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Opere

Opere di Gianni Rodari

Carmine De Luca: Il Cane di Magonza

     Pino Daniele - Terra mia

Introduzione critica

Tra gli scritti giornalistici di Rodari può essere individuato un filone costituito dalle numerose annotazioni sulla propria attività di poeta e di favolista e, in generale, sui meccanismi creativi e immaginativi da lui via via adoperati e il cui uso comunica agli altri (siamo, in pratica, nell’area della " Fantastica " entro la quale ricadono le due puntate del "manuale per inventare favole").

E’ probabilmente il canale da privilegiare per l’ingresso nel cantiere di scrittore e poeta per l’infanzia, dove è possibile scoprire la complessa e ricca attrezzatura di cui dispone e il vario e imprevedibile impiego di arnesi e congegni. Ma occorre prestare attenzione perché gli strumenti del suo lavoro non sono lì in bella mostra come sul banchetto di un ciabattino: una visita in cantiere ci permette di conoscerne solo una parte, ma non tutti. Altri suoi strumenti bisogna andarseli a scovare non tanto nel locale attrezzi, ma nella perfetta e straniante geometria delle sue costruzioni. Sul significato di quest’opera di esibizione pubblica della propria attrezzatura poetica ha scritto cose notevoli T. De Mauro. "Accade (...) raramente che qualcuno parli direttamente, senza iattanza e volgarità, di proprie dirette esperienze creative. Vi sono testimonianze rare e preziose (...), come le note di Leonardo o lo Zibaldone di Leopardi o le Lettere a un giovane poeta di Rilke. Accade ancor più di rado (...) che un ingegno creativo abbia la forza e il genio per parlare della sua diretta esperienza in modo analitico e critico in un’opera organica, destinata già in vita al pubblico. Dall’Ars poetica oraziana ai Dialoghi sulla musica di Furtwangler, passando per gli scritti critici di Goethe, Tolstoj, Valery, gli esempi non sono molti."

Da un’analoga osservazione aveva, più di un secolo fa, preso le mosse E. A. Poe per la sua Filosofia della composizione (1846); "Ho spesso pensato che interessante articolo da rivista potrebbe scrivere qualunque autore volesse – cioè potesse – precisare, passo passo, i processi grazie ai quali una delle sue composizioni raggiunse il suo punto estremo di completezza. Perché non abbia mai visto la luce un articolo del genere, non saprei certo dire; ma forse la vanità degli scrittori ha a che vedere con questa omissione più di qualsiasi altra causa. La maggior parte degli scrittori – specie i poeti – preferiscono lasciar intendere che compongono in preda a una sorta di squisita frenesia, un’intuizione estatica, e rabbrividirebbero addirittura all’idea di consentire al pubblico un’occhiata dietro le quinte". E’ ovvio che l’esortazione di Poe sarà accolta da pochi scrittori e poeti. Tra questi pochi vanno ricordati R. Roussel e R. Queneau. Roussel scrive un intero saggio-confessione Come ho scritto alcuni miei libri (sta in appendice a: R. Roussel, Locus Solus, Torino, Einaudi, 1975) in cui esibisce il proprio modus operandi: "Giovanissimo scrivevo già racconti di poche pagine impiegando questo procedimento. Sceglievo due parole quasi simili (sul tipo dei metagrammi). Per esempio billard e pillard. Poi vi aggiungevo parole simili ma prese in due sensi differenti, e ottenevo due frasi quasi identiche ".

In Segni, cifre e lettere di R. Queneau (Torino, Einaudi, 1981) possono trovarsi numerose dichiarazioni del genere: "vorrei esporre quella che può essere una tecnica cosciente del romanzo, quale io stesso ho cercato di praticare". Affinità, dunque, tra Queneau, Roussel e Rodari? L’ipotesi non è da prendere sotto gamba. Soprattutto se si considera la comune esperienza – diretta nei primi due, indiretta in Rodari – con il surrealismo.

In questo quadro di riferimenti va collocato lo scritto Il cane di Magonza (ma tanti altri scritti impongono un’analoga collocazione), in cui Rodari analizza i percorsi e i procedimenti mentali tramite i quali i bambini, deformando nomi e parole, tendono a "prendere possesso del mondo, per conoscerlo riducendolo il più possibile a propria immagine e somiglianza ".

Uno di questi giorni la nostra bambina giocava da sola e mescolando bambole e burattini si inventava sottovoce chissà quale storia. Era però un sottovoce vibrato, nel quale ricorrevano apostrofi drammatiche. A un certo punto la sentimmo esclamare, a voce più alta: "Cane di Magonza!". Il tono era quello dell’insulto, dell’accesa indignazione. Eccitata, presa nel minuscolo ma intenso vortice della sua favola, la bambina ripeté più volte: "Cane di Magonza! Cane di Magonza!".

Non era difficile riconoscere, in questo strano epiteto, una deformazione del nome di gano di Maganza, il nemico di Orlando, il "cattivo" del teatro dei pupi siciliani, cacciato da Dante - ma col nome di Ganellone - nei ghiacci di Cocito, nelle vicinanze del conte Ugolino e di altri traditori della patria o del loro partito. Meno facile, ma non impossibile, si rivela la ricostruzione del cammino che aveva trasformato Gano in un cane, trasferendolo dalla famiglia dei Maganza alla città di Magonza, senza l’aiuto dell’etimologia che probabilmente lega i due nomi.

Deformazioni e realtà

Il nome di Gano di Maganza la bambina poteva averlo udito solo dal cuginetto, di tre anni maggiore, e più erudito di lei, appassionato di armi, corazze, duelli e paladini. Il nome dovette sembrarle una accozzaglia di suoni senza senso. "Gano?", deve avere fulmineamente ragionato la sua fantasia "ho certamente sentito male. Gano non può essere un nome come Paolo, Walter, Francesco." Talvolta i bambini diffidano delle proprie orecchie e comunque sono abbastanza egocentrici e disinvolti da manipolare a loro modo i suoni, per tradurli in qualcosa che abbia significato. Il tono del cuginetto, nel pronunciare la strana parola, doveva essere quello del disprezzo, lo stesso di chi dice – tra pirati e banditi si usa – "fellone", o "cane". Ed ecco il colpevole della rotta dei cristiani a Roncisvalle ridotto senz’altro allo stato bestiale. Perché di Magonza, anziché di Maganza? Per motivi e per un procedimento analogo. Maganza era un nome nuovo, senza echi, improbabile. Nel libro di favole che la bambina ascolta spesso ricorre invece il nome della città tedesca di Magonza. La bambina ha senz’altro assimilato il suono nuovo al nome già noto, costringendo – per così dire – il fantasma a materializzarsi, l’apparizione inconsueta a mettere piede su un terreno già solido. Nasceva così, non dal nulla, ma da suggestioni diverse e lontane, quell’irreale, o surrealistico "cane di Magonza". Avremmo fatto prima a supporre, a nostra volta, che la bambina avesse semplicemente capito male e ripetuto male. Ma deformazioni del genere sono abbastanza normali nei bambini: bisogna dunque che rispondano a una legge del loro comportamento, a una "forma" del loro lavorio per prendere possesso del mondo, per conoscerlo riducendolo il più possibile a propria immagine e somiglianza.

Padre " morto " che sei nei cieli...

Un bambino al quale, a casa sua, non sono state insegnate le preghiere cattoliche, le ha udite per la prima volta a scuola. Torna a casa e subito, vantandosi di averle imparate, recita: "Padre morto che sei nei cieli". Non c’è verso di fargli capire che ha udito male, che si deve dire "Padre nostro". "Se è nei cieli vuol dire che è morto", ribatte trionfante. E in questa risposta c'è tutto il senso della spiegazione che abbiamo tentato di dare più sopra, piuttosto grossolanamente. Il bambino ha catturato dei suoni dispersi, di cui gli sfuggiva la funzione: li ha ricomposti a suo modo, secondo una sua logica personale, per una necessità di ordine e di comprensione che è di tutti i bambini di normale intelligenza.

I miti dell’uomo primitivo

Una signora che conosciamo, di fronte a certe uscite della sua bambina, pensava che essa fosse un po’ sorda. La piccola, avendo sentito chiamare san Giuseppe il "padre putativo " di Gesù, era rimasta piuttosto turbata. "Ma perché dicono che è "più cattivo" se invece e tanto buono?" Essa non riusciva, evidentemente, ad armonizzare la mite figura del suo presepe con l’appellativo di "più cattivo". E ciò accadeva non già perché la bambina fosse un po’ sorda, ma perché la sua mente aveva semplicemente respinto, come privo di significato, l’aggettivo "putativo", e – non credendo alle proprie orecchie – lo aveva sostituito con una espressione più comprensibile (e con involontaria irriverenza che la madre, nel correggerla, ebbe la prudenza di non farle rilevare).

Potremmo moltiplicare gli esempi, ma vi ritroveremmo la stessa meccanica. Qualsiasi padre di famiglia potrebbe fare lo stesso.

E’ vero, ci sono anche bambini che ripetono subito, senza sbagliare, "putativo", qualsiasi altra parola ascoltino. Ma questo non accade perché abbiano sensi più acuti o intelligenza più pronta: forse, al contrario, accade perché hanno meno immaginazione e accettano passivamente anche ciò che non capiscono. Per conoscere veramente una cosa, diceva Giambattista Vico, bisogna produrla, o almeno mentalmente riprodurla. Per compiere questa operazione i bambini non hanno ancora a disposizione (siamo ancora a Vico) una "mente pura", capace di pura riflessione, ma la fantasia di "un animo perturbato e commosso". Per capire veramente una parola hanno bisogno di reinventarla. A questo punto bisognerebbe tentare di penetrare l’inattesa immagine del "cane di Magonza", di vedere questa espressione, nata per un poetico errore, dal di dentro. Ma questo è veramente impossibile, come è impossibile per l’uomo moderno comprendere appieno i miti dell’uomo primitivo, perché gli è impossibile viverli.

Il cane in oggetto, del resto, avrà vita breve, sarà presto travolto in altri impasti della fantasia, insieme con altri materiali ugualmente fluidi, che non hanno più consistenza di un lampo.



 

 

 

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