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SERAPEUM DI SACCARA

 
 




Quando si dice Egitto si pensa subito alle piramidi e al Nilo, alla Sfinge e Tutankamon, ai tesori e ai misteri della Valle dei re; ma vi sono altri luoghi pervasi di misteri ancora non svelati.

Uno di questi è il Serapeum di Saccara riportato alla luce da Auguste Mariette fra il 1850 e il 1852. Il luogo dove venivano sepolti i tori sacri di Apis. Questo era il nome che veniva dato al toro simbolo di fertilità e potenza sessuale e fisica. Il Dio si incarnava nel toro e quindi poteva esistere solo un toro sacro alla volta; quando ne moriva uno si cercava un altro esemplare con le stesse caratteristiche. I tori morti venivano sepolti nel Serapeum con sontuosi funerali.

In Egitto vi erano due Serapeum: uno a Saccara, dove si adorava Apis, e l'altro ad Alessandria, dedicato a Serapis. Serapeum difatti deriva proprio da Serapis.

Il Serapeum è una tomba sotterranea, ingrandita durante il "nuovo regno" sotto la gestione di Ramesses II, che contiene sarcofaghi di granito e di basalto con i resti dei tori Apis. Queste scatole di pietra pesano almeno 65 tonnellate ciascuno e, con il coperchio, raggiungono 100 tonnellate.
Ogni basamento è alto circa 11 piedi, lungo 13, largo 7,5.
Quando Auguste Mariette lo ha scoperto ha registrato 24 sarcofaghi di basalto e granito posizionati ancora nelle cripte scavate a distanza regolare nel calcare.
All'interno delle due gallerie si trovano oggi 21 sarcofaghi megalitici di basalto, lunghi 4 metri, larghi oltre 2 e alti 3,30, del peso di circa 100 tonnellate compreso il coperchio di 27 tonnellate.
Rifiniti con elevata accuratezza, i sarcofaghi presentano superfici perfettamente piane e levigate tanto da potersi specchiare. Gli angoli sono esattamente retti in ogni lato e di conseguenza le pareti interne risultano parallele fra loro. Il coperchio combacia in modo perfetto tanto da produrre una chiusura ermetica e impedire l'accesso dell'aria fra le due superfici.

Un lavoro di questa precisione appare estremamente difficile da realizzare con gli utensili ordinari che la scienza ufficiale assegna alla civiltà egizia. Quindi ci si domanda quali attrezzi siano stati usati e quale metodo di lavorazione sia stato seguito per ottenere tale risultato, in un epoca ove era conosciuto solo il rame. Per quale motivo si è dovuto estrarre un blocco di granito o di basalto di oltre 100 tonnellate e scavarlo all'interno con una esattezza maniacale e situarlo in un sottosuolo in stretti loculi scavati nel calcare, percorrendo angusti passaggi che non potevano certo ospitare le decine di lavoratori impegnati nel loro trasporto e collocazione.
Christopher Dunn si è rivolto a ditte specializzate nel settore del taglio del granito, ma nessuna possedeva l'apparecchiatura adatta per eseguire un tale lavoro di precisione e ricavare un sarcofago paragonabile a uno di quelli del Serapeum di Saccara. Né tanto meno fornire un coperchio. L'unica cosa che avrebbero potuto produrre era una scatola formata da lastre di granito unite insieme; un lavoro, per giunta, altamente costoso.
Perché si è cercata una simile precisione nell'esecuzione del lavoro in un'epoca dove, secondo le nostre conoscenze, non vi era tale necessità?

Quale è stata la necessita di fabbricare 21, e in origine erano 24, sarcofaghi così perfetti? Difficile anche pensare che artigiani possano aver prodotto superfici finemente lavorate e precise nelle loro misure.

Non si può immaginare la mole di lavoro derivata dalla necessità di accostare perfettamente i blocchi fra di loro, posizionarli nel punto esatto, formare gli incastri con estrema precisione, preparare il terreno ove posizionare la costruzione.
Inoltre a Saccara vi sono 18 colonne di quarzite alte undici metri in un cortile del tempio di Pepi II. Anche adoperando la tecnologia moderna rimane difficile tagliare la quarzite.
L'egittologia non sa ancora spiegare come gli egizi abbiano prodotto smisurate colonne arrotondate in pietra dura. Il loro diametro non è sempre un cerchio perfetto e la mancanza di tracce di un sostegno per mantenerle in posizione orizzontale, mentre vengono modellate da un eventuale tornio, fa pensare a prodotti artificiali e quindi al cemento. Potrebbero anche aver usato uno stampo costruito con lo stesso cemento per la loro formazione. Inoltre, il gigantesco macchinario immaginato da Dunn non poteva sparire in seguito ad un cataclisma. Quantomeno si doveva trovare testimonianza di queste stupefacenti macchine nei documenti antichi, nelle scritture, nei bassorilievi, nelle illustrazioni. Su questo la Morris sembra aver ragione perché mancano tali testimonianze.

A tal punto anche noi vorremmo dire la nostra riportando alla memoria la vicenda delle pareti scomparse dal tempio di Hator a Dendera; vicenda documentata da Elebracht, riportata da Peter Krassa e Habeck nel loro libro "la Luce dei Faraoni". Tutti si chiedono se sopra quei bassorilievi occultati vi era la raffigurazione di una moderna tecnologia, ma purtroppo nessuno può fornire una risposta; si può solo rimarcare che nelle pareti rimaste in loco vi sono riprodotte lampade ad incandescenza. Non sappiamo chi è nel giusto nel formulare ipotesi riguardo alla lavorazione del granito e del basalto, perché solo di ipotesi si tratta; non certamente gli egittologi, che affermano di poter ricavare l'interno dei sarcofaghi colpendo il granito con una sfera di dolerite, una roccia basaltica a grana grossa, di otto pollici, fino a realizzare la forma o la figura desiderata. Forse per il sarcofago grezzo rinvenuto a Menfi, ma non certamente per ottenere le superfici dei sarcofaghi del Serapeum di Saccara, né in quello della camera del Re della Grande Piramide. Una sfera di circa due metri e quaranta non può formare un raggio d'angolo di 2,85 centimetri e di novanta gradi.


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