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Filosofia di Aldo Capitini
di Norberto Bobbio
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In un saggio autobiografico scritto pochi mesi prima
della morte Capitini raccontò di esser passato a poco a poco negli anni
pisani dagli studi letterari agli studi filosofici, specialmente dopo il
1933 , allo scopo di "costruire le giustificazioni dell'opposizione al
fascismo e della costruzione libero-religiosa". Nel 1937 uscirà la prima
opera, gli Elementi di un'esperienza religiosa, di cui egli stesso disse,
ristampandola nel 1947, che conteneva oltre a "momenti lirici" e "tensioni
religiose" anche "spunti filosofici". Composta tra il 1937 e il 1944 quella
che egli stesso chiamò la sua "tetralogia antifascista", ossia gli Elementi
citati, Vita religiosa (1942), Atti della presenza aperta (1943), La realtà
di tutti (scritto nel 1944, pubblicato soltanto nel 1948), il primo libro
che diede alle stampe dopo la liberazione fu un'opera schiettamente
filosofica, Saggio sul soggetto della storia ( 1947 ). |
Dei molti libri che scrisse in seguito non ve n'è uno che non
contenga riferimenti a filosofi antichi, moderni e contemporanei, analisi di
correnti filosofiche del passato e del presente: nel Fanciullo nella liberazione
dell'uomo ( 1953 ) alcuni capitoli sono dedicati alla discussione delle
filosofie con cui egli riteneva di doversi confrontare per far scaturire
l'originalità della propria posizione (idealismo, storicismo, esistenzialismo).
Filosoficamente orientato e impegnato è l'ultimo libro apparso, lui vivente, La
compresenza dei morti e dei viventi (1966), che a me pare l'opera sua maggiore,
nonché conclusiva, per ampiezza di temi e ricchezza di svolgimenti, e larghezza
dell'orizzonte spirituale che essa abbraccia e lascia intravedere (opera
difficile, da ristudiare, o meglio, da studiare, perché il pensiero di Capitini
non è stato ancora decifrato).
Capitini non fu e non volle essere un filosofo nel senso scolastico o, peggio,
professionale della parola. Ma non fu soltanto un religioso o un moralista.
Rispetto alle due maggiori personalità religiose presenti e operanti nella
storia della spiritualità italiana di questo secolo al di fuori della
chiesa-istituzione, cui egli stesso si paragona (e questo paragone è a mio
avviso giustissimo e illuminante e meriterebbe di essere approfondito), Ernesto
Buonaiuti e Piero Martinetti, egli fu meno filosofo del secondo, ma più filosofo
del primo.
Gli anni in cui egli colloca il suo tirocinio filosofico, dal 1933 in poi, sono
gli anni in cui l'idealismo, filosofia dominante da alcuni decenni, giunge
estenuato ai suoi stessi discepoli che credendo di rinnovarlo lo travolgono.
Nello stesso anno in cui appaiono gli Elementi, il più fedele degli allievi di
Gentile, Ugo Spirito, scrive un libro (La vita come ricerca, 1937) in cui
converte lo spiritualismo trionfale del suo maestro nel problematicismo, cioè in
una filosofia della crisi.
Sono gli anni in cui coloro che si danno agli studi filosofici (essendomi
laureato in filosofia nello stesso 1933 parlo più da testimone che da storico)
cercano altre strade, la fenomenologia, l'esistenzialismo, il neo-positivismo
del Circolo di Vienna.
Ho già detto altrove (sono costretto a ripetermi, ma il discorso su Capitini mi
offre l'occasione di una singolare conferma) che nel decennio tra il 1930 e il
1940, nonostante il fascismo che culturalmente non conta nulla, fanno la loro
apparizione nel nostro paese le correnti filosofiche che terranno il campo dopo
la Liberazione, ad eccezione del marxismo, rispetto al quale l'ostracismo è
rigoroso (il primo marxista della nostra generazione, Galvano Della Volpe, anche
lui in cerca d'una via d'uscita, scrive in quegli anni un libro su David Hume).
Da un lato Geymonat e Colorni, il filone della filosofia scientifica; dall'altro
Abbagnano, Paci, il primo Luporini, il filone dell'esistenzialismo. Come al
tempo della crisi della grande filosofia sistematica di Hegel, quell'hegelismo
minore che fu l'idealismo italiano si rompe in due direzioni opposte, verso la
scienza (il nuovo positivismo) o verso la riscoperta di un'esperienza religiosa,
se pure nella forma di una teologia rovesciata, com'è l'esistenzialismo di
Heidegger.
Non posso non andare con la mente alle parole di Nietzsche: "Che cosa è il
filosofo? Al di là delle scienze: liberazione dalla materia. Al di qua delle
religioni: liberazione dagli dèi e dai miti ". Ovunque il sistema filosofico,
qualunque esso sia, si dissolve, tornano alla ribalta affrontandosi o alleandosi
l'al di qua delle scienze e l'al di là della religione, il sistema astratto e
l'anti-sistema, l'intellettualismo e l'irrazionalismo.
La rottura capitiniana avvenne dalla parte dell'al di là della filosofia. In una
storia del pensiero per linee molto generali potrebbe essere compresa
nell'orizzonte dell'esistenzialismo, anche se si sia trattato di una convergenza
oggettiva, e, se mai con riguardo all'Italia, di un'anticipazione, non certo di
una consapevole derivazione (i primi libri italiani dichiaratamente
esistenzialistici sono La struttura dell'esistenza di Abbagnano e La filosofia
dell'esistenza e Carlo Jaspers di Pareyson, rispettivamente del 1939 e del
1940). Più tardi egli stesso avvicinò la sua "esperienza religiosa" a quella di
Kierkegaard, che peraltro quando scrisse il suo primo libro non aveva letto.
L'unico autore citato negli Elementi che possa essere fatto rientrare nella
letteratura esistenzialistica è Nicola Berdiaeff, il quale era letto in quegli
anni, anche dallo stesso Capitini, come uno scrittore politico, specie per il
suo libro Cristianesimo e vita sociale, apparso nel 1936.
Non si può negare che nel modo con cui Capitini affrontava il problema della
crisi spirituale del proprio tempo, e dell'esigenza di un impegno personale,
intimo, radicale, nella ricerca di una soluzione che non poteva essere soltanto
sociale o politica, e tanto meno soltanto istituzionale, vi fosse una vena del
più genuino esistenzialismo.
Quando egli scrive "l'essenza della religione è la coscienza appassionata della
finitezza", introduce uno dei motivi più profondi e più esaltati
dell'esistenzialismo (com'egli stesso riconoscerà in tempo di esistenzialismo
trionfante), mettendo però l'accento non tanto sul sostantivo "finitezza" quanto
sull'aggettivo "appassionata", per segnare quel che lo distingue, la tensione
verso il superamento del limite, non la sua accettazione, l'andare al di là
verso il tu di tutti, non il restare dentro la situazione tanto da non
intravedere, come accade appunto all'esistenzialismo, "la realtà liberata".
Se di un suggerimento esistenzialistico si può parlare, bisognerà andarlo a
cercare in colui che fu chiamato un esistenzialista ante litteram, Carlo
Michelstaedter, morto adolescente nel 1910, di cui doveva essere ancora viva la
presenza nell'Università di Pisa attraverso l'insegnamento di Vladimiro
Arangio-Ruiz, che ne era stato l'amico e l'editore. Il quale è subito citato
all'inizio degli Elementi:
Carlo Michelstaedter, alla fine del primo decennio di questo secolo, dopo aver
sentito come forse nessun altro la romantica riduzione di tutto a sé stesso, si
uccise per possedersi, per consistere, per sottrarsi ad ogni dominio e
realizzarsi perfettamente. Egli scontò così con la sua vita serissima tutta una
civiltà. |
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In un passo di Il fanciullo nella liberazione dell'uomo, Capitini collega
l'autore di La persuasione e la retorica all'esistenzialismo in questo modo:
"L'esistenzialismo segnala la frattura, l'interruzione del continuare, della
retorica (direbbe Michelstaedter), il pervenire al limite, al fondo, proprio
perché sia possibile altro". Di contro alla retorica, cioè al modo, ai vari modi
con cui l'uomo vivendo nell'effimero del tempo s'illude di vivere nell'eterno,
sta la persuasione, cioè il possesso reale, risoluto, senza illusioni e inganni,
che è di pochi, del presente.
La via della persuasione non è corsa da omnibus, non ha segni, indicazioni che
si possano comunicare, studiare, ripetere; ma ognuno ha in sé il bisogno di
trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la
via, poiché ognuno è solo e non può sperare l'aiuto che da sé. La via della
persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò
che ti è dato.
Se pure con parole meno oscure e destinate a ben più largo consumo, questa
distinzione fra persuasione e retorica rivivrà nella contrapposizione
heideggeriana tra esistenza autentica ed esistenza inautentica. Chiunque abbia
una certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno dei termini-chiave
del suo linguaggio personalissimo è "persuasione", che sta per "credenza" o per
"fede" (il bel capitolo autobiografico con cui ha inizio il libro Religione
aperta è intitolato La mia persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da
lui usatissima equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da
Michelstaedter:
... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze,
la "persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo "persuaso" a "credente",
persuaso nel senso di "autopersuaso", quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel
tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico [...]:
insomma mi pareva esatto considerarlo come la premessa di una tensione
etico-religiosa.
Una premessa, non una conclusione: nella Compresenza dei morti e dei viventi
viene presentato il tema fondamentale dell'opera di Michelstaedter: "La
persuasione è il possesso presente della propria vita". Ma poi subito dopo si
aggiunge: "Come si può possedere la propria vita se esiste accanto la morte?".
Questa osservazione è molto importante, perché ci mostra entro quali
strettissimi limiti si possa parlare di esistenzialismo a proposito di Capitini.
L'esistenzialismo, specie nella sua versione heideggeriana, era una filosofia
della crisi (del decadentismo, come dicevo allora), che rifuggiva dal mondo
perché non era in grado, nonché di trasformarlo, neppure di comprenderlo.
Era una filosofia non politica per eccellenza o del rifiuto della politica
degradata a mondo della "cura" per la sopravvivenza con cui l'uomo condannato ad
esistere cerca di sfuggire all'angoscia di fronte al nulla che lo circonda o al
Dio che è sempre al di là.
La filosofia di Capitini era all'opposto una filosofia sociale, o meglio
comunitaria, la cui categoria essenziale non era la "cura" (la Sorge
heideggeriana) ma la tensione ( o lo slancio, con altra parola tipica del suo
linguaggio) verso l'altro, verso gli altri, verso il tu di tutti, ove la
finitezza non è un limite invalicabile, un limite sentito come una colpa oscura
da cui non è possibile riscattarsi, ma come la condizione per cui non possiamo
fare a meno degli altri, e dobbiamo cercare di vivere, secondo un'espressione
leopardiana che Capitini usa spesso, "confederati". (Nobile natura è quella che
"tutti fra sé confederati estima gli uomini e tutti abbraccia con vero amor... "
).
Ove insomma la finitezza non è una situazione limite, ma una situazione aperta,
anzi il punto di partenza verso l'apertura infinita al Dio del mondo, cioè di
quel Dio che vive nella comunità, capitinianamente, nella "compresenza" dei vivi
e dei morti.
Ho citato di proposito Leopardi, non solo perché fu uno degli autori di Aldo, ma
perché Leopardi, molto più di Kierkegaard, offre spunti e temi in quegli anni
all'esistenzialismo italiano (sia ricordato per tutti il libro di Cesare
Luporini, allora vicino al gruppo capitiniano, Situazione e libertà
nell'esistenza umana, del 1942, che contiene alcuni richiami a temi leopardiani
come quello del tedium vitae).
Aldo dal canto suo si definì un po' paradossalmente, con quel gusto che gli era
proprio di rompere gli schemi canonici della filosofia accademica,
"kantiano-leopardiano" (sul "kantiano" diremo fra poco)
Dei principali temi della sua filosofia riteneva di aver trovato un'espressione
poetica nell'autore della Ginestra: oltre quello della unità di tutti gli esseri
viventi contro la natura maligna, quello della compresenza dei morti nei famosi
versi di Nerina: "Ogni giorno sereno, ogni fiorita / piaggia ch'io vedo, ogni
goder ch'io sento / dico: Nerina or più non gode: i campi, / l'aria non mira".
Ispirato a Leopardi è il capitolo di Vita religiosa intitolato L'orizzonte (e
curiosamente il tema dell'orizzonte è anche un tema esistenzialista, un tema
strettamente connesso a una filosofia della finitezza, come ben sa chi conosce
la filosofia di Jaspers, e l'importanza che vi ebbe in quegli anni la prima
traduzione di un suo libro, Existenzphilosophie, in cui uno dei temi centrali è
quello dell'Umgreifend, tradotto in italiano "orizzonte comprendente").
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In una filosofia del finito l'orizzonte è una metafora quasi obbligata: esso è
infatti la rivelazione di ciò che è finito, perché, per quanto si allarghi non
cessa mai di avere un limite, ma nello stesso tempo, rinviando continuamente a
quello che è al di là, è il segno o la "cifra" attraverso cui si rivela
l'infinito.
Quella che per Leopardi era la "... siepe, / che da tanta parte dell'ultimo
orizzonte il guardo esclude", in Capitini sono in quel capitolo "finestre da cui
si vede una parte dei monti", e, al di là delle "torri" e delle "cime" si può
scorgere "tutta la linea fra la terra e il cielo". |
Beninteso, per la stessa ragione per cui Capitini lambisce l'esistenzialismo ma
non è esistenzialista, così assume alcuni temi leopardiani ma non è leopardiano
(se non negativamente): l'infinito di Leopardi è il mare in cui è "dolce
naufragare", è un momento del contemplare; per Capitini l'infinito viene vissuto
nella compresenza, diventa atto pratico un momento della "prassi" religiosa.
Egli paragona l'orizzonte della natura a quello della storia da cui contempla e
rivive tutto il passato e rivivendolo non lo sente più come passato, e nel fare
(non nel semplice contemplare) l'orizzonte è già superato.
La conclusione che egli trae dalla contemplazione della linea che separa il
cielo dalla terra (fuor di metafora lo spirito dalla materia) non è soltanto una
conclusione esistenziale, come quella di Leopardi, ma è una conclusione
filosofica: "Giove e gli angeli sono svaniti".
Certamente, tanto l'esistenzialismo quanto la filosofia di Capitini, hanno una
matrice religiosa: ma la religiosità esistenzialistica (da Kierkegaard a
Heidegger) è di origine protestante ed è ispirata ad una concezione pessimistica
dell'uomo; la religiosità di Capitini è, nonostante il suo aggressivo
anti-cattolicesimo istituzionale, di ispirazione cattolica (parlo della
spiritualità cattolica, che guarda alle opere più che alla fede, non alla chiesa
come istituzione).
Invero dal punto di vista della negazione radicale di ogni istituzionalismo,
Capitini fu non meno anti-cattolico che anti-protestante, e non può essere
compreso se non inserendolo nella storia delle sette non conformiste che
predicano il ritorno alle origini - di quelle sette in cui Pietro Martinetti in
quegli stessi anni, scrivendo Gesu Cristo e il cristianesimo ( 1934 ), vedeva
trasmesso e conservato in ogni epoca storica lo spirito genuino del messaggio
cristiano - e che sole propugnarono come genuinamente cristiano, sempre
avversate dalle chiese che dovevano venire a patti col mondo, il tema capitiniano quant'altri mai della nonviolenza.
Chi volesse approfondire l'antititesi fra l'antropologia pessimistica
dell'esistenzialismo e quella ottimistica di Capitini dovrebbe fare una rassegna
dei temi esistenziali che si trovano ripetuti nelle sue opere. Sono temi in
genere diametralmente opposti a quelli esistenzialistici, perché richiamano
l'attenzione sull'aspetto chiaro non su quello oscuro dell'esistenza umana: la
gioia, la festa, la coralità, l'amicizia, la vicinanza, l'aggiunta, l'apertura,
la letizia, il tu dato a tutti, anche ai morti ("Non sai quanto mi ha atterrito
la vista dei morti; mi sono schiarito pensando che potevo dire 'tu'").
Se per quel che riguarda l'esistenzialismo si è potuto parlare di convergenza,
si deve parlare invece di appropriazione e superamento rispetto all'idealismo o
meglio allo storicismo filosofia dominante nella cultura italiana, con la quale
la nostra generazione fu l'ultima a dover fare i conti, con un misto di amore e
odio, di accettazione e ripulsa, che ha marcato (o marchiato) tutta la nostra
vita intellettuale e ci ha segnati come una generazione di mezzo travagliata e
divisa, più ricettiva che creativa, instabile e inquieta perché in continua
ricerca della propria identità (che non è mai riuscita a trovare).
Parlo di superamento e non di rifiuto, perché l'altra filosofia, la filosofia
data per morta e quindi rifiutata, era per Aldo la filosofia della trascendenza,
che poneva Dio fuori del mondo, non già lo storicismo, filosofia dell'immanenza
che aveva fatto discendere Dio nella storia, l'universale nel concreto.
Rispetto alla filosofia della trascendenza, lo storicismo segnava, per Aldo, un
passo avanti, che non permetteva ritorni o salti indietro nel tempo. Capitini
insomma accetava la lezione dell'idealismo, ma non se ne accontentava.
L'idealismo era un apassaggio obbligato; ma appunto un passaggio, non un punto
di arrivo.
La superiorità dell'idealismo rispetto alle filosofie tradizionali stava nel
fatto che esso aveva posto o riposto il soggetto, intendi il soggetto concreto
umano, il soggeto finito-infinito, al centro del mondo e della storia, era una
filosofia dl soggetto.
In questo modo Capitini accettava pienamente la definizione che l'idealismo dava
di sé stesso. Nell'estrema espressione di questa filosofia che era, secondo un
giudizio che egli divideva con tutta la filosofia immediatamente
post-idealistica, l'attualismo gentiliano, il soggetto si risolveva tutto
nell'atto con cui poneva, e riproponeva sé stesso: una filosofia che usciva dal
tronco dell'idealismo non poteva che essere una filosofia dell'atto. Non solo
dunque idealismo, ma, più specificamente, attualismo. Lo stesso Capitini
confessa:
Quanto all'Atto di Gentile io sono tra quelli che hanno sentito il fascino di
quel concentrare tutto qui, per tutto rifare in un totale impegno. Non la
sommersione delle distinzioni o quei logicismi che ricadevano su se stessi, ma
la forza di quell'eticismo (o tensione religiosa, teogonica) ha operato su
molti. |
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Ma quale atto? Il problema fondamentale di Capitini, dalla prima all'ultima
pagina delle sue opere, fu quello di recuperare il senso escatologico della
filosofia della trascendenza, dopo aver accettato la filosofia dell'immanenza
che non riconosce nessun altro mondo fuori di questo mondo della storia.
Il suo pensiero filosofico si può riassumere in questa formula: l'escatologia
qui e subito. O il trascendimento del mondo o la perdita del mondo. Ma il
trascendimento non è rinvio alla trascendenza, non è attesa della liberazione
dal di fuori o dall'alto, bensì liberazione in atto attraverso l'apertura
infinita a tutti, morti e viventi, cose e persone. Per aver rifiutato la
trascendenza, l'immanentismo ha finito per accettare il mondo, e invece bisogna
rifiutare la trascendenza e anche il mondo.
Quello che non può fare lo storicismo, lo fa una posizione etico-religiosa, che
taglia l'ottimistico svolgimento storico e approfondisce. E se io non posso
placarmi al morire degli individui nella storia, io cerco una realtà in cui
l'individuo non muoia, sia presente in eterno.
Lo storicismo si risolve nella concezione panteistica dell'Uno-tutto. Ma una
autentica filosofia del soggetto non può realizzarsi se non trasforma l'Uno-tutto
in Uno-tutti, il panteismo o pan-logismo in un pan-personalismo (la parola è
mia).
Per passare dal pan-teismo al pan-personalismo occorre una tensione religiosa,
che l'idealismo nel suo giustificazionismo storico non conosce. Occorre insomma,
con tipica parola capitiniana, un'aggiunta.
Nell'ultima opera, che, come ho già detto, certamente è l'opera filosoficamente
più impegnativa, egli sviluppa il tema del raffronto tra "aggiunt " e
"dialettica". La dialettica è un movimento che si chiude su sé stesso, è la
logica, lo dico con parole mie, di un sistema che, per quanto dinamico, è
chiuso. In altre parole, la dialettica spega tutto ma non trasforma nulla.
Per trasformare il mondo occorre rompere questo movimento che si chiude su sé
stesso: solo l'aggiunta religiosa può operare questa rottura.
Noi non diremo che l'essere singolo a cui volgiamo il tu è morto, perché così
voleva la dialettica del reale. Né che la realtà liberata verrà necessariamente
dopo che il Male si sia sfrenato come in un regno dell'Anticristo; ma che la
realtà liberata si aggiungerà dal di dentro.
(La compresenza dei morti e dei viventi, pag.109)
Più che verso gli idealisti italiani, la critica capitiniana dello storicismo è
diretta a Hegel, considerato come il filosofo del sistema totale, di una
totalità organica in cui gli individui scompaiono, che non lascia alcuno spazio
alla realtà di tutti:
Siamo ancora con Hegel nel problema teologico di intendere il rapporto tra Dio e
l'uomo. Siamo ancora, sebbene su terreno laico, in una festa religiosa in cui si
celebra la discesa, la "presenza", mirando, nella luce del mistero risolto, ad
essa; e non ai compresenti.
O ancora: per Hegel l'insufficienza dei singoli elementi viene colmata nel nesso di questi
con il Tutto; qui (nella filosofia della compresenza) la constatazione della
insufficienza fa porre le aperture pratiche religiose alla compresenza.
Che questa critica di Hegel avesse tratti esistenzialistici, o meglio che
l'interpretazione di Hegel che Capitini aveva accolto (ed era del resto favorita
dalla forma che aveva assunto lo hegelismo in Italia) fosse particolarmente
vulnerabile in una prospettiva esistenzialistica, non mi par dubbio. Ma è da
notare ancora una volta che anche in questa fase egli non si ferma
all'esistenzialismo perché non ne accetta i tratti irrazionalistici.
Per quanto possa sembrare strano in un pensatore religioso come Capitini, la
critica di Hegel non lo conduce affatto a Kierkegaard ma gli fa ritrovare Kant.
Non è improbabile che ad attrarlo verso l'autore della Religione nei limiti
della sola ragione fosse stata la monografia kantiana di Martinetti, uscita
postuma nel 1947 , e che egli cita nella Compresenza .
All'opposto degli idealisti che avevano visto in Kant il primo anello
dell'idealismo tedesco, Martinetti aveva inseguito ed esposto in vari scritti
una sua interpretazione metafisica e religiosa dell'etica kantiana.
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L'interpretazione capitiniana di Kant si svolge nella stessa direzione, e se mai
con maggiore insistenza sulla dimensione religiosa, tanto da costituire uno dei
momenti culminanti e anche più originali del dialogo che Capitini tesse e
ritesse instancabilmente coi grandi filosofi.
Mentre Hegel fa discendere l'universale nel mondo e ve lo rinchiude, Kant ha
sempre lo sguardo volto all'altro mondo, al mondo noumenico, che è rivelato
all'uomo dal dovere morale. Certo con Hegel "Dio scendeva a toccare la terra e a
trasformare gli eventi". Ma:
pareva più religioso il Kant, il quale, pur con l'astrattezza e la lontananza e
la chiusura adialettica e ontologica del suo Dio, poteva...conservare il dramma
della realizzazione dell'assoluto come dovere, come valore, come aspirazione,
tensione.
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Oppure:
Il Kant, col suo non risolversi interamente nella storia, finiva per intravedere
una storia ulteriore, quando la destinazione umana...sia attuata sulla terra;
cioè intravedeva un concreto modo di essere del reale migliore del modo di
realizzarsi che appare attualmente.
E ancora:
Malgrado tanto hegelismo nell'aria, e nel nostro sangue, nelle strutture e nella
storia d'oggi, noi ci collochiamo in una situazione che è più simile a quella
del Kant: il Kant aveva davanti l'empirismo, e non si stancava di aggiungere
elementi formali, universali, intellegibili: noi, raggruppando le posizioni che
troviamo secondo la comune origine di posizione della "vita", di chi è vivente,
ci troviamo ad aggiungere la compresenza. Il risultato è che, mentre lo Hegel,
con il movimento dell'Idea giustificava l'evento, anche la morte, noi, con
l'aggiunta della prassi della compresenza (che è incondizionata), tendiamo a
trasformare l'evento, e quindi a vincere la morte.
Lo colpì una frase della Religione nei limiti della sola ragione che suona così:
Noi possiamo aver fiducia che, se noi fossimo o diventassimo un giorno
perfettamente ciò che dobbiamo essere e potremmo diventare (con una continua
approssimazione), la natura dovrebbe obbedire ai nostri desideri i quali però,
allora, non sarebbero, mai, insensati.
Vi vedeva quasi come un'anticipazione dell'idea che gli fu cara, della
trasformazione della realtà attraverso la libera "aggiunta". Spiegava:
Non è l'accettazione del mondo com'è (naturalismo), ma l'esigenza che il mondo
sia piegato, prima o poi, da noi o dall'opera altrui o insieme, ai nostri
desideri puri; noi diremmo: alla compresenza, che essendo realtà di tutti e
produzione del valore ci dà la garanzia di desideri puri, sani.
Malgrado questa interpretazione, che mette l'accento più sull'aspetto
etico-religioso che non su quello gnoseologico (preferito dagli idealisti) del
pensiero kantiano, restano tra Capitini e il "suo" Kant alcune differenze
fondamentali (e per questo il dovere di Kant è soltanto un'anticipazione
dell'aggiunta): il regno kantiano dei fini è pur sempre il regno degli esseri
razionali, non di tutti gli esseri viventi, compresi gli esseri non razionali;
viene rinviato ad un futuro puramente ideale e immaginario, mentre il persuaso
agisce sin d'ora, perché la natura in cui egli opera non è chiusa all'influenza
del valore, non esiste per lui un dualismo insuperabile tra mondo fenomenico e
mondo noumenico, che riproduce il vecchio dualismo teologico; infine Kant
accetta ancora del vecchio mondo teologico l'idea del giudizio ultimo dei buoni
e dei cattivi (cioè l'idea di un Dio di giustizia).
Non c'è nulla che Capitini respinga con maggiore forza di questa idea del
giudizio. La compresenza dei morti e dei viventi è la negazione del giudizio, e
quindi del Dio di giustizia:
La connessione a priori del destino dei vivi e dei morti nella compresenza
(creazione corale dei valori) fuga la tentazione di descrivere il trascendente e
di ristabilire i due piani al modo platonico, e sopprime la tentazione di
stabilire un giudizio, un merito distinto, secondo il modo di vedere
l'individuo, che è stato il punto di partenza greco-umanistico: l'ammettere una
infinita cooperazione con i morti fa saltar via il giudizio, e porta
l'escatologia qui veramente nella coralità del valore e nella possibilità della
trasformazione della natura.
Se si vuole, si può dire, con tutte le riserve fatte, che questo è il motivo
hegeliano di discesa dell'elemento ideale nel mondo, che viene realizzato con la
compresenza, ma non naturalisticamente, accettando l'evento della morte, bensì
escatologicamente, con indirizzo alla liberazione, alla trasformazione della
natura.
Kant ed Hegel stanno sullo sfondo. Ma il colloquio quotidiano è con Croce. Se
Gentile era, a Pisa, di casa, Croce era presente in ogni angolo della cultura
italiana. Non si poteva fare un passo senza incontrarlo. Erano gli anni in cui
Croce, ripiegato su sé stesso, ci incitava a credere, con l'opera e con
l'esempio, nelle "forze morali" che muovono la storia.
Ancora oggi non posso ripetere queste parole "le forze morali", che a un giovane
possono sembrare retoriche, senza provare un'emozione profonda. Dal modo con cui
Capitini discute e ridiscute in quasi tutte le sue opere i grandi temi della
filosofia crociana, le famose quattro categorie dello Spirito, il concetto di
vitalità, la distinzione fra giudizio storico e giudizio morale, la riduzione
dell'individuo all'opera, la catarsi del dramma umano nella poesia o nella
storia, si capisce benissimo che Croce era l'interlocutore privilegiato, il
maestro vivente.
A cominciare da un saggio del 1941 , dove, avendo contrapposto Croce (la
dialettica dei distinti) a Gentile (la dialettica degli opposti), si pone
decisamente dalla parte del primo e pur non esita a mettere in evidenza i limiti
pratico-politici (nell'ora che chiama alla responsabilità di un'azione concreta)
della posizione crociana di fronte alla storia.
Spiega che la conoscenza storica si chiude nell'Uno-Tutto che è "volontà di Dio,
forza delle cose, integrale corso storico, reale egemonia delle cose, unità
cosmica, corso del mondo" e che a una esigenza religiosa non basta una
concezione dialettica, perché "se la storia considera l'opera operata, la vita
religiosa, soprastoria e sottostoria che sia, volge un divino tu alla persona,
per una libera aggiunta, per un'iniziativa di più, che si alimenta anche della
continua e disciplinatrice esperienza dei valori". E conclude:
E allora la mia apertura d'animo ad una vecchia povera, dalla faccia magra e che
oramai ha appena il fiato per respirare, il mio interiorizzamento della sua
esistenza, che par da poco, può importarmi più che non lo stabilire la
positività dell'opera dei Gesuiti. |
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Anche l'opera di Capitini dunque, come quella di Gramsci, è un anti-Croce, ma
appunto in quanto tale non sarebbe stata quella che è stata senza l'antagonista.
Le ultime parole dell'ultima opera, la Compresenza, terminano con questa
contrapposizione:
Il Croce in un mondo greco-europeo ha affermato sopra gli schemi della filosofia
della storia, la perennità delle quattro categorie o valori dello Spirito...;
questo libro, sopra gli schemi della filosofia della storia presenta la
compresenza dei morti e dei viventi, realizzanti insieme valori e trasfornmanti
la realtà attuale.
Croce, da un lato; "questo libro" dall'altro: Croce e anti-Croce. Ciò che
affascina Capitini è, se non m'inganno, il senso meraviglioso che Croce ha della
grande fiumana della storia in cui sembra che nulla vada perduto. Ma sopravvive
soltanto l'opera. Non sopravvivono gli uomini, gl'individui singoli, piccole
particelle di un Tutto che li travolge.
"Il Croce - Aldo ripete spesso - dirà che la storia non può morire, ma i morti
sono ben morti". A volte la sua mente si volge contrapposizione a Kant, come in
questo passo:
Quell'elemento profondo e, si direbbe, materno per cui il tu è per l'individuo
compresente, indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue azioni, viene a
mancare nella concezione dello storicismo immanentistico e nella concezione
della trascendenza cattolica.
E per questo una vera e propria attenzione all'individuo manca in entrambi,
perché nella prima l'attenzione è per i prodotti storici, nella seconda per le
decisioni autoritarie di Dio. Che l'individuo sia nella compresenza non è
percepibile nell'esperienza, direbbe il Kant...Il Kant direbbe: col tuo atto
morale tu costituisci la persona, tua e altrui, come razionalità; che perciò
non è percepibile sensibilmente, non è cosa che si veda con gli occhi o si
tocchi con le mani.
Altre volte, a Leopardi:
La protesta per il passo della morte è più religiosa che la sua accettazione, e
il Leopardi è più religioso del Croce.... Il Croce è greco-europeo, perché la
civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori. Il Leopardi
comprende questi (le virtù), ma cerca gl'individui, e li vede morire, non li
trova più, sono i morti.
In un passo autobiografico estremamente pregnante, che, esaminato coi criteri
tradizionali della storiografia filosofica, potrebbe sembrare stravagante, si
definisce un kantiano-leopardiano:
Ero da molti anni un libero religioso, implicitamente un kantiano con una
prevalente attenzione alla "finitezza" dell'uomo, al suo dolore, alla incapacità
in cui egli si trova talvolta, in mezzo ad una civiltà attivistica, di operare e
di essere al livello degli altri, a causa della insufficienza fisica, della sua
malattia.
Ero un kantiano-leopardiano, umanitario e socialisteggiante (è noto che non sono
stato mai nel fascismo, pur avendolo visto nascere), prima di conoscere il Kant.
Nulla meglio di questo continuo trapasso dal concetto di un filosofo ad
un'intuizione di un poeta ci permette di capire che il passaggio dagli studi
letterari (Leopardi) agli studi filosofici (Kant) era avvenuto, come abbiamo
letto nella frase citata all'inizio, unicamente perché egli aveva sentito
l'esigenza di trovare una giustificazione teorica alla pratica di
libero-religioso.
Capitini non è un filosofo (e neppure un letterato): per usare la suo
autodefinizione, è un "persuaso". E un persuaso è prima di tutto un uomo in cui
l'impegno pratico prevale sull'impegno contemplativo.
Il filosofo è pur sempre un contemplante e lascia il mondo com'è; il persuaso è
tutto teso nell'azione, nella "prassi" (influenza di Marx?) che trasforma. o
tramuta il mondo: "L'apertura alla realtà liberata è soprattutto pratica...Intendere
che cosa è Dio non si può se non attraverso impegni pratici".
Di fronte all'inadeguatezza della realtà, filosofo è colui che ricorrendo a Dio,
o alla Storia, cerca di giustificarla e, se non può giustificarla, l'accetta. Il
persuaso opera per mutarla:
Davanti ad un semplice essere vivente, per esempio una piccola pianta, se
pensiamo all'Essere, sentiamo la sua inadeguatezza, la sua " limitatezza
metafisica ", e non possiamo fare altro; se tendiamo alla Prassi, abbiamo la
fiducia che nella realtà di tutti sia fondata anche la pianta, che essa sia
recuperata, abbia una sua destinazione, perché nell'apertura pratica pura c'è
anch'essa, e la Prassi non rischia il nulla perché la compresenza connette vivi
e morti.
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Il tema della prassi ci conduce al Capitini religioso, anzi religioso-politico,
su cui ho richiamato l'attenzione altra volta. Ancora un'osservazione se mai,
volendo restare nel tema che mi è stato assegnato, sul rapporto di Capitini col
marxismo (intendo il marxismo come filosofia, come visione del mondo).
Non si può dire che Capitini sia stato uno studioso di Marx, anche se Marx viene
spesso citato nelle sue opere (quantunque meno di Hegel o di Kant o di Croce);
ma anche lui, come tutti coloro che hanno partecipato al rinnovamento culturale
italiano dopo la liberazione, non ha potuto fare a meno di prendere posizione di
fronte al marxismo. |
Questa posizione non è molto diversa da quella che egli assunse di fronte alla
filosofia dell'immanenza in genere, e di fronte all'hegelismo in ispecie, di cui
il marxismo è sempre stato considerato nella tradizione filosofica
dell'idealismo italiano una discendenza.
Anche il marxismo ha il merito di far discendere Dio nel mondo; anzi, con il
particolare rilievo dato ai bisogni materiali dell'uomo (a quello che per Croce
era il valore economico o della vitalità), ha condotto più a fondo di tutte le
altre filosofie immanentistiche il processo dell'immanenza: "Nel marxismo
l'umanesimo laico fa un poderoso sforzo ulteriore, vista l'insufficienza della
soluzione dello storicismo idealistico".
Il marxismo, in quanto materialismo, è immanentismo radicale. E, solo in quanto
immanentismo radicale, riesce a porre le premesse, attraverso l'eliminazione
della proprietà privata, perpetua generatrice del dominio e dell'oppressione dei
pochi sui molti, per far fare "uno scatto in avanti" al processo di liberazione
dell'uomo.
Però, anche il marxismo è pur sempre soltanto un umanesimo. Manca ad esso, come
a tutti gli umanesimi precedenti, da Hegel a Croce, la tensione religiosa. Solo
così si spiega che possa riporre la speranza di salvezza in una classe
economica, che, per quanto costituisca la grande maggioranza degli uomini, non
rappresenta tutta intera l'umanità.
Per il persuaso religioso "oppresso è un salariato, ma oppresso, in questa
realtà di fatti, è anche il condannato alla pena capitale, il nato cieco, il
morto". Come umanesimo, il marxismo resta nei limiti della storicismo, e dell'hegelismo:
è un hegelismo condotto alle sue estreme conseguenze, ma è pur sempre hegelismo.
I proletari prenderanno il potere tenuto dai borghesi; ma lo eserciteranno come
lo esercitavano i borghesi, con gli stessi modi di governo? Questo è ciò che
unisce hegeliani e marxisti, malgrado le polemiche interne. Lo Hegel doveva
aspettarsi questa utilizzazione estremamente realistica del suo "spirito"; ma
poteva anche esser certo che uno stato sorto su questa utilizzazione realistica
non si sarebbe molto diversificato dallo stato sorto sul suo modo d'intendere lo
Spirito.
Anche rispetto al marxismo dunque l'atteggiamento di Capitini è, come nei
riguardi di tutte le altre filosofie immanentistiche, un atteggiamento di
accettazione e di rifiuto insieme. Anche il marxismo ha bisogno dell'"aggiunta"
religiosa:
La religione aperta si aggiunge all'umanesimo rivoluzionario da una posizione
post-umanistica, ma proprio ne rende possibile la realizzazione.
Un'ultima considerazione: se per filosofia s'intende non soltanto il sistema
(che Capitini non ebbe e non si sforzò di avere) ma una visione del mondo,
ritengo che per capire la visione del mondo capitiniana non basti risalire alle
sue fonti filosofiche, rileggere i suoi autori, ma occorra entrare dentro la sua
esperienza, cogliere le fonti vitali, non libresche, del suo pensiero. Egli
stesso disse:
Se la cultura mi giovò..., sono certo che anche senza cultura sarei arrivato ai
punti essenziali della mia persuasione religiosa...sapere della guerra,
conoscere direttamente il dolore e insistentemente, soffrire l'esaurimento,
l'insonnia, la fragilità fisica, sperimentare il male morale, non accettare la
violenza, interessarsi ai singoli, vivere in povertà, tendere ad associarsi per
lottare politicamente, sono cose che possono essere anche in una persona senza
speciale cultura, e loro mi hanno condotto ad una vita religiosa.
Le filosofie gli offrirono strumenti concettuali per esporre le proprie idee per
entro una società che accetta le idee soltanto se sono presentate in una certa
forma, con un certo linguaggio. Ma per capire i contenuti di quelle forme, è
forse più utile cogliere da alcuni cenni autobiografici, dalle opere poetiche,
il suo modo fondamentale di porsi di fronte al mondo, che era quello di stare
dalla parte dei "dannati della terra", di coloro che chiamava di volta in volta,
con fantasia linguistica inesauribile, gli "sfiniti", i "sofferenti", gli
"stanchi", gli "stroncati", i "languenti", gli "annullati", i "dimezzati", i
"lontani", gli "ultimi", i "torturati", gli "scomparsi", i "colpiti dal mondo".
Io stesso ho capito meglio che cosa significasse "compresenza" allorché mi
imbattei in questo passo:
... quando si è in un cimitero non si vorrebbe restare custode di una tomba
soltanto, anche se di persona stata a noi carissima; perché vorremmo essere
custodi di tutte, leggere le altre epigrafi, mandare un sorriso ad ogni
giacente; e ogni osso tratto su dalla terra e dalle casse disfatte, ci è caro,
un oggetto lasciato, che si direbbe anonimo, ma fu di essere umano singolo e con
un nome.
Ho creduto di capire che la compresenza era per Capitini qualche cosa come la
resurrezione dei morti, non rinviata a un tempo metastorico, ma vissuta, attuata
nel presente: intesa la resurrezione dei morti come trasformazione non solo
della società ma anche della natura.
Nell'ultima lettera che mi scrisse (del 28 settembre 1966) in risposta ad alcune
mie osservazioni sulla Compresenza, allora uscita, diceva:
Si tratta di non concepire il realizzarsi della natura così com'è compresa la
morte, come una categoria immodificabile, così come il Marx ha detto che il
mondo economico del profitto non è immodificabile.
In un altro punto precisava:
La prassi non è essa sola la distinzione tra compresenza e storicismo, ma oltre
la prassi c'è un diverso concetto di essere. E' il punto che sto studiando da
mesi. Mi pare di essere sulla via di chiarirlo.
Dalla lettura dell'ultima opera e dagli accenni di questa lettera trassi
l'impressione che Aldo avrebbe voluto continuare ad approfondire filosoficamente
il suo pensiero. Anzi forse di lì sarebbe cominciata la sua migliore stagione
filosofica. Ma la morte la interruppe.
Qui ho cercato soltanto di mettere insieme frammenti di un disegno rimasto
incompiuto e di collocarli nel quadro più ampio della cultura filosofica di
quegli anni: un modo di rivivere insieme con noi la sua esperienza, o almeno una
parte della sua esperienza, e attuare così in concreto, anche solo per un
momento, la "compresenza".
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