavano Roma tagliarono gli acquedotti che rifornivano la città. L'interruzione dell'approvvigionamento idrico causò la cessazione di ogni attività e il definitivo abbandono dei grandi edifici termali. Non più utilizzati essi rimasero deserti, privi di manutenzione e di sorveglianza, utilizzati per gli scopi più disparati e impropri, fino a raggiungere il culmine quando cominciarono ad esservi impiantati dei veri e propri cimiteri (come avvenne per le terme di Caracalla). Per fortuna, però, la riutilizzazione più comune fu, con il passare del tempo, quella connessa con i centri d'accoglienza e ricovero per pellegrini, ammalati e viandanti.

Per il resto vi furono impiantati orti e vigne qua e là, spesso anche cave di marmo per ricavarne poi calce. A partire dal XII secolo si hanno notizie e documenti di concessioni di scavo, date dalle autorità a coloro che si erano venuti a trovare in possesso di terreni sui quali si ergevano imponenti ruderi delle terme, per il recupero e la vendita di materiali edilizi.

Nel XV secolo cominciano a essere documentati e sempre più numerosi i ritrovamenti di opere d'arte, soprattutto sculture. Poi, con il Rinascimento, si risveglia l'interesse antiquario per gli stessi monumenti; in particolare da parte di quei grandi architetti che, proponendosi di ripristinare la Roma dei Cesari, fecero delle antiche terme l'oggetto preferito dei loro studi, delle loro ricerche e delle loro meditazioni.

Le terme servirono così al rinnovamento della grande architettura sacra e, in particolare, alla creazione di un nuovo tipo di basilica cristiana, che ebbe tra i suoi primi ed importanti modelli proprio le immense aule termali.


 

 

 

Ricerca eseguita da:

Foresi Gabriele

Cappella Gianmario

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L’abbigliamento

L’abbigliamento era piuttosto semplice: l’abito comunemente usato era la TOGA, un ampio mantello di lana bianca che si avvolgeva attorno al corpo in modo da lasciar libero il braccio destro, e che era posto al di sopra della TUNICA, una specie di corto camice per lo più senza maniche e stretto alla vita da una cintura.
Le donne sopra la tunica portavano la STOLA, abito dalle maniche corte fermato alla vita da una cintura ricadente al suolo in pieghe eleganti; ma quando uscivano indossavano un mantello denominato PALLA, con il quale potevano anche coprire il capo. In casa e fuori donne e uomini andavano però normalmente a capo scoperto: si coprivano in fatti solo in viaggio e in caso di cattivo tempo.
Tutti invece, quando dovevano comparire in pubblico con la toga, calzavano i CALCEI (assai simili ai nostri stivaletti), mentre per stare a casa o in campagna usavano SANDALI di cuoio, che toglievano ogni volta che si coricavano a mensa.
I fanciulli, dal conto loro, fino a 16 anni portavano la toga PRAETESTA, cioè una toga orlata da una striscia di porpora simile a quella dei magistrati e dei sacerdoti; solo dopo aver raggiunto con il 17° anno la maggior età, vestivano la bianca toga virile nel corso di una particolare cerimonia alla quale partecipavano tutti i membri della famiglia.

Il cibo

I Romani mangiavano tre volte al giorno: al mattino facevano un PRIMA COLAZIONE a base di pane, uova e frutta secca; verso mezzogiorno una SECONDA COLAZIONE non molto consistente (prandium), costituita di cibi freddi e di avanzi del giorno precedente; alla sera, infine, aveva luogo la CENA, che nelle case dei ricchi, specie dopo i primi contatti con il mondo greco e con l’oriente, divenne particolarmente elaborata.
Ai legumi, alla verdura e ai cibi di farina e di frumento dei tempi più antichi furono infatti sostituiti antipasti di uova e pesci, ostriche e olive, prelibate carni e vini ricercati, creme e biscotti, che i servi porgevano ai commensali sdraiati disposti a ferro di cavallo intorno a una larga tavola o MENSA.
Assai spesso i pasti, allietati da portate speciali (uccelli, cinghiali arrosto ripieni di tordi, vini ecc.), da brindisi, danze, canti e musica, ricche libagioni, si prolungavano sino a tarda notte fra l’allegria generale.
Nelle case dei ricchi, si potevano gustare piatti che a noi farebbero come minimo “storcere il naso”, come i pappagalli lessi o le gru arrosto.
I Romani delle origini, invece, mangiavano raramente la carne, anche perché pochi potevano permettersela.
In più sino al 3° secolo a.C., era proibito macellare i bovini a scopo alimentare.
La pena era molto severa e andava dall’esilio alla morte.
I buoi, considerati nobili animali da lavoro e sacrificati a volte nei riti, si potevano mangiare soltanto quando morivano di morte naturale.

Manuale di cucina

Sulla cucina dei Romani la principale fonte è il DE RE COQUINARIA di MARCO GAVIO APICIO, nato intorno al 2° secolo a.C.
La sua raccolta di ricette è un vero manuale destinato ai cuochi dell’ epoca.
Apicio era ricchissimo, e passò alle storia per le proprie stranezze come cuoco: piatti a base di lingua di usignolo e di fenicotteri, talloni di cammello, creste di volatili e altre…. prelibatezze!
Ma tra le 480 ricette della versione originale della sua opera giunta sino a noi ci sono anche: lo sformato di sogliole, pollo o maiale farcito, arrosto al sale o al miele, e così via.
Il tutto, o quasi, spruzzato di una salsa, il GARUM, che costituiva un condimento usatissimo.
Qualcuno prepara le ricette di Apicio, Virgilio, Catone e Columella ancora oggi: a pochi passi dal Colosseo c’è Magna Roma, un luogo di “archeologia gastronomica” dove si può pranzare in un ambiente del 123 d.C., al tempo cioè dell’imperatore Adriano.

Una ricetta: il TYROPSATINAM
Prendi il latte, a seconda quanto stimerai ne contenga la pentola, lavoralo con il miele come si fa per i latticini, poi metti 5 uova per sestario (600gr.).
Dissolvile nel latte in modo da amalgamare, versa nella pentola di terra cotta e cuoci a fuoco lento.
Quando si sarà ritirato cospargi di pepe e porta a tavola.
(da Apicio, De re coquinaria)

Letizia Frontini,
Alessandra Ragaini,
Denise Guidi
classe I A di Offagna


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