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E’ possibile rintracciare in quasi tutta la sua produzione, riferimenti
specifici e costanti al territorio. Quest'ultimo è come la filigrana di
tutta la sua esperienza: è da qui che egli guarda il mondo alla ricerca
continua delle soluzioni ai problemi che travagliano le aree depresse del
Mezzogiorno d'Italia, del profondo Sud della Sicilia, dove operava. Qui,
grazie alla sua opera, incontriamo i luoghi fisici, propri della sua azione,
come la diga sul fiume Jato, il Centro di Mirto col suo bellissimo
anfiteatro, palazzo Scalia, dove trascorreva le sue giornate di studio e
dove si materializzò l'idea della prima radio libera d'Italia, il 'Borgo di
Dio', Trappeto, col suo porto e i suoi marinai, Portella della Ginestra che
evocava in lui le tragedie provocate dalle deformazioni del potere. Opere
tutte che nel loro insieme possiamo considerare come realizzazioni di un
grande progetto culturale. Perché - occorre sempre sottolinearlo- Dolci non
fu mai un intellettuale "separato", aulico o accademico. In lui letteratura,
società e impegno capace di produrre mutamenti, non sono mai stati scissi.
Le opere nelle quali il nesso tra territorio e arte è più stretto sono diverse: dai "Racconti siciliani", alle "Conversazioni contadine", da "Il limone lunare" al "Poema umano" e "Palpitare di nessi". Esse, traggono tutte dal territorio, dai suoi abitanti, dal suo ambiente umano e paesaggistico la loro originale ispirazione. |
Nei "Racconti" l'autore fa parlare la gente comune dando voce ai sogni e alla disperazione, alla miseria e all'ansia di riscatto sociale. L'opera - scriveva annotando la terza edizione torinese di Einaudi (1974) - comprende alcuni racconti significativi, già raccolti tra il 1952 e il 1960 "tra la povera gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo" e già apparsi in "Banditi a Partinico", "Spreco", e "Inchiesta a Palermo". "Ho scelto - aggiungeva - i meglio leggibili badando a non sforbiciare liricizzando, temendo soprattutto che la scoperta critica, il fondo delle reazioni di chi legge rischino di dissolversi in godimento estetico; tanto sono espressive, belle direi, alcune di queste voci, nel lumeggiare dal di dentro i loro problemi". Si possono così leggere i racconti dei "banditi", dei raccoglitori di verdura, di guaritori e maghe, di sindacalisti, di ammalati alle prese con la Mutua, con la fame e con la mancanza di lavoro; storie della guerra e del dopoguerra, di contadini che non ce la fanno e se la prendono col mulo e con la moglie, di donne disperate, di violenze subite. Sono storie di diritti negati, di felicità rubate, di leggi inapplicate, come quelle sulla riforma agraria che spinsero i braccianti senza terra all'occupazione dei latifondi incolti difesi dalla mafia.
Attraverso questi racconti Dolci riviveva dalla parte dei perdenti le loro storie, ne coglieva le ansie di riscatto, i legami che univano il profondo sud col resto del mondo. Perciò non è inutile rilevare il senso e la prospettiva delle sue inchieste nella Valle dello Jato dentro una visione ampia dei problemi del Terzo Mondo, come si può riscontrare leggendo, ad esempio, "Verso un mondo nuovo", e cioè il resoconto dei suoi viaggi in Senegal, in Ghana, o nella ex Jugoslavia. Dentro questa prospettiva acquistano un significato inedito le liriche del "Poema per la radio dei poveri cristi" pubblicate da Laterza sotto il titolo del più volte citato "Il limone lunare". Si tratta di una silloge di testi poetici scritti per "dare voce a chi non ha voce". Ma questa volta non sono solo i diretti protagonisti a parlare.
In zone come la Sicilia occidentale - scriveva Dolci nella
premessa alla raccolta- non sono i giornali i più naturali mezzi di
comunicazione: pochi ne vengono letti, ancora meno capiti e creduti. Comunica,
quando comunica, soprattutto la voce, anche quella della radio.
Ma la radio ha un difetto che non agevolmente si può superare. E' a freccia
unica: da una parte sempre si parla, dall'altra c'è chi sempre ascolta. E'
dunque necessario riuscire a far esprimere la gente, riuscire ad esprimere anche
quanto è più profondamente intimo, come muto; e nello stesso tempo promuovere un
dialogo, aprire un rapporto dialettico. Quando una cultura si chiude, se
mitizzata o per altro, muore. A queste esigenze ho cercato di rispondere nelle
poesie qui pubblicate, per essere inteso da gente che spesso si esprime per
proverbi, in inconscie misure, ed in una lingua che spesso è insieme classica e
dialettale; e possibilmente da altri, altrove nel mondo.
L'esperimento durò poco perché "Radio libera" (1970), a poche ore di distanza dall'inizio delle trasmissioni, fu bloccata dall'irruzione di un centinaio di carabinieri e guardie di pubblica sicurezza che in pochi minuti si impadronirono delle trasmittenti. Non si tratta di ansie solipsistiche:
Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,
l'acqua, il pane, la terra,
son diventati le parole mie:
son cresciuto inventandoli.
E subito compare la Valle, con la sua storia e le sue risorse condensate in
pochi versi:
Quasi sta in uno sguardo,
dai monti attorno alla pianura, al mare,
tutta la valle che verrà irrigata
dall'acqua della diga.
A osservare dall'alto non si vedono
schiene curve sudate tra le vigne
a migliaia e migliaia, mentre pochi
ruffiani impoltronati nei caffè
guadagnano milioni sorridendo.
A guardare dall'alto non si pensa
- respiri aria pulita, dai paesi
vien l'odore di un pane ancora pane;
e il mare non è fogna, senza vento
è ancora mare terso, vi traspaiono
il guizzare dei pesci e le alghe verdi,
e l'odore è di mare -, non si pensa
che se altrove arrivava uno da qui
si vergognava di dire che terra
era la sua: tanto era nominata
per banditi, o mafiosi, o i suoi politici
insigni esperti di parole e intrighi.
Seguono le storie in versi di 'Zu' Ambrogio', il marinaio di
Trappeto che racconta le sue avventure per i mari del mondo fino all'Alasca,
memorie di antichi stornelli e canti popolari, elegie di un mondo sano, integro,
ricco di bellezze naturali, di risorse umane fatte di semplici valori, delle
povere cose di ogni giorno. Così Danilo canta il mare, la terra, le vigne, gli
olivi e i campi di grano, gli alberi della Valle:
Ai platani la pelle si accartoccia Scoprendo chiazze bianche, profumatissimi eucalipteti, fungosi querceti, i tronchi candidi delle betulle sono lisci alle dita. Scivolose pinete- Pini coi fiocchi estremi quasi azzurri Pini a cui penduli Gli aghi dondolano sui rami teneri, pini coi lunghi aghi dai rami radi alzati a candelabri nuovi ad uno ad uno, braccia legnose protese in verdi mani, aghi corti sui rami dei rami fiocchi di spruzzi, fissi, verdi spruzzi aperti nell'aria con la gocciola ancora in cima. |
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Canta la gioia e la freschezza delle piccole cose semplici dei poveri, come
nella poesia I balconi del Corso, spogli sono, dove l'aridità dei palazzi è
messa a confronto con la semplicità e la ricchezza affettiva delle case dei
poveri:
Se appena arrivi
In un quartiere di poveri cristi,
un balconcino è colmo di gerani
di quelli rossi che appena li cogli
dalla riva di un fosso e li trapianti
si afferrano e fioriscono;
dalle graste affollate sulla soglia
di un finestrino, verdi
si sporgono rametti di basilico.
A molti che non possono fabbricarsi
La stanza al piano sopra,
sulle canne intrecciate
gerani rosa e viola, due garofani
in alto
alla gioia di tutti, e che nessuno
li tocchi-,
nelle scatole ruggini svuotate
dalle sarde salate, a poco a poco;
o dalla strada ancora dissestata
cresce la vite a pergola
che gira attorno fino sotto il tetto;
o il gelsomino robusto si arrampica
tutto attorno alla porta e nelle sere
d'estate, tutta la strada profuma.
Il vissuto lirico affonda nell'esperienza viva del territorio, in un progetto che è al contempo poetico e politico:
Ci domandano spesso
Cosa vogliamo per le nostre valli.
Non vogliamo
Che i fiumi si disperdano nel mare
E le montagne aride si erodano,
rimanendo allagati ad ogni piovasco.
Non vogliamo
Case insicure, senza respiro,
scuole-galere tra mura decrepite,
né fontane con quattro pisciatelle
né le piante in museo, in tre giardini
per la domenica.
Non vogliamo
Restare inerti, o non valorizzati,
o andare a venderci dispersi altrove
(senza comprendere a che ci si vende e a quale prezzo),
sprecare vite in traffici fessi
seppure con le macchine elettroniche,
farci fessi sorbendo altre reclam.
Vogliamo
Valorizzando tutto il nostro impegno
Le vallate perennemente verdi,
foreste ombrose crescere dai monti
sui vasti laghi dalle nuove dighe
mentre il mare rimane ancora mare
e sulle spiagge luccica la sabbia.
Case nel verde
Che respirino cielo pulito.
Per New York e Milano è troppo tardi.
Vogliamo una nuova città
Dove la gente impari a farsi i piani -
Farseli come persuade a ciascuno,
umili, aperti,
non rinunciando a quanto conosciamo:
con l'effettiva possibilità
di parlarci, d'intenderci
di sviluppare la nostra cultura
in rapporto con la gente più saggia
e coraggiosa al mondo, vivi e morti.
E acque democratiche vogliamo
e come l'acqua ogni fonte di vita
non di mafia, dirette dalla gente
organizzata in nuove iniziative:
consorzi non fascisti
cooperative e sindacati aperti
nuove forme di collaborazione,
affrontando i conflitti necessari
non da fiere, da uomini coscienti.
Vogliamo materiale da museo
i mafiosi e i residui parassiti,
memorie antiche di un tempo incredibile.
"La poesia, che inventa ed elabora il futuro, è per Dolci, la
più alta forma di speranza e di scelta. La sua poesia ha fecondato l’andamento
‘esponenziale’ insito nell’evoluzione culturale; ci ha fatto considerare la
possibilità "ad altro esistere", al cambiamento, all’inverarsi delle
alternative. Le immagini di questa vasta costruzione sono tutte visibili nella
Valle dello Jato" (citazione di una nota del gruppo maieutico toscano).
Nella concezione di una letteratura aperta all'etica Dolci si incontra con i
grandi interrogativi sull'uomo nei primi anni '60 intervenendo al Congresso
internazionale dei resistenti alla guerra, tenutosi a Stavanger, in Norvegia,
nel luglio 1963. Nella sua relazione aveva scritto:
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L'interrogativo fondamentale a cui dovremmo cercare di
rispondere credo possa esprimersi così: nel suo farsi nuovo l'uomo, non
credendo più di avere o di potere trovare prefabbricate le tavole della
verità morale, come può pervenire a conclusioni e a decisioni il più
possibile esatte e complesse? Quali strumenti gli possono indicare le nuove
necessarie funzioni, le dinamiche fondamentali, affinché l'umanità possa
pervenire a realizzare il suo più vero interesse, la vita più sana? |
A questi, per esempio:
- la vita deve essere di tutti;
- ciascuno deve potere essere vivo nel miglior modo;
- più si capisce la natura dei mali e meglio si è in condizione di guarirli;
- ciascuno vede da un punto di vista;
- un presupposto di una sana umanità è riconoscere la sua necessaria unità.
Credo che tra non molto tempo questi principi saranno acquisiti per evidenza
dagli uomini, e non solo in questa così generica formulazione. Anche in questo
campo penso valga il processo della intuizione verificabile dalla razionalità e
dalla pratica, come accade dalla progettazione architettonica, dalla scienza
delle costruzioni alla fisica teorica.
Senza un vivo rapporto coi principi, senza tensioni, fini, ideali,
sufficientemente vasti, i nostri interessi appassiscono, si rinchiudono, e tutta
la nostra vita immiserisce. E tanto necessario per gli uomini è avere tesi i
propri interessi che, se non ne hanno, ne inventano dei surrogati.
[…] Le forme di vita più tradizionali che oggi ci si vuole e ci si lascia
imporre, sono gravemente unilaterali, casuali, insufficienti. Ci si rassegna
facilmente a divenire determinati e determinanti in direzioni e forme di
sviluppo che, ad un attento uomo di buon senso, a prima vista possono rivelare
la loro insufficienza o mostruosità. In queste condizioni la vita individuale
deve come risvegliarsi per diventare il primo centro di responsabilità. Per dire
in breve, l’uomo ha un primo strumento per la salute sua e dell’umanità per
divenire lui stesso obiettore di coscienza: non semplicemente nel rifiutare la
guerra, ma nella piena chiarezza che ogni suo momento di vita deve essere
coerente per non essere smembrato e disfatto, per avere la possibilità di un
autentico sviluppo; nella piena chiarezza che il fronte contro la guerra,
estremo delle mostruosità, va organicamente approfondito e allargato contro i
diversi tipi di irreggimentazione
economico-industriale-politica-giuridica-culturale-morale, contro le disumane
tecnocrazie incombenti.
Nuclei di problematizzazioni che arriveranno agli esiti più maturi con "Nessi
fra esperienza etica e politica" (1993), e "La struttura maieutica e
l'evolverci"(1996). E a guardar bene anche la poesia in Dolci ha dei presupposti
etici fondamentali, a cominciare dalla rilettura che lo stesso autore fa dei
suoi testi. Con "Poema umano" la dichiarazione è esplicita:
invece di volare come un canto
l'impegno mi si muta in un dovere.
Scriverà:
A chi ha saputo la fame
Che svuota dalla testa alle ginocchia
E ha visto ciondolare d'inedia
Teste a bambini,
suona acre ironia a tavola
l'augurio di 'Buon appetito':
secreto dalla buona educazione
di afflitti dai problemi di sovraccarico
di digestione.
A questo poeta, al quale non piaceva "il pane troppo
raffinato" crediamo che le nuove generazioni debbano molto. Di quest'ultima
opera ebbero a scrivere:
Cesare Zavattini: "La poesia è già in atto nei fatti e nella vita di Danilo. E'
il solo della nostra generazione che ha saputo ridurre al minimo la terra di
nessuno esistente tra la vita e la letteratura".
Kristine Wolter: "Questa poesia non nasce dall'amore per le parole ma dall'amore
per gli uomini".
Giancarlo Vigorelli: "La poesia di Dolci è destinata a fare data nella storia
del nostro tempo. E' anche un indizio che tante false carte letterarie e
politiche sono da bruciare, sono già cenere".
Per ulteriori informazioni inviate una mail a: |
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For additional information please email us at: |
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