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A. Capitini - Il rapporto fra azione e valore

 

     Pino Daniele - Na tazzuriella e'caffe

Villa Capitini

estratto da " FILOSOFI NEL DISSENSO", Editoriale Umbra, Foligno, 1986, pag.108, a cura di E.Mirri e L:Conti per l'I.S.U.C., Istituto per la Storia dell'Umbria Contemporanea

Possiamo definire azione una modificazione della realtà che uno fa di propria iniziativa: atto invece ciò che fa essere. Dunque non «azione oppure valore». Il nostro problema sarà d'intendere questo rapporto. Per es. questo rapporto se c'è ci deve anche essere? Perché si potrebbe porre o la trascendenza del valore sull'azione, cioè il rapporto può anche mancare e il valore resta valore, o porre l'attivismo, che cioè l'azione instauri sempre e comunque un valore.

Vediamo i due termini. Il concetto d'azione è sempre intimamente legato all'uomo: per questo l'abbiamo preferito alla parola atto, che ha una tradizione più teologica: in questo caso avremmo perduto l'accentuazione etica che ha la nostra ricerca. Il concetto di valore invece lo vedremo e non lo vedremo umano, perché tutta la metafisica si mette in moto per tenerlo il più alto possibile sul nostro agire.

Valore è termine moderno per l'antico di Bene. Valore si può definire ciò che è desiderato (individualmente) e che dovrebbe essere desiderato (universalmente).

Il Croce definisce i quattro valori (o forme dello spirito) da lui distinti, «potenze del fare e categorie del conoscere». Ma non sarà cosa facile tener fermi i quattro distinti. Passando all'attualismo gentiliano troviamo un illimitato attivismo, un illimitato eticismo. E qui un problema: quale rapporto tra il valore e i valori? È possibile forse più d'un valore, e con quale criterio si distinguono, oppure è uno solo? È evidente che ci troveremmo dinanzi la questione del rapporto tra pensare e agire, tra conoscere e fare. Forse si potrà dire che, se prevale l'interesse di conoscere, si distinguono i valori al plurale (e questo è nella tradizione greca), se invece prevale il voler fare, si bada al valore al singolare, all'eticità intrinseca ad ogni fare.

Si può dire che l'intelletto distingue e la volontà unifica; ma le due cose vanno scisse? Il rapporto fra pensiero e azione si tende a renderlo sempre più intrinseco. Ci rientra poi il problema della società (o storia, o civiltà). Se ricordate il Prometeo del Goethe, avete presente quello che è il valore centrale, la fonte dei valori, l'operare dell'uomo attivo, responsabile, che forma l'umanità e costruisce lui la capanna, non il Dio. Il valore centrale viene ad essere lo spirito, la Libertà, la Responsabilità: secondo libertà e responsabilità, s'impegna nei singoli valori, e operando per essi li immette nella società, e in tutte le forme, cioè come valore estetico se fa dell'arte o la studia, valore di pensiero, valore sociale, etico, etc.

Così comprendiamo tre cose: che cosa sia la storia, sempre aperta ai valori, che cosa voglia dire che essa è sintesi di universale e di particolare, e che non si possa ammettere l'assoluta egemonia d'un valore sugli altri. La società deve essere aperta e la persona deve essere aperta; l'una in rapporto con l'altra, né persona senza società, né società senza persona. Il fatto che la fede nel valore costituisca un impegno e una responsabilità può essere visto più chiaramente ponendo la domanda: dimmi in quali valori credi e ti dirò chi sei. Dice il De Santis: «la storia ne' tratti essenziali non è se non la storia di Dio e della donna» (Saggio sul Leopardi); e così dei valori che vengono posti, difesi, affermati (non a parole, come fanno i retori, i conservatori, gli accademici classicisti, ma nel fatto, nella sostanza). Sicché la fede in un valore ha un significato affermativo o polemico, e la storia scritta e l'intima storia non scritta porta il giudizio sui valori a cui effettivamente servimmo. Un altro punto è questo. La civiltà greco-europea ha volto una grandiosa polemica contro la corporeità sensibile; non solo Platone, ma anche lo Hegel e il suo Spirito assoluto nella triade Arte, Religione e Filosofia, che sono tre valori. Anzi in generale si può dire che pensiero sia questa polemica, o questo disciplinamento del corporeo sensibile, e cioè insomma autorità. È una grande sciocchezza dire che il pensiero sia anarchico: pensare sul serio è fede in un disciplinamento del corporeo sensibile. E qui sta l'importanza del Kant, che porta questo centro dal pensare al fare, in cui è possibile un'universalità di carattere assoluto (primato della ragion pratica).

La fede di Socrate nel concetto diviene la fede di Kant nell'universale. Sono i due perni della civiltà greco-europea. Questo valore, o universale, non coincide senz'altro immediatamente, naturalmente col nostro fare. Altrimenti non potremmo più citare il propter vitam vivendi perdere causas.

Le causae vivendi sono proprio il valore distinto della vita, dal punto di vista corporeo, sensibile, amministrativo, etc...

Non sta in quel detto il dilemma dell'eticità? (Distinzione tra valore e bisogni vitali che non possono diventare ideale). In fondo il valore è eterno, è cioè quella causa per cui si accetta di vivere nel tempo e lo si costruisce. Finché l'uomo crede nei valori, Bontà nel fare, Bellezza nell'intuire artisticamente, Verità nel pensare, Giustizia nell'operare socialmente, Persona nell'amare ecc., farà, intuirà, penserà, opererà socialmente, amerà, etc. Questi valori, siano statue all'ingresso nella vita, o siano costellazioni nell'intimo cielo, rendono accettabile la vita. Altrimenti, stare nel mondo diventa soffrire, amare senza sentire la persona diventa ripugnante, riformare senza giustizia suscita odio, ecc. Se cede la fede nel valore, sorge la reazione: l'individuo è per la morte (Heidegger). Nella reazione antiteologica si è sempre più considerato l'individuo e non la persona. Allora è possibile questa antitesi: o l'uomo è semplicemente individuo, e allora è per la morte, o l'uomo è per il valore, e allora è persona. L'individuo diventa persona piegandosi ai valori: la cultura così diventa atto di fede.

. La presente relazione di Capitini...seguì immediatamente quella di Montesperelli e fu pubblicata per esteso nell'«Archivio di Filosofia», fasc. 1.11, 1942.XX. pp. 155.156. Il titolo, in mancanza di qualsiasi indicazione nei testi, è dovuto ai Curatori. [N.d.C.i.]

Da FILOSOFI NEL DISSENSO, Editoriale Umbra, Foligno, 1986, pag.108, a cura di E.Mirri e L:Conti per l'I.S.U.C., Istituto per la Storia dell'Umbria Contemporanea

 

 

 

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