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     Mia Martini - Minuetto

Judith Malina ricorda Dorothy Day con Cristina Valenti

Con A.J. Muste

Di Cristina Valenti

 

ripreso da "A. Rivista anarchica" n. 254 del maggio 1999 (in rete nel sito, eccellente, www.anarca-bolo.ch/a-rivista - ora anche: www.arivista.org
Questo brano è un estratto dal libro di Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina.

L'arte, l'anarchia, il Living Theatre,
Eleuthera, Milano 1995, pp. 112-119.

La rivista presenta i brani di conversazione qui riportati con una nota introduttiva di Cristina Valenti.

- Judith Malina: Al mio primo arresto ebbi il grande privilegio di essere messa in cella con questa grande donna. Dorothy Day aveva fondato il Catholic Worker molti anni prima e viveva una vita di povertà volontaria fra i più poveri dei poveri.

- Cristina Valenti: Dorothy si definiva anarchica?
- Judith Malina: Sì assolutamente anarchica, e una buona anarchica anche. Il concetto di anarchismo cattolico ovviamente è inconcepibile per molti, perché implica una contraddizione fra obbedienza e disobbedienza. Dorothy praticava la disobbedienza civile in nome del cattolicesimo. A quei tempi a New York c'era un arcivescovo molto rigido e intollerante e, a quanti le chiedevano se pregasse per lui, Dorothy rispondeva: "Sì, prego per lui perchè non ha posto ostacoli al Catholic Worker, che ha l'imprimatur della Chiesa, e prego perchè non voglia ostacolarci in futuro". I cattolici trovarono molto di che discutere con lei circa il suo modo anarchico di accettare l'autorità della Chiesa. Il suo lavoro di carità era molto conosciuto. Una volta le ho chiesto: "Fra quelli che vivono nella casa di accoglienza quanti sono del Catholic Worker e quanti i senzatetto?" e lei ha risposto: "Non ho notato la differenza". Dorothy si rifiutava di fare distinzioni fra i poveri, gli ubriaconi, i miserabili e i disoccupati che arrivavano per un piatto di minestra e la gente che la minestra la cucinava; d'altra parte accadeva spesso che chi arrivava facesse anche la minestra, così, in effetti, non si potevano fare grandi differenze.

- Cristina Valenti: Com'era la vostra vita in carcere, quale fu il vostro rapporto con le detenute?
- Judith Malina: La Women's House of Detention era una prigione che sorgeva proprio nel mezzo del Greenwich Village, il quartiere più vivace e artistico di New York (...). Era un carcere molto sovraffollato nel periodo in cui eravamo dentro noi: poteva contenere circa 400 donne e ce n'erano 900. Io ero in una cella in cui c'era un letto e un piccolo materassino che veniva estratto da sotto il letto, dopo di che non ci si poteva nemmeno camminare attorno. E delle 900 donne là dentro credo che 800 fossero prostitute e 700 tossicodipendenti. (...) E là ho visto Dorothy incontrare queste persone senza speranza in un modo così incredibile, semplice e diretto, che mi ha fatto imparare moltissimo della vita, del sistema delle classi, dei nostri obblighi gli uni verso gli altri, e di me stessa. E questa popolazione carceraria mi ha spinto a nutrire una speranza concreta nelle possibilità dell'anarchismo. Quando si toccano questi argomenti ci si sente sempre chiedere: "Cosa avresti intenzione di fare con le persone realmente cattive?". Il fatto è che non lo sono: non lo erano neanche quelle che stavano scontando crimini orrendi, come la giovane donna che ci ha sfidato una volta - eravamo nella nostra cella, durante l'ora di attività, quando le celle sono aperte ed è consentito parlare con le detenute del proprio corridoio, e tutte venivano a parlare con Dorothy perchè era meraviglioso parlare con lei - e questa donna disse: "Senti, io ho ucciso cinque persone, cosa vorresti fare con gente come me?". E Dorothy seppe rispondere in un modo che le disarmò tutte, compresa la donna che aveva ucciso cinque persone. Dorothy disse: "Come è stato che hai ucciso tante persone? Cosa è successo? Raccontaci la tua storia". Dorothy mi rimproverava spesso.

Mi diceva: "Judith, non devi pensare di poter risolvere i problemi di tutti, puoi desiderarlo, ma è una cosa senza speranza". E questo era oggetto di discussioni continue fra di noi. Io sentivo di doverci provare e lei diceva: "No, ognuno deve risolvere i propri problemi". Ma io non mi rassegnavo: "Voglio porre le condizioni perchè tutti risolvano i loro problemi". "Perchè credi di poterlo fare?". "Risolverò i problemi di tutti". Un altro motivo di discussione frequente fra di noi riguardava l'inferno. Ho scritto una poesia su questo, credo che tu la conosca, sul fatto che l'inferno deve essere vuoto se è vero che Dio è tutto misericordia (Whose Mercy Endures Forever, poesia dedicata a Paul Goodman e Dorothy Day, in J. Malina, Poems of a wandering Jewess, Paris, Handshake Editions, 1982, pp. 22-23 - nota di Cristina Valenti). Discutevamo di queste contraddizioni, della contraddizione fra il bene e il male nel cuore umano e nella società, del nostro desiderio di cambiare il mondo e noi stessi e del fatto che invece dovevamo aspettare il momento in cui saremmo state in grado di raccogliere le forze necessarie per farlo.

Con Catherine Doherty


- Cristina Valenti: Dalle pagine del tuo diario emerge un'immagine molto bella: la giovane Judith osserva la canuta Dorothy, l'ascolta, vede come si comporta e prende nota di tutto. Nei lunghi tempi del carcere anche l'attenzione sembra dilatarsi, insieme alla disponibilità a capire, ad osservare. E l'insegnamento di Dorothy non è mai dichiarato, ma prende forma nel corso dell'esperienza, pian piano, di pari passo col dispiegarsi di quella.
- Judith Malina: La cosa più importante che ho imparato da Dorothy in quella situazione è che è possibile, per chi è anarchico e pacifista, occuparsi delle persone in modo completamente differente, avere con loro un tipo di relazione umana, anche all'interno di un carcere pieno di violenza. Nei miei Diari ci sono molte storie di violenza. C'era un enorme serbatoio di rabbia, di collera e di odio là dentro; e la nostra presenza era quella di un piccolo gruppo che introduceva un altro tono e un altro livello di dialogo in una situazione in cui tutto ciò sembrava assolutamente incomprensibile. E voglio ricordare almeno un'altra donna, Deane Mowrer, un'anarchica che era stata arrestata con noi e che pure esercitò su di me un'influenza meravigliosa. Anche la nostra relazione con le guardie fu interessante... Il carcere è un microcosmo incredibile, dove le guardie sono chiaramente la classe degli oppressori e il rapporto con loro è insieme di odio e dipendenza: le temiamo, ci arrabbiamo, e nello stesso tempo dipendiamo da loro, in una forma che non è altrettanto evidente nella società esterna. E Dorothy mostrava alle detenute un modo diverso di rapportarsi col potere dell'autorità: mostrando resistenza ma senza un atteggiamento di odio, sapendo opporre il proprio "no" senza rabbia, ma con la fermezza delle proprie posizioni nei confronti di un altro essere umano.
Questa è stata certamente una delle lezioni anarchiche che ho appreso da lei. Un'altra è stata quella del mutuo appoggio fra detenuti. (...) Io credo che le persone, quando sono costrette a subire dolorose forme di violenza, rispondano aiutandosi reciprocamente, in quel modo che noi anarchici consideriamo naturale. E con la guida di una persona come Dorothy, che conosceva assai bene i principi base dell'anarchismo classico, queste forme di reciproca solidarietà si ampliarono, senza bisogno che noi parlassimo di anarchismo: parlavamo di come vivere nel mondo, parlavamo soprattutto delle loro sofferenze, perchè queste erano le cose di cui si doveva parlare. In quel carcere Dorothy ci ha fatto capire come sia possibile ottenere grandi risultati, a livello pratico e a livello ideale, a partire da una qualità diversa dei rapporti fra le persone. (...).

- Cristina Valenti: è persino paradossale che due persone che rappresentavano modelli femminili così differenti, come te e Dorothy Day, abbiano però trovato, nel profondo, delle affinità così grandi. Dorothy che, a un certo punto della sua vita, ha scelto la pratica della castità, e tu che hai sempre lottato per la liberazione sessuale e la realizzazione totale dell'individuo. Eppure entrambe avevate scelto di non sottomettere il vostro progetto di vita alle condizioni poste dal vostro sesso o alle convenzioni sociali o alle norme stabilite.
- Judith Malina: Abbiamo parlato molto di queste cose e, rispetto alla questione della liberazione sessuale, lei diceva che il problema non è quello che poi si va all'inferno, ma che si soffre, perchè non funziona. Dorothy aveva molta esperienza di amore libero. Il problema era, secondo lei, che se si cerca il paradiso in terra si trova l'inferno; e su questo naturalmente non ero d'accordo con lei. Noi eravamo in una casa di detenzione con centinaia di donne che praticavano l'amore libero... non era amore libero, in effetti, ma fatto di dolore e sofferenza. (...) E l'unica felicità che trovavano - erano in molte a dirlo - era quando venivano messe in cella con una donna che amavano e con la quale avevano una relazione omosessuale non più basata sulle orribili umiliazioni che vivevano fuori. Questo era il loro più grande desiderio e la loro consolazione reciproca. Dorothy si interessava alla loro sofferenza senza esprimere un giudizio morale. Sul piano sessuale, riteneva che la castità fosse il miglior modo di vivere per chi non avesse un marito. Per quanto la riguardava, diceva che sarebbe forse stata più felice se avesse trovato un uomo da amare e con cui vivere una normale vita familiare. Ma anche se era a favore della castità non la predicava certo alle prostitute. Con loro parlava piuttosto di come trovare la forza per opporsi al potere dei loro magnaccia, perchè era questo il loro problema: erano nelle mani di uomini che le maltrattavano e dei quali di solito erano innamorate. Questo amore per chi ti fa del male, questo desiderio masochistico di protezione era la cosa di cui parlava di più, perchè aveva un'utilità pratica. Se solo fossero state in grado, una volta ritornate ciascuna alla propria vita, di guardare le cose e le persone in modo differente, comprendendo più chiaramente gli aspetti terribili dei loro rapporti, allora forse ci sarebbe stata qualche speranza che la loro sofferenza potesse per lo meno diminuire. Quello che Dorothy cercava di dar loro era una piccola forza morale, una forza interiore che le aiutasse a sopportare quelle condizioni di vita. E quando mi rimproverava perchè cercavo di risolvere i loro problemi era perchè non potevo riuscirci. Io volevo che smettessero di fare le prostitute, ma questo non era un consiglio pratico e probabilmente non era nemmeno alla portata della maggior parte di loro. Certo, noi parlavamo della possibilità di soluzioni alternative, dal punto di vista economico, personale e domestico. Ma d'altra parte la loro storia la conoscevamo: al momento di uscire dal carcere avrebbero ricevuto venticinque cents, qualcosa come poche migliaia di lire, e l'Esercito della Salvezza avrebbe dato un vestito nuovo a ciascuna. Un vestito nuovo e poche migliaia di lire: così se ne sarebbero andate a riprendere la vita che avevano lasciato.
 

Ritratto

 

 

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