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Di Cristina Valenti
ripreso da "A. Rivista anarchica" n. 254 del maggio 1999 (in rete nel sito,
eccellente, www.anarca-bolo.ch/a-rivista - ora anche: www.arivista.org L'arte, l'anarchia, il Living Theatre, La rivista presenta i brani di conversazione qui riportati con una nota introduttiva di Cristina Valenti. |
- Judith Malina: Al mio primo
arresto ebbi il grande privilegio di essere
messa in cella con questa grande donna. Dorothy Day aveva fondato il
Catholic Worker molti anni prima e viveva una vita di povertà volontaria
fra i più poveri dei poveri.
- Cristina Valenti: Dorothy si definiva anarchica?
- Judith Malina: Sì assolutamente anarchica, e una buona anarchica anche.
Il concetto di anarchismo cattolico ovviamente è inconcepibile per molti,
perché implica una contraddizione fra obbedienza e disobbedienza. Dorothy
praticava la disobbedienza civile in nome del cattolicesimo. A quei tempi a
New York c'era un arcivescovo molto rigido e intollerante e, a quanti le
chiedevano se pregasse per lui, Dorothy rispondeva: "Sì, prego per lui
perchè non ha posto ostacoli al Catholic Worker, che ha l'imprimatur della
Chiesa, e prego perchè non voglia ostacolarci in futuro". I cattolici
trovarono molto di che discutere con lei circa il suo modo anarchico di
accettare l'autorità della Chiesa. Il suo lavoro di carità era molto
conosciuto. Una volta le ho chiesto: "Fra quelli che vivono nella casa di
accoglienza quanti sono del Catholic Worker e quanti i senzatetto?" e lei ha
risposto: "Non ho notato la differenza". Dorothy si rifiutava di fare
distinzioni fra i poveri, gli ubriaconi, i miserabili e i disoccupati che
arrivavano per un piatto di minestra e la gente che la minestra la cucinava;
d'altra parte accadeva spesso che chi arrivava facesse anche la minestra, così, in effetti, non si potevano fare grandi differenze.
- Cristina Valenti: Com'era la vostra vita in carcere, quale fu il vostro
rapporto con le detenute?
- Judith Malina: La Women's House of Detention era una prigione che sorgeva
proprio nel mezzo del Greenwich Village, il quartiere più vivace e
artistico di New York (...). Era un carcere molto sovraffollato nel periodo
in cui eravamo dentro noi: poteva contenere circa 400 donne e ce n'erano
900. Io ero in una cella in cui c'era un letto e un piccolo materassino che
veniva estratto da sotto il letto, dopo di che non ci si poteva nemmeno
camminare attorno.
E delle 900 donne là dentro credo che 800 fossero prostitute e 700
tossicodipendenti. (...) E là ho visto Dorothy incontrare queste persone
senza speranza in un modo così incredibile, semplice e diretto, che mi ha
fatto imparare moltissimo della vita, del sistema delle classi, dei nostri
obblighi gli uni verso gli altri, e di me stessa.
E questa popolazione carceraria mi ha spinto a nutrire una speranza concreta
nelle possibilità dell'anarchismo. Quando si toccano questi argomenti ci si
sente sempre chiedere: "Cosa avresti intenzione di fare con le persone
realmente cattive?". Il fatto è che non lo sono: non lo erano neanche
quelle che stavano scontando crimini orrendi, come la giovane donna che ci
ha sfidato una volta - eravamo nella nostra cella, durante l'ora di attività, quando le celle sono aperte ed
è consentito parlare con le
detenute del proprio corridoio, e tutte venivano a parlare con Dorothy perchè era meraviglioso parlare con lei - e questa donna disse: "Senti, io
ho ucciso cinque persone, cosa vorresti fare con gente come me?". E Dorothy
seppe rispondere in un modo che le disarmò tutte, compresa la donna che
aveva ucciso cinque persone. Dorothy disse: "Come è stato che hai ucciso
tante persone? Cosa è successo? Raccontaci la tua storia".
Dorothy mi rimproverava spesso.
Mi diceva: "Judith, non devi pensare di poter risolvere i problemi di tutti, puoi desiderarlo, ma è una cosa senza speranza". E questo era oggetto di discussioni continue fra di noi. Io sentivo di doverci provare e lei diceva: "No, ognuno deve risolvere i propri problemi". Ma io non mi rassegnavo: "Voglio porre le condizioni perchè tutti risolvano i loro problemi". "Perchè credi di poterlo fare?". "Risolverò i problemi di tutti". Un altro motivo di discussione frequente fra di noi riguardava l'inferno. Ho scritto una poesia su questo, credo che tu la conosca, sul fatto che l'inferno deve essere vuoto se è vero che Dio è tutto misericordia (Whose Mercy Endures Forever, poesia dedicata a Paul Goodman e Dorothy Day, in J. Malina, Poems of a wandering Jewess, Paris, Handshake Editions, 1982, pp. 22-23 - nota di Cristina Valenti). Discutevamo di queste contraddizioni, della contraddizione fra il bene e il male nel cuore umano e nella società, del nostro desiderio di cambiare il mondo e noi stessi e del fatto che invece dovevamo aspettare il momento in cui saremmo state in grado di raccogliere le forze necessarie per farlo. |
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- Cristina Valenti: Dalle pagine del tuo diario emerge un'immagine molto
bella: la giovane Judith osserva la canuta Dorothy, l'ascolta, vede come si
comporta e prende nota di tutto. Nei lunghi tempi del carcere anche
l'attenzione sembra dilatarsi, insieme alla disponibilità a capire, ad
osservare. E l'insegnamento di Dorothy non è mai dichiarato, ma prende
forma nel corso dell'esperienza, pian piano, di pari passo col dispiegarsi
di quella.
- Judith Malina: La cosa più importante che ho imparato da Dorothy in
quella situazione è che è possibile, per chi è anarchico e pacifista,
occuparsi delle persone in modo completamente differente, avere con loro un
tipo di relazione umana, anche all'interno di un carcere pieno di violenza.
Nei miei Diari ci sono molte storie di violenza. C'era un enorme serbatoio
di rabbia, di collera e di odio là dentro; e la nostra presenza era quella
di un piccolo gruppo che introduceva un altro tono e un altro livello di
dialogo in una situazione in cui tutto ciò sembrava assolutamente
incomprensibile. E voglio ricordare almeno un'altra donna, Deane Mowrer,
un'anarchica che era stata arrestata con noi e che pure esercitò su di me
un'influenza meravigliosa. Anche la nostra relazione con le guardie fu
interessante... Il carcere è un microcosmo incredibile, dove le guardie sono
chiaramente la classe degli oppressori e il rapporto con loro è
insieme di odio e dipendenza: le temiamo, ci arrabbiamo, e nello stesso
tempo dipendiamo da loro, in una forma che non è altrettanto evidente nella
società esterna. E Dorothy mostrava alle detenute un modo diverso di
rapportarsi col potere dell'autorità: mostrando resistenza ma senza un
atteggiamento di odio, sapendo opporre il proprio "no" senza rabbia, ma con
la fermezza delle proprie posizioni nei confronti di un altro essere umano.
Questa è stata certamente una delle lezioni anarchiche che ho appreso da
lei. Un'altra è stata quella del mutuo appoggio fra detenuti. (...) Io
credo che le persone, quando sono costrette a subire dolorose forme di
violenza, rispondano aiutandosi reciprocamente, in quel modo che noi
anarchici consideriamo naturale. E con la guida di una persona come Dorothy,
che conosceva assai bene i principi base dell'anarchismo classico, queste
forme di reciproca solidarietà si ampliarono, senza bisogno che noi
parlassimo di anarchismo: parlavamo di come vivere nel mondo, parlavamo
soprattutto delle loro sofferenze, perchè queste erano le cose di cui si
doveva parlare.
In quel carcere Dorothy ci ha fatto capire come sia possibile ottenere
grandi risultati, a livello pratico e a livello ideale, a partire da una qualità diversa dei rapporti fra le persone. (...).
- Cristina Valenti: è persino paradossale che due persone che
rappresentavano modelli femminili così differenti, come te e Dorothy Day,
abbiano però trovato, nel profondo, delle affinità così grandi. Dorothy
che, a un certo punto della sua vita, ha scelto la pratica della castità, e
tu che hai sempre lottato per la liberazione sessuale e la realizzazione
totale dell'individuo. Eppure entrambe avevate scelto di non sottomettere il
vostro progetto di vita alle condizioni poste dal vostro sesso o alle
convenzioni sociali o alle norme stabilite.
- Judith Malina: Abbiamo parlato molto di queste cose e, rispetto alla questione
della liberazione sessuale, lei diceva che il problema non è
quello che poi si va all'inferno, ma che si soffre, perchè non funziona.
Dorothy aveva molta esperienza di amore libero. Il problema era, secondo
lei, che se si cerca il paradiso in terra si trova l'inferno; e su questo
naturalmente non ero d'accordo con lei. Noi eravamo in una casa di
detenzione con centinaia di donne che praticavano l'amore libero... non era
amore libero, in effetti, ma fatto di dolore e sofferenza. (...) E l'unica
felicità che trovavano - erano in molte a dirlo - era quando venivano messe
in cella con una donna che amavano e con la quale avevano una relazione
omosessuale non più basata sulle orribili umiliazioni che vivevano fuori.
Questo era il loro più grande desiderio e la loro consolazione reciproca.
Dorothy si interessava alla loro sofferenza senza esprimere un giudizio
morale. Sul piano sessuale, riteneva che la castità fosse il miglior modo
di vivere per chi non avesse un marito. Per quanto la riguardava, diceva che
sarebbe forse stata più felice se avesse trovato un uomo da amare e con cui
vivere una normale vita familiare. Ma anche se era a favore della castità
non la predicava certo alle prostitute. Con loro parlava piuttosto di come
trovare la forza per opporsi al potere dei loro magnaccia, perchè era
questo il loro problema: erano nelle mani di uomini che le maltrattavano e
dei quali di solito erano innamorate. Questo amore per chi ti fa del male,
questo desiderio masochistico di protezione era la cosa di cui parlava di più,
perchè aveva un'utilità pratica. Se solo fossero state in grado, una
volta ritornate ciascuna alla propria vita, di guardare le cose e le persone
in modo differente, comprendendo più chiaramente gli aspetti terribili dei
loro rapporti, allora forse ci sarebbe stata qualche speranza che la loro
sofferenza potesse per lo meno diminuire. Quello che Dorothy cercava di dar
loro era una piccola forza morale, una forza interiore che le aiutasse a
sopportare quelle condizioni di vita. E quando mi rimproverava perchè
cercavo di risolvere i loro problemi era perchè non potevo riuscirci. Io
volevo che smettessero di fare le prostitute, ma questo non era un consiglio
pratico e probabilmente non era nemmeno alla portata della maggior parte di
loro. Certo, noi parlavamo della possibilità di soluzioni alternative, dal
punto di vista economico, personale e domestico. Ma d'altra parte la loro
storia la conoscevamo: al momento di uscire dal carcere avrebbero ricevuto
venticinque cents, qualcosa come poche migliaia di lire, e l'Esercito della
Salvezza avrebbe dato un vestito nuovo a ciascuna. Un vestito nuovo e poche
migliaia di lire: così se ne sarebbero andate a riprendere la vita che
avevano lasciato.
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