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Nonviolenza attiva

 

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A. Capitini - La nonviolenza attiva

a cura di LANFRANCO MENCARONI

A. Capitini A. Capitini A. Capitini

L'adesione di Aldo Capitini alla teoria e alla pratica della nonviolenza maturò nel decennio tra il 1920 e il 1930.

Indignato per l'esaltazione e l'ostentazione della violenza da parte dei fascisti e per la benedizione che a quella violenza veniva data dalla chiesa cattolica con il Concordato del '29, Aldo Capitini fece due scelte fondamentali alle quali rimase coerente per tutta la vita:

la prima fu l'impegno a realizzare in Italia una riforma religiosa che permettesse alla nostra società di comprendere e superare sia l'insufficienza religiosa della chiesa e dei suoi dogmi che l'autoritarismo della gerarchia cattolica con le sue strutture rigidissime e con il suo comportamento violento e conservatore nella storia passata e presente.

la seconda scelta fu quella della nonviolenza come apertura religiosa alla umanità, come rifiuto della insufficienza e della violenza del mondo, come modello di comportamento nella vita privata, pubblica e politica.

Da quel tempo gli avvenimenti della storia hanno sempre relegato Capitini nel ruolo di minoranza, perseguitato dalla destra, molto onorato dalla sinistra ma da questa anche poco sostenuto nei due impegni sopra accennati che gli stavano a cuore: la riforma religiosa e la nonviolenza attiva.

Tuttavia, mentre il tema della riforma religiosa in Italia, come la pensava Capitini, non è stato raccolto dalla cultura e dalla società italiana dopo la sua morte, il tema della nonviolenza attiva, emerso con Gandhi agli inizi del '900 e fatto proprio da Capitini, si è imposto all'attenzione e alla riflessione mondiale.

Gran parte del merito va a quei processi che, nel nostro secolo, hanno spinto alla partecipazione politica, dopo millenni di esclusione, le sterminate moltitudini dei cinque continenti, sia con la fondazione e la crescita dei grandi sindacati e dei grandi partiti, sia con il coinvolgimento dei fedeli in quanto tali di molte religioni: coinvolgimento abbastanza inedito, spesso periferico, talvolta autonomo, in rapida crescita negli spazi offerti dai ritardi e dalla insufficiente iniziativa delle organizzazioni sindacali e politiche.

Davanti a così grandi novità, è diritto e dovere di coloro che si richiamano alla sinistra politica in tutto i paesi prendere posizione su di un tema che si dimostra sempre più legato agli urgenti problemi del mondo contemporaneo.

Sul valore etico della nonviolenza riteniamo che non ci sia bisogno di molti argomenti: la testimonianza ideale e pratica di Aldo Capitini è un punto di riferimento di qualità e dimensione internazionali. Fummo convinti della sincerità di papa Woitila quando si recò ad esprimere la sua ammirazione e la sua approvazione davanti alla tomba di Gandhi, ma non possiamo non ricordare con orgoglio quel piccolo perugino che nei lontani anni 30, di fronte ai gagliardetti fascisti benedetti da molti sacerdoti, non ebbe bisogno di recarsi in India per convincersi dei valori della nonviolenza e proclamarne l'importanza spirituale e politica.

Per quello che riguarda la nonviolenza attiva è storia ormai che il problema e i modi del passaggio dalle convinzioni personali alla pratica politica e collettiva sono stati affrontati per la prima volta da Gandhi, in Sud-Africa nei primi anni del secolo e in India dal 1917 al '47. Prima di allora la nonviolenza era stata, nelle singole persone, una scelta religiosa o filosofica; a livello collettivo, una componente di alcune religioni orientali, tranne l'Islam.

In occidente l'impiego più consistente e fruttuoso della nonviolenza si è avuto nel movimento dei primi cristiani, illuminato da gloriosi esempi di martirio, come quello di Massimiliano, il primo obiettore di coscienza.

Il compromesso che intervenne tra potere politico e cristianesimo al tempo di Costantino ha condizionato, nei successivi diciotto secoli, la riflessione dei pensatori cristiani sulla nonviolenza e ha fortemente influenzato l'orientamento dei pensatori laici.

Perugia - Cattedrale di S. Lorenzo

In venti secoli, tra i cattolici, solo Francesco d'Assisi e i suoi primi seguaci si sono posti coerentemente davanti al problema della nonviolenza; e non a caso i francescani sono oggi molto attivi sul terreno della lotta per la pace.

Solo piccoli gruppi fra i protestanti, i più noti dei quali sono i quaccheri, si sono caratterizzati per una scelta di nonviolenza.

Nella cultura occidentale, la violenza è stata spesso accettata, senza certezza scientifica, come fatto naturale, dimenticando, fra l'altro, l'importanza fondamentale della cooperazione pacifica tra gli individui per lo sviluppo dell'umanità.

Nei tempi moderni, molti filosofi e politici, sulla scia di Lutero, hanno distinto tra la violenza individuale, da condannare, e quella statale o collettiva, da accettare per l'interesse del gruppo.

Il movimento socialista e comunista, pur dichiarando la sua avversione alla violenza, l'ha sempre giustificata come necessaria risposta alla violenza dello stato capitalista. Riflessioni teoriche come quella sullo sciopero generale rivoluzionario sono rimaste sterili, mentre la corrente riformista non ha mai sperimentato le tecniche nonviolente per la costruzione del socialismo, compromettendosi invece molto spesso con le guerre coloniali e imperialiste.

Queste radici "occidentali" hanno impedito finora alla sinistra una conseguente riflessione sulla nonviolenza, almeno in campo politico, giacché in quello sindacale, per ragioni di ovvia opportunità, le tecniche nonviolente sono state sempre la prima scelta.

In politica invece la ferocia delle repressioni messe in atto dai detentori del potere sulle più pacifiche rivendicazioni e manifestazioni popolari, la loro arroganza nei rapporti umani ha ostacolato tra gli oppressi la discussione sia sull'uso della violenza sia sulle conseguenze di questo uso.

Inoltre, come abbiamo accennato, è mancata in Europa, o si è espressa a livelli ambigui e inadeguati, l'aggiunta religiosa e spirituale alle lotte operaie, sindacali, popolari, per il costante schieramento delle varie chiese dalla parte della cultura e del potere dominanti.

Soltanto oggi, con gli esempi dell'America Latina, della Polonia, delle Filippine, ci rendiamo conto di come avrebbero potuto essere diversi, più complessi e forse meno tragici, gli eventi provocati dall'irruzione delle masse popolari sulla scena politica europea se accanto alla guida laica e marxista avessero avuto quella della religione e delle sue chiese. Ipotesi che Aldo Capitini intuì e spiegò esaurientemente, anticipando buona parte delle analisi e delle idee che vennero riproposte nell'ambito della cosidetta "teologia della liberazione".

Perugia - Il municipio

La riflessione e la critica sul passato comportamento storico che hanno investito in questi ultimi anni anche la chiesa cattolica sono un fatto nuovo, sul quale la sinistra deve porre attenzione e del quale si deve rallegrare per aver essa contribuito in maniera determinante alla sua esplosione.

Il desiderio e il bisogno di libertà e di giustizia, portati avanti e dappertutto dalla sinistra, anche se sono stati contraddetti dall'esercizio del potere nei paesi dove l'ha conquistato, hanno tuttavia reagito con le situazioni e le culture locali, hanno favorito la sprovincializzazione del mondo e l'apertura fra gli abitanti della terra, hanno provocato eventi culturali e politici nuovi, spesso non controllabili e ancora non valutabili a fondo.

Ben vengano quindi l'autocritica e la ricerca in campo religioso, ma riteniamo che, in quest'ambito, sia giunto il momento, anche per i movimenti popolari e di sinistra, di affrontare la questione della nonviolenza attiva.

Siamo usciti da un secolo di profondi sconvolgimenti politici e tecnologici; abbiamo alle spalle centinaia di milioni di morti in guerre, rivoluzioni, controrivoluzioni, repressioni. Questo gran numero di vittime è dovuto a due circostanze nuove: all'arrivo nella politica attiva di miliardi di esclusi, promosso in larga misura dalle grandi organizzazioni popolari e favorito dallo sviluppo delle comunicazioni, e in secondo luogo alla moltiplicazione delle armi, sempre più distruttive e con un mercato in piena espansione.

La violenza che ha accompagnato le grandi rivoluzioni sociali e le grandi lotte di liberazione nazionale è stata sempre accettata, tollerata, esorcizzata dalla sinistra: la realtà l'ha contraddetta e là dove ha preso il potere, sottraendo la gente ai vecchi oppressori, sia la sinistra che le nuove classi dirigenti dei paesi ex coloniali non sono riusciti a liberare le donne e gli uomini dalle vecchie regole di sopraffazione del potere.

Oggi è stata quasi ovunque rifiutata, dai popoli che l'avevano accolta, la gestione del potere di quella parte della sinistra, autodefinitasi marxista e rivoluzionaria, sperimentata in molti paesi del mondo negli ultimi 70 anni.

Questa esperienza, mentre da un lato, contro i tentativi di revisionismo anche monarchico, fa ribadire fermamente la necessità di trasformazione della società precedente, ingiusta e violenta, dall'altro costringe a riflettere e a prendere posizione sull'influenza dei metodi di lotta da adottare nella costruzione dell'ordine nuovo che si vuole sostituire al vecchio.

Questa riflessione convince oggi molti a ritenere utile e doverosa una scelta di nonviolenza attiva per conseguire gli obiettivi della sinistra, volti a migliorare e trasformare il mondo.

Non è una scelta inficiata dalla codardia, perché tutti gli esempi stanno a dimostrare che le tecniche nonviolente richiedono fermezza e coraggio: basti ricordare i comportamenti e la morte di Gandhi stesso, la coerenza e l'inflessibilità del nostro Capitini, il coraggio delle madri di Plaza de Mayo in Argentina, il sacrificio di Martin Luther King.

Non è una risposta opportunista verso i portavoce delle classi dirigenti, che ogni giorno chiedono nuove garanzie alla sinistra per accettarla come alternanza al potere: sappiamo bene come l'unica garanzia che preme agli attuali detentori del potere consiste nell'impegno a non cambiare l'assetto della loro società.

Non è possibile rassicurarli perché, al contrario, la scelta nonviolenta nasce dal rifiuto di questa società in cui la vita di milioni di persone è sottoposta tutti i giorni alla violenza pubblica e privata che ci fa sentire insicuri e indifesi nelle abitazioni, sulle strade, nei luoghi pubblici e nei luoghi più appartati, negli uffici davanti alla burocrazia, nei servizi come utenti, nei posti di lavoro come dipendenti, davanti alla radio e alla televisione come oggetti di condizionamento consumistico o di eccitazione spettacolare, nei luoghi di cura e in quelli di riposo, nelle famiglie se si è bambini o donne o vecchi, nell'ambiente degradato dalla speculazione, nell'alimentazione inquinata dalla frode, nei rapporti umani quando si è deboli, malati, ignoranti o solo timidi, nella società se si è donna, tra i bianchi se si è neri, al nord se si viene dal sud del mondo.

Questa scelta infine non è proposta come semplice accorgimento tattico, anche se non ci sarebbe nulla di riduttivo in questa motivazione: lo stesso Gandhi ammetteva che la maggioranza degli indiani aveva accettato la lotta nonviolenta per tattica, davanti allo strapotere militare degli inglesi.

Perugia - Il corso

E la scelta tattica sarebbe più che giustificata dalla constatazione che nel mondo contemporaneo l'uso delle armi è improponibile per gli immensi danni materiali e morali che sicuramente l'accompagnano.

Più che per ragioni tattiche, tuttavia, è improponibile l'uso della violenza per le ragioni cui accennavamo prima e cioè per la difficoltà a conquistare e coinvolgere, passati i giorni dell'ira collettiva, quella maggioranza dei consensi in grado di costruire il potere di tutti, vale a dire un rapporto profondo, dinamico, democratico tra governanti e governati.

Una scelta dunque non codarda né opportunistica è quella della nonviolenza attiva.

La grande ondata di violenza, che si è abbattuta sull'Europa e sul mondo dal 1914 ai nostri giorni, ha raggiunto il massimo della diffusione e dell'intensità, e insieme ai fenomeni di imitazione comincia per fortuna a provocare fenomeni di rigetto, che coinvolgono con varie motivazioni, in qualche caso anche pericolosamente antidemocratiche, gruppi di persone sempre più numerosi in tutti i paesi della terra, in tutti gli strati sociali, a partire dalle moltitudini affamate del terzo mondo fino a tanti giovani in cerca di un significato per la loro vita.

Il rigetto della violenza in questi gruppi e in queste persone ha, fra le altre, anche queste motivazioni:

1) L'angoscia provocata dalla coabitazione con gli arsenali nucleari, capaci di polverizzare il globo.

2) Il disgusto per la cieca irrazionalità del terrorismo e l'intuizione dei torbidi interessi che lo manovrano.

3) Il disgusto per la ferocia delle guerre locali, civili e etniche, non più condizionate dalla presenza dei blocchi contrapposti.

4) Il disgusto e l'ansia che ci accompagnano nella vita quotidiana per i motivi e nei luoghi prima accennati.

Questo movimento di ribellione alla violenza cerca e trova risposte in molte sedi, soprattutto religiose, spesso estranee alla sinistra.

Capitini parlava di realtà di tutti in ambito religioso, di compresenza dei morti e dei viventi, che per lui è la presenza di Dio, che realizziamo nella produzione dei valori e che ci aiuta a superare la realtà ingiusta e violenta.

I partiti della sinistra, i sindacati, le cooperative hanno portato più avanti di tutti in Italia la partecipazione delle grandi masse alla cosa pubblica, sia per difendere i diritti della persona sia per accedere al benessere economico e alla crescita culturale.

Perugia - S. Pietro

Ma la critica che l'intuizione religiosa di Capitini ha sempre rivolto alla sinistra, di contare soltanto o soprattutto sugli efficienti, non tenendo conto degli innumerevoli esclusi, di quelli che egli chiamava volta a volta gli sfiniti, i sofferenti, gli stanchi, gli stroncati, i languenti, gli annullati, i dimezzati, i lontani, gli ultimi, i torturati, gli scomparsi, i colpiti dal mondo, questa critica è sostanzialmente giusta: aggravata, diremmo, dall'accettazione passiva del modello americano, centrato sull'esaltazione del tipo superefficiente, giovanile, aitante, pieno di salute, brillante, sicuro di sé, irridente ai deboli, con il conseguente e famigerato slogan sui poveri che sono poveri perché sono stupidi.

Ecco, la scelta nonviolenta serve anche a cancellare la barriera tra la solitudine degli esclusi e i suddetti efficienti, perché le tecniche della nonviolenza hanno bisogno, per riuscire vittoriose, di tutti, compresi gli esclusi, e possono dare a tutti gli emarginati una dignità e una autocoscienza utili sia in politica che negli altri momenti della vita.

L'espressione più valida del potere di tutti, indicata nel controllo dal basso, è un'occasione riservata innanzitutto ai più deboli, che per suo mezzo hanno la possibilità e la opportunità di difendersi dall'incomprensione e dalle angherie dei superefficienti.

Anche in campo economico e sociale, nello scontro fra i sostenitori dello statalismo e del liberismo nella produzione e nella società, la proposta nonviolenta e liberalsocialista di Capitini è la più accettabile con la incentivazione e la salvaguardia della libera iniziativa, con la difesa dei diritti dei cittadini, con la tutela e l'assistenza a chi è debole per qualsiasi ragione e in qualsiasi periodo della sua vita.

Capitini sostiene la massima libertà per gli esseri umani in tutti i campi, compreso quello della produzione, ma nello stesso tempo il massimo controllo dal basso esercitato da tutti i cittadini attraverso i loro organismi di base e dallo stato con le sue leggi e i suoi tecnici, a tutela della qualità della produzione, dei diritti civili e della sicurezza sul lavoro, della difesa dell'ambiente, del diritto all'istruzione e all'assistenza sanitaria proporzionali al reddito, del sostegno pubblico ai malati gravi e ai disoccupati senza altri redditi.

La scelta nonviolenta incide profondamente anche nell'atteggiamento verso i problemi internazionali, dove la lotta per il disarmo e contro la fame vede uniti movimenti popolari e religiosi e dove l'impegno per la costruzione di rapporti nuovi e solidali tra i popoli, le nazioni e gli stati offre alla sinistra l'opportunità di ricollegarsi alle sue gloriose radici.

La riflessione, centrale in Capitini, sullo storico e necessario incontro fra cultura orientale e pensiero occidentale, tra religione e ragione, tra collettivizzazione e libera iniziativa può aprire la via alla comprensione e alla soluzione di problemi insolubili con altri punti di vista.

Molte volte amici dei palestinesi e degli israeliani ci hanno invitato a riflettere sulla angosciosa situazione di due piccoli popoli di razza affine che, in ostaggio agli interessi regionali delle grandi potenze, sono stati istigati a odiarsi, a uccidersi o ad avere come prospettiva meno peggiore quella di costituire in un fazzoletto di terra due stati con due governi, due eserciti, due economie, doppi ministeri, doppie ambasciate, doppie amministrazioni, doppi ospedali ecc. ecc.

Mentre, dicevano gli amici, sarebbe bastato liberarsi degli interessati protettori per vivere e lavorare insieme senza altri problemi di quelli, immensi, che la natura e la vita ci pongono ogni giorno sul cammino, come ci rammenta il Leopardi della "Ginestra".

Perugia - Fontana Maggiore

Arafat, per la verità, in una intervista riportata dall'"Unità" del 26/4/87, sembrava avviato su questa strada nonviolenta quando offriva agli Israeliani una trattativa per creare, in Palestina, un solo Stato democratico binazionale come il Canadà.

La miopia della sinistra e la sua sordità alle soluzioni nonviolente ha impedito finora di far sua questa proposta e di farla appoggiare dallo schieramento progressista mondiale, che potrebbe diventare il garante della nazione palestinese, la più debole all'interno di uno stato binazionale.

Questo è solo un esempio del modo diverso con cui la nonviolenza attiva dovrebbe affrontare le crisi del mondo.

Ci sono e ci saranno in seno all'umanità situazioni simili al conflitto arabo-israeliano.

La presenza della bomba atomica, la impossibilità di cancellare la sua realtà tecnologica ci costringono oggi a lavorare sul serio non solo per distruggere le bombe esistenti e purtroppo ricostruibili, ma per superare tutti insieme le cause della guerra, dei conflitti armati tra i popoli della terra.

Più in là di Leopardi, Capitini ci spronava a non accettare la realtà crudele, violenta e oppressiva.

Parlava in anni in cui non si possedevano come oggi le risorse economiche, tecnologiche, scientifiche, mediche, culturali capaci di fornire all'umanità i mezzi per cambiare sul serio la realtà: oggi abbiamo l'occasione di farlo e di aprire vie nuove e sconosciute.

Non ci illudiamo per altro sulla nostra capacità di costruire una società perfetta: siamo vaccinati dall'esperienza e siamo consapevoli che una volta risolte le attuali, altre contraddizioni si presenteranno al genere umano.

In attesa di quelle, tuttavia, cerchiamo di risolvere le contraddizioni odierne, rifiutando ogni intolleranza, contrastando la violenza, realizzando i valori in cui ci siamo sempre riconosciuti.

perugia - Panorama

 

LANFRANCO MENCARONI

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