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Opere

Opere di Gianni Rodari

Carmine De Luca: Pro e contro la fiaba

     Pino Daniele - Musica musica

Introduzione critica

Quanto Rodari sostiene nel 1968 in La letteratura infantile oggi aveva bisogno di ulteriori verifiche e approfondimenti, soprattutto per quel che riguarda l’uso e il posto della fiaba nell’educazione delle nuove generazioni di piccolissimi. Nel dicembre 1970 (7, 8 e 11) appaiono su Paese Sera queste tre puntate dell’inchiesta "pro e contro la fiaba". Ma già nel 1969 in un articolo pure di Paese Sera (I giovani: nei nostri figli vediamo come sarà l’uomo, 21 dicembre 1969) alcuni interrogativi e conclusioni dell’inchiesta sono anticipati. Rodari riferisce i risultati di un esperimento realizzato con un gruppo di ragazzi. L’esito dimostra che le nuove generazioni hanno acquisito una "dimensione sociale" della fantasia: "oggi questa capacità si esercita in un ambito nuovo, meno privato, più vasto, più aperto alle influenze di un mondo cambiato. Voglio dire: il bambino di una volta (o di trent’anni fa), cercando nella fiaba (...) un’immagine del suo destino, degli indizi sul mondo dei sentimenti, degli esempi di classificazione morale (il buono, il cattivo, il furbo, il prepotente) riferiva il tutto a un’esperienza chiusa nel quadro familiare; nel bambino di oggi il riferimento è un’esperienza di cui fanno parte (...) lo Stato, la città, gli avvenimenti del pianeta, quelli del progresso tecnico-scientifico". Le conseguenze di un tale mutamento di prospettiva Rodari le individua nelle accresciute possibilità di socializzazione dei ragazzi: "Mi pare che essi rivelino fin dall’infanzia un’attitudine spiccata ad adeguare il loro ritmo personale di crescita a quello della società. Non avranno paura. Non sono impreparati alla crescente "socializzazione" dell’individuo. Uso questa parola in antitesi con l’altra, "massificazione", che conserva il suo valore di denuncia di un pericolo, ma fa perdere di vista la possibilità di un esito diverso dello sviluppo umano".

1. Chi era Pollicino

Un boscaiolo ha sette figli ed è troppo povero per mantenerli. Un giorno li accompagna nel bosco e ve li abbandona. Al calar della notte i bambini si disperano, ma il più piccolo di loro, chiamato Pollicino, arrampicatosi su un albero, scorge il lume di una casa lontana lontana e vi guida i suoi fratelli. Purtroppo quella è la casa dell’orco. Li accoglie sua moglie, la strega, li sfama e li mette a dormire accanto alle sue sette figlie che dormono con una coroncina in testa. L’orco rincasa, fiuta i nuovi venuti e arrota un coltellaccio per ammazzarli. Ma Pollicino e i suoi fratelli scambiano le loro berrette da notte con le corone delle figlie dell’orco il quale, credendo di uccidere gli intrusi, fa strage della sua famiglia. Di buon mattino Pollicino e i suoi fratelli scappano. L’orco, avvedutosi del tremendo errore, li insegue con gli stivali delle sette leghe. A un certo punto si stanca di correre e si mette a dormire. Pollicino gli ruba gli stivali fatati, corre dalla strega, si fa consegnare il tesoro dell’orco e così i sette figli del boscaiolo – che intanto s’era pentito di averli abbandonati – tornano a casa ricchi e contenti.

Che senso ha questa fiaba, non priva di elementi orridi o addirittura truculenti? I bambini amano ancora ascoltare fiabe del genere? C’è ancora posto per le fiabe in una educazione moderna?

Rispondere a queste tre domande – e alle altre moltissime che pullulano intorno a loro come crateri minori intorno ai maggiori – non è né semplice né superfluo. La fiaba stessa di Pollicino è tutt’altro che semplice: essa ci si presenta addirittura come un repertorio, una ricapitolazione di temi fiabeschi.

C’è il tema del "minuscolo" presente in altre fiabe famose. Basti ricordare i nani di Biancaneve. Il tema è stato reso illustre da Swift con l’invenzione dei Lillipuziani nei Viaggi di Gulliver. Pollicino è sicuramente l’antenato dei Lillipuziani.

Il tema del numero sette, numero magico quanto altri mai (sette i figli del boscaiolo, sette le figlie dell’orco, sette i nani di Biancaneve, sette i re di Rama nella leggenda delle origini). Il tema del bosco e della casa nel bosco (che può essere una capanna, un pagliaio, una grotta) è anch’esso dei più comuni. Si tratti della foresta russa o della giungla indiana, il bosco sta alle fiabe come la farina al pane.

La strega e l’orco sono personaggi d’obbligo, come i re e le regine, che nella fiaba di Pollicino mancano, ma solo fino a un certo punto: le corone delle figlie dell’orco fanno di loro, a guardarle bene delle principesse.

Gli stivali delle sette leghe vanno registrati sotto la voce "oggetti fatati", insieme alle bacchette magiche, agli acciarini, ai frutti stregati (che possono uccidere come, al contrario, risanare dalle peggio malattie) alle erbe che servono per trasformare un uomo in animale e viceversa.

Tema di assoluto rilievo quello della morte, che le fiabe talvolta camuffano (il lupo mangia la nonna, ma è costretto a restituirla viva) ma non dimenticano mai troppo a lungo.

La partenza (che altre volte e una cacciata, un bando, un incarico rischioso) e il ritorno al termine dell’impresa aprono e chiudono un gran numero di fiabe con la regolarità di una rima obbligata. Ma va osservato ancora che Pollicino risente, sia pure in secondo piano, del tema del "contadino furbo" (che a sua volta risponde a quello, assai più antico ed universale, dell’animale furbo, volpe in Occidente, coniglio o coyote nell’America indiana, ragno nell’Africa nera eccetera).

Come si siano composti questi temi, e proprio nell’ordine che tengono, nella fiaba di Pollicino, non è dato sapere. La fiaba viveva già da secoli, quando i letterati e i folcloristi la trascrissero dalla voce dei narratori popolari (ed ha continuato a vivere di vita propria, di bocca in bocca, anche dopo, ignorando i libri in cui appariva stampata). Gli studiosi che, da quasi duecento anni, sono andati inventariando il patrimonio fiabesco dei popoli indoeuropei, possiedono ormai centinaia di versioni della stessa fiaba originaria, in decine di lingue e di dialetti diversi, ma solo in pochi casi sono in grado di puntare il dito su un luogo, su un nome e di garantire che lì è cominciato il primo principio. All’interno del mondo fiabesco poi, sono individuabili numerosi generi, o gruppi: le fiabe meravigliose con orchi streghe e oggetti fatati, sono forse cugine ma certo non sorelle delle storie in cui gli animali la fanno da protagonisti. A queste si può immaginare (ma soltanto immaginare) una parentela con le credenze totemistiche, possono farne fede gli innumerevoli miti relativi ad animali magici, divini, demiurghi, eccetera, che si raccolgono presso popoli ancora vicini al totemismo dei loro antenati, o immersi ancora in una cultura primitiva di quel tipo. Ma di altre fiabe si possono trovare le fonti – nobilissime – nei miti greci. Del mondo fiabesco in senso lato fanno parte anche leggende locali, aneddoti popolari, magari incollanati in interi cicli, leggende religiose, ecc. Le fiabe, nel loro insieme, ci si presentano insomma come un deposito stratificato di più culture, un archivio in cui il tempo ha depositato le sue pratiche, evase in spazi lontanissimi tra di loro: relitti di cui la fantasia popolare ha fatto il suo bene, nel corso dei millenni, mentre pure correvano, ma sulla testa del Popolo e senza riguardarlo, le più illustri letterature; e che poi, ma solo in tempi molto recenti, sono stati lasciati in eredità ai bambini.

Una piccolissima parentesi per rilevare che di simili eredità è piena la stanza dei giocattoli. La trottola fu in antichi tempi un oggetto magico e rituale prima di decadere a balocco. Le bambole non sono state inventate per i bambini ma per i morti: per tener loro compagnia nella tomba, simulacri di divinità, di parenti, di schiavi. Dal sacro al profano, dal rito al gioco: è questo il ritmo tenuto da non pochi prodotti umani, nel passaggio e attraversamento delle ere e dei modelli culturali. Cose che accadono ancora sotto i nostri occhi: le maschere di Carnevale, negli ultimi anni, già si stanno abbandonando completamente ai bambini, che una volta erano esclusi dal gioco. Questi fatti vanno distinti da quelli in cui si palesa solo il normale processo di imitazione del mondo adulto che fa parte della crescita, dell’addestramento infantile. La lavatrice e il robot, tra i giocattoli, non hanno lo stesso significato (anche prescindendo dal contenuto religioso) delle statuine del presepio. Chiudiamo la parentesi notando, dunque, che le fiabe sono giunte ai bambini "per caduta" dal mondo adulto (e così del resto sono arrivati a loro Gulliver e Robinson, ormai spogliati del "messaggio" satirico o ideologico che recavano, ridotti a pura avventura).

Non sono mancati i tentativi di una sistemazione teorica dell’argomento. Ma noi qui, non li passeremo in rassegna. Nel caso di Pollicino l’ipotesi più convincente, secondo noi, è ancora quella di Vladimir Propp – che non l’ha formulata per Pollicino, ma per tutte le fiabe magiche di cui qui abbiamo nominato Pollicino portavoce.

Ecco in poche parole, di che si tratta (e chi vorrà saperne di più potrà leggersi in traduzione italiana, del Propp, sia La morfologia della fiaba sia Le radici storiche dei racconti di fate). Le fiabe magiche risultano tutte – e in tutte le versioni – composte di un certo numero di elementi fissi (o temi, o motivi, o "funzioni") e quest’ultima è la parola usata dal Propp) che resistono a tutte le variazioni, e dispongono le loro figure intorno a uno schema che l’analisi e la statistica permettono di riconoscere: c’è all’inizio una partenza (a seguito di un ordine, o di un divieto violato); l’eroe affronta prove rischiose, contro nemici dotati di poteri straordinari, aiutato da esseri altrettanto straordinari che pongono a sua disposizione oggetti fatati; può morire (ma allora rinasce) o più semplicemente scomparire per un certo periodo; alla fine ritorna (qualche volta sotto falso nome, come Ulisse al suo sbarco in Itaca), trionfa dei suoi nemici e si sposa. Questo naturalmente, è lo schema ridotto all’osso: le "funzioni", in realtà, sono quasi quaranta, e consentono un paio di centinaia di "figure" (la parola e nostra). Fate conto di avere un mazzo di quaranta carte. Mescolatelo. Mostrate le carte una dopo l’altra; sono sempre le stesse, ma la loro successione può variare in un numero di maniere che un matematico vi potrà precisare. Così fanno le fiabe magiche, mescolando le loro carte.

Ora, lo studio degli usi e costumi dei popoli "primitivi" (la definizione è solo di comodo, e perciò la mettiamo tra parentesi) tuttora viventi, o comunque descritti dai viaggiatori, etnologi ed etnografi che li hanno visitati tra l’ottocento e il novecento, rivela che dappertutto, a un certo stadio culturale, quello della società che vive prevalentemente di caccia, vige per i ragazzi il complesso rito della "iniziazione". A dodici, tredici anni i ragazzi lasciano la famiglia e vanno a vivere in una casa speciale che spesso è per l’appunto una capanna nella foresta, per un periodo più o meno lungo, durante il quale gli stregoni della tribù, che bisogna immaginare sotto le loro maschere paurose, li sottopongono a prove terrificanti, che non escludono una "morte" immaginaria e, in qualche caso, un sacrificio umano; rivelano loro segreti terribili; consegnano loro oggetti sacri, dotati di poteri spaventosi. L’iniziazione può culminare o no nella circoncisione (il coltellaccio dell’orco di Pollicino...). Al termine dei riti i ragazzi tornano a casa. Spesso essi hanno ricevuto un nome nuovo, il loro nome da adulti; oppure un nome da tenere segreto. Ora sono uomini, membri della tribù a tutti gli effetti. Alcuni studiosi – e Propp, come s’è detto, con particolare genialità – hanno sottolineato l’analogia tra la struttura dei riti iniziatici e la struttura delle fiabe. Per quel che ci riguarda, Pollicino e i suoi fratelli – se si spoglia la fiaba delle superfetazioni e incrostazioni di cui la lunghissima tradizione l’ha arricchita – sembrano proprio vivere l’avventura degli "iniziandi": sono portati nel bosco, sottoposti a prove e pericoli mortali, hanno a che fare con oggetti magici – che prima funzionano a loro danno, e poi a loro vantaggio – tornano a casa "diversi" (nella fatti- specie, ricchi, mentre erano partiti poveri). Nella fiaba c’è persino la traccia favolosa del sacrificio umano. Un sacrificio sostitutivo, però: difatti la morte tocca alle figlie dell’orco, di cui non sappiamo nulla, se non che portavano una corona, e questo è certamente un particolare nato in tempi monarchici, non del tutto boscherecci. Ecco, ci dicono Propp e gli altri della stessa opinione, ecco come sono nate le fiabe magiche. Esse ci narrano, sotto mille travestimenti, ciò che una volta accadeva a tutti i ragazzi, nel momento di diventare uomini.

I popoli indoeuropei debbono avere attraversato uno stadio simile a quello che possiamo osservare e studiare nei "primitivi" attuali. Più tardi (e questo lo sappiamo per certo) essi abbandonarono le loro sedi comuni per disperdersi ai quattro venti (meno uno, perché a est c’erano i mongoli e i cinesi...): col tempo diedero vita alle popolazioni latine, germaniche, slave, crearono civiltà agricole ed urbane. Gli antichi riti e miti decaddero, sostituiti da altri, cioè da quelli delle religioni agricole, che divinizzavano le forze della natura, le stagioni, la terra. Morto nella sua forma originaria il rito dell’iniziazione, rimase il racconto del rito, ormai dissacrato, ormai fiaba, affidata alla tradizione orale ed alla fantasia, pronta ad assumere, di terra in terra e di secolo in secolo, nuovi colori. Nessun Pollicino venne più portato nel bosco per diventare uomo e cacciatore: nasceva il Pollicino della fiaba, pronto a prendere, nelle varie lingue, decine di nomi diversi. La questione è ora di sapere se Pollicino possa ancora servire, in qualche modo, alla "iniziazione" dei bambini degli anni settanta del ventesimo secolo. Di ciò parleremo nei prossimi articoli.

2. Dal tappeto volante al jet supersonico

Che ai bambini le fiabe piacciano ancora non sembra dubbio. Può abbassarsi l'età in cui la fiaba cessa di piacere; può darsi che in futuro questa età si abbassi fino ad annullare del tutto il ruolo della fiaba. Ma allo stato, come si dice, degli atti, la richiesta di fiabe non sembra sostanzialmente diminuita. Sono di questa opinione quanti hanno a che fare direttamente con i bambini, dalla redazione del Corriere dei piccoli ai servizi radiotelevisivi. Sono in favore di questa opinione le statistiche sulla diffusione delle fiabe con i vari mezzi dell’industria contemporanea: l’album illustrato, il disco, il libro-disco, la dispensa (con o senza disco), il cartone animato eccetera. I "pro" e i "contro" di genitori ed educatori non sono univoci: ma si basano tutti (come le nostre personali opinioni, del resto) su intuizioni, su fondamenti (o preconcetti) teorico-pedagogici. Non sui fatti: cioè non sulle ricerche sperimentali, che non esistono, non su speciali indagini, che nessuno ha ancora pensato di compiere, o se ci ha pensato ci ha, subito rinunciato, perché costerebbero troppo.

Le affermazioni generali tipo "le fiabe piaceranno sempre" o, al contrario, "le fiabe non possono più piacere", sono fatte a ruota libera. Nel caso migliore sono generalizzazioni (arbitrarie) di esperienze limitate o addirittura familiari, cioè relative a un solo bambino. La scienza propriamente detta (la scienza dell’educazione, se esiste) non si è ancora pronunciata. Il giorno in cui, per assurdo, fosse consentito di proclamare che i bambini rifiutano le fiabe, ci sarebbe ancora da domandarsi se tale rifiuto sia un bene o un male; se sia un atteggiamento autonomo dell’infanzia, o un comportamento indotto, frutto di un determinato condizionamento; e se si tratti, allora, di un condizionamento positivo (come quello che porta i bambini, mettiamo, a non fare pipì in mezzo alla strada) o negativo, come quello che li recluta tra i tifosi di Canzonissima. Per conto nostro abbiamo a lungo ragionato sul tipo di esperienza che il bambino vive ascoltando la fiaba di Pollicino, dalla quale siamo partiti nel primo articolo di questa serie. A noi sembra un’esperienza molto complessa, più complessa di quanto possa sembrare a prima vista. Essa si svolge contemporaneamente su diversi piani, che ci proveremo ad analizzare.

In primo luogo, il bambino cui la madre racconta una fiaba sperimenta l’esclusivo e prolungato possesso della medesima. Non è facile, per un bambino di quattro, cinque anni, avere la madre tutta per sé. La benedetta e amata signora ha sempre un sacco di cose da fare, in casa e fuori. Di giocare con il bambino raramente ha il tempo, la pazienza e la voglia, per non parlare dell’estro che occorre per farlo nel modo migliore. Quando racconta, o legge una fiaba, la madre è presente, disponibile, servizievole, per un tempo miracolosamente lungo. Il bambino può a suo agio osservarla e studiarla, esaminare i suoi lineamenti, la sua voce, i suoi gesti, godere a suo gusto del senso di protezione e di sicurezza che quella presenza gli dà; discorrere con lei, interrompendola con opportune domande, o commentando la sua lettura con sorrisi, esclamazioni, smorfie, o anche standosene zitto zitto, usando allora delle parole della fiaba come di uno strumento per un dialogo segreto, senza parole proprie, intimo, enormemente profittevole. Su questo punto molte altre cose sarebbero da dire, ma passiamo oltre.

Il bambino che ascolta la fiaba da una voce familiare è nelle migliori disposizioni per realizzare un incontro con la lingua materna. Ode e riconosce vocaboli, strutture, macchine della lingua stessa che sarebbe difficile propinargli in modo sistematico. Nomi e verbi, preposizioni e proposizioni gli vengono incontro nella maniera più affettuosa. Su qualsiasi altro argomento egli non tollererebbe di essere confinato nel ruolo di ascoltatore. Ascolta brevi e precise risposte, da lui stesso sollecitate, su ogni sorta di problemi tecnici, scientifici, astronomici, eccetera. Ma solo di fronte a una fiaba egli è disposto ad ascoltare a lungo: e ciò che egli interiorizza non sono soltanto (o forse non sono tanto) le vicende esteriori della fiaba quanto le parole che la costituiscono. Sotto questo aspetto, la lingua, che è veicolo, agisce su di lui come fine. Se l’ascolto avviene a mezzo disco (ma provate pure a fargli ascoltare, su un disco, una conferenza di argomento antropologico, geografico, storico, vediamo se sta a sentire...) cadono alcuni elementi della sua esperienza, ne subentrano altri: l’uso di strumenti meccanici, di manopole e interruttori; il lavoro mentale per riconoscere, dalle voci, i vari personaggi della vicenda; per ricostruire, dai dialoghi, gli scatti e i progressi della vicenda stessa. Se la fiaba è televisiva, il suo lavorio mentale si svolgerà intorno al linguaggio delle immagini in movimento: non basterebbe una conferenza a descriverlo.

E ancora: nelle fiabe il bambino ritrova certe caratteristiche del suo modo di pensare. Il bambino è animista, se urta contro un tavolo dice "stupido tavolo"; immagina che il sole, ci sia un signore ad accenderlo tutte le mattine e a spegnerlo tutte le sere. Le fiabe sono, per lo più, animiste. Il bambino non conosce leggi di natura; le fiabe godono della stessa franchigia. Nello stesso tempo, però, il bambino – che non saprebbe criticare il proprio animismo – riesce a criticare quello delle fiabe. Perché? Innanzitutto perché gli è chiara, sufficientemente presto (a tre, quattro anni sicuramente) la differenza tra il "mondo delle cose vere" e il "mondo delle fiabe". Non chiedetegli di precisare la distinzione: la fa, e tanto basti. E proprio perché la fa il: "meraviglioso" delle fiabe gli serve per costruirsi, un pezzo alla volta, la differenza tra le cose possibili e le cose impossibili, tra le cose vere e le cose inventate.

Proseguiamo. Il bambino riferisce a se l’avventura vissuta dal protagonista della fiaba. Se ascolta la fiaba di Pollicino, è lui stesso Pollicino; sventurato come Pollicino, furbo come Pollicino, vittorioso come Pollicino. Si dice che il bambino "si identifica" nell’eroe della fiaba. E questo è certamente vero, ma non del tutto: la cosa più importante, forse, è che l’identificazione gli permette di sentire sé come diverso dagli altri, di riconoscere nelle persone diverse destini diversi; insomma, probabilmente, lo aiuta nel suo non facile lavoro per stabilire il confine tra se stesso e il mondo.

Ascoltando la fiaba il bambino è portato a percepire una differenza tra il suo tempo e quello della fiaba. Che è – inutile dirlo – il tempo del "c’era una volta". Un tempo che adesso non c’è. Forse il tempo del papà, o quello del nonno. Il bambino indaga, fa domande. Come non giungere alla constatazione che il " c’era una volta " della fiaba è il primo accostamento al " c’era una volta " della storia? Il passaggio dalla fiaba alla storia avviene per gradi. Romolo e Remo hanno un piede nella storia, ma uno – bene affondato, fino alla caviglia – nella fiaba. Ma non sorvoliamo su quell’imperfetto. Il bambino lo adopera anche per giocare, quando stabilisce: Io ero il papa, tu eri la mamma, io dicevo, tu facevi... E’ una specie di sipario, che divide la realtà dal gioco. Anche la fiaba si colloca nel mondo del gioco. E’ un gioco di parole ed immagini che alludono a tutte le possibilità della vita. Si aggiunga che, per quel che ne sappiamo, le radici della fiaba affondano nella vita di popoli passati, cioè nella profondità del mare su cui galleggia l’esperienza infantile (e la nostra). Anche la fiaba è storia nostra, fa parte dello spessore che chiamiamo "umanità ".

Abbiamo lasciato per ultimo quello che solitamente è indicato come il carattere distintivo delle fiabe (di queste fiabe, cioè delle fiabe della tradizione popolare): il "magico", il " meraviglioso ", confusamente sentito come una specie di scintillio fatto apposta per affascinare gli occhi dei bambini, come le collane di vetro colorato erano destinate ad affascinare, nei racconti degli esploratori e dei missionari, i bambini-selvaggi. E questo ci sembra, francamente, un equivoco.

Intanto, questo " meraviglioso " delle fiabe poteva apparire meraviglioso una volta. Ma oggi? Sì, va bene, gli stivali delle sette leghe: ma il bambino del settanta va in automobile con suo padre, di velocità superumane ha esperienza diretta e personale. I tappeti volanti non possiedono più la virtù di sbalordire che debbono aver posseduto quando non c’erano i jet, i missili intercontinentali, le astronavi. Nelle fiabe si strofina un acciarino, ed ecco comparire un servo (o un cane, o un diavolo, secondo le circostanze): ma il bambino gira un interruttore ed ecco si accende una lampada, ne gira un altro e sul teleschermo compaiono immagini che si muovono e parlano. Nelle fiabe si può dire "tavolino, apparecchiati" ed ecco comparire sulla tovaglia la più perfetta delle "omelettes confiture"; noi a tanto non siamo arrivati, ma possiamo dire " bucato, lavati ", " piatti, sciacquatevi ", e le macchine obbediscono. Ridotte all’osso, tante meraviglie delle fiabe ci appaiono oggi semplicemente delle ipotesi diventate realtà, perfino realtà banali, addirittura scoccianti. Non si sono formate come ipotesi: ma, oggettivamente, lo sono.

Dunque nella loro realtà oggettiva tali "meraviglie" del fiabesco non appaiono al bambino come " meraviglie ", ma come ipotesi, come possibilità. Il " tutto è possibile " della fiaba (che prima registravamo come adeguato alla mentalità infantile che non conosce leggi di natura) ci si rivela, da questo punto di vista, profondamente educativo. Esso mette in movimento una facoltà indispensabile allo sviluppo morale e intellettuale non solo del bambino, ma dell’uomo completo: l’immaginazione. Nella fiaba il bambino contempla le strutture della propria immaginazione: di più, con l’aiuto della fiaba se le fabbrica egli stesso. Si può obiettare che l’immaginazione non è essenziale all’uomo così come lo desidera e lo promuove una società che ha il mito della produzione e quello del consumo. Un buon esecutore-produttore, un consumatore docile ai consigli della pubblicità (commerciale o politica) non deve avere immaginazione: deve soltanto essere disponibile per tutti i condizionamenti. Nella costruzione di questi condizionamenti la fiaba è un granello di sabbia negli ingranaggi, come la musica, la poesia, la pittura, il gioco, come tutte le attività disinteressate (almeno oltre il livello in cui anche queste attività interessano il ciclo produzione-consumo). Ma l’uomo completo deve, dovrà essere anche un creatore: per esempio deve, dovrà saper immaginare e creare un mondo diverso e migliore di quello in cui è capitato a vivere. La fiaba parla al bambino creatore. Lo aiuta a costruirsi una mente aperta. Da sola non basta certo, a un’educazione moderna. Ma privare il bambino della fiaba si risolverebbe, secondo noi, in un suo netto impoverimento e inaridimento. Dopo questa apologia della fiaba, bisogna ora sentire i suoi critici ed accusatori. Lo faremo nel prossimo articolo.

3. James Bond litigherà con il lupo cattivo?

Dopo aver fatto l’apologia della fiaba abbiamo il dovere di riportare gli argomenti contrari, che non sono pochi né di scarso rilievo. A noi sembrano tutti confutabili, ma naturalmente non pretendiamo di aver sempre ragione. La loro principale debolezza nasce, secondo noi, dal fatto che non si tratta di argomenti suffragati da indagini scientifiche, da sperimentazioni pedagogiche, da tests psicologici: sono opinioni, né più né meno delle nostre. Le raggrupperemo sotto sei titoli principali. E se il nostro repertorio sembrerà incompleto, siamo disponibili per tutte le correzioni del caso.

L’avventura umana

1) Le fiabe nuocciono a un'educazione moderna perché rappresentano una evasione dalla realtà. A un’obiezione del genere si potrebbe rispondere che le fiabe fanno parte esse stesse della realtà (storica, letteraria, sociologica, folcloristica), ma la risposta avrebbe del sofisma. Tra l’altro non a tutte le fiabe sarebbe lecito conferire un diploma di " realtà ". Le fiabe popolari tradizionali, quelle raccolte in Germania dai Grimm, in Russia da Afanasiev, in Italia da generazioni di studiosi che hanno avuto in Italo Calvino – in tempi recentissimi – l’ultimo e sicuramente il più geniale dei trascrittori e ricreatori, hanno, come s’è visto, troppo profonde radici in una lunga avventura umana perché si possa tacciarle di evasività.

Tutt’altra cosa sono le fiabe sorte, dal settecento in qua, per imitazione letteraria, o mondana, o cortigiana delle autentiche fiabe popolari: c’è stata anche una moda delle fate, e le fate figlie della moda è giusto che periscano con quella moda. Analogamente, bisogna tener presente la distinzione tra "fantasticheria" e "fantasia". La fantasticheria è una fuga dalla realtà; la fantasia è una dimensione della realtà umana. Per via di fantasia si può entrare nel cuore del reale altrettanto a fondo che per via di scienza. Le fiabe non allontanano dalla realtà: la osservano e la rappresentano da un particolare e liberissimo punto di vista, ecco tutto. Si può arrivare alla realtà entrando dalla porta o entrando dalla finestra. Si può (con l’aeroplano si può, alla lettera) osservare la realtà dalle nuvole. Chi passa in una galleria di specchi deformanti è sempre in grado di riconoscere il proprio volto nelle deformazioni, negli stravolgimenti, nelle caricature che lo perseguitano e che, esagerando ora l’uno ora l’altro particolare, possono perfino rivelarne il significato meglio di uno specchio di normale fedeltà.

2) Le fiabe nuocciono alla formazione dello spirito scientifico, perché suggeriscono interpretazioni arbitrarie dei fenomeni, sostituiscono l’immaginazione alla osservazione. Già, ma bisognerebbe negare il ruolo dell’immaginazione nella formazione di uno spirito scientifico. Si capisce che debbono sparire, dai libri di lettura delle scuole, i raccontini in cui il vento è spiegato con il respiro degli angeli e le leggende religiose sono presentate non come leggende, ma come spiegazioni dei fatti (per esempio, del colore del pettirosso). Non si capisce, invece, perché un atteggiamento scientifico verso la realtà dovrebbe limitarsi alle attività di classificazione, misurazione, sperimentazione. La capacita di formulare ipotesi non è frutto di semplice preparazione matematica, ma essenzialmente di immaginazione applicata allo studio della realtà. Lo scienziato deve saper immaginare almeno quanto deve saper misurare, classificare, eccetera. Deve saper supporre, per esempio, forze ancora sconosciute. Deve affrontare l’ignoto, procedendo per tentativi. Il ruolo dell’immaginazione nella progettazione dei voli spaziali ci sembra evidente. La libertà di ipotesi che è costitutiva della fiaba è essenziale anche alla ricerca scientifica.

I cosiddetti " orrori "

3) Le fiabe sono piene di particolari orridi, di avvenimenti crudeli, perfino sanguinosi, che possono spaventare il bambino, compromettendo il suo equilibrio. L’argomento si presenta, a livello di " senso comune ", come un'eredità dei tempi in cui le signore, andando a teatro, raccomandavano alla balia, o alla cameriera, di " non riempire la testa ai bambini con le loro fole ", perché poi avevano paura del buio. A più alto livello ci si può imbattere nella battuta di Umberto Eco secondo cui la prima immagine dei forni crematori nazisti si trova nel forno della strega della fiaba di Haensel e Gretel. A noi i cosiddetti "orrori" delle fiabe sono sempre sembrati di tipo, più che altro, marionettistico.

I pupi siciliani non sono meno sanguinari, né meno o più innocui del lupo di Cappuccetto Rosso. " Passò quer tempo, Enea... ", come dice il Belli. Ossia, è lontano il tempo in cui quegli orrori – residui, come s’è visto, di riti e di miti antichissimi – potevano veramente spaventare, non pure i bambini, ma i loro genitori. Quel lupo può atterrire un bambino solo nella misura in cui egli ha già, dentro di sé, un oscuro spavento. Se ascolta la storia dalla voce della madre, o del padre, egli si sente abbastanza sicuro e protetto da affrontare non uno, ma cento lupi. Se gliela racconta qualcun altro, per tenerlo buono in assenza della madre, o del padre, il lupo può diventare il simbolo dei pericoli che egli già sentiva di correre, essendo stato (sia pure provvisoriamente) abbandonato dai genitori nel bosco della vita. Il lupo funziona allora non già da causa, ma da sintomo di uno squilibrio preesistente.

L’esperienza della paura

Né bisogna dimenticare che, in un contesto tranquillante, in compagnia dei genitori e dei nonni, la stessa esperienza della paura è – entro certi limiti – piacevole: e su questo si basa il successo del gioco di "bu-bu-settete", e di altri giochi in cui il bambino sperimenta e assapora un brivido di paura. Piacevole e persino... utile: perché stimola meccanismi di difesa che – per ora e per qualche millennio ancora – sono indispensabili. La vita è piena di pericoli reali e la temerarietà, l’assoluta ignoranza del pericolo, non sono il modo migliore di affrontarli.

4) Le fiabe sono dannose ed esercitano nell’insieme un’influenza regressiva perché presentano modelli culturali superati, da cui il bambino non può apprendere nulla di positivo. Questo è l’argomento meno debole contro le fiabe. Checché si pensi delle loro origini, è indubbio che esse hanno preso, negli ultimi secoli, i colori del mondo contadino che le conservava e tramandava. Colori arcaici, propri di una visione della vita, di una concezione del mondo da cui lo stesso mondo contadino deve liberarsi, per entrare nella storia. La pretesa "saggezza" delle fiabe, è quella stessa dei " proverbi ": una saggezza che, per dirla con un proverbio singolarmente autocritico, "non è buona nemmeno a fare cavicchi " (in milanese: "i proverbi di vicc, hinn nanca bon de faa cavicc").

Si tratta, però, di un discorso contenutistico che non tiene conto delle caratteristiche dell’esperienza reale che il bambino compie ascoltando le fiabe (così come l’abbiamo descritta, a modo nostro, nel secondo articolo di questa serie). La fiaba ha un piede saldamente piantato nel mondo del gioco. Il bambino che l’ascolta "gioca" a crederla vera: come si "gioca" a teatro, o all’opera, accettando le convenzioni della rappresentazione teatrale. Il gioco non fa questione di contenuti. Altri sono gli elementi che esso valorizza e porta in primo piano. Il gioco si serve di qualsivoglia "materia prima" per fabbricarsi il suo " prodotto finito ", che è sempre in relazione a una esperienza attiva, e positiva, della personalità. Il gioco riesce dunque anche a neutralizzare, a rendere innocua, l’influenza regressiva che potrebbe essere propria di certi contenuti. Giocare è sempre utile, sempre positivo.

5) I bambini hanno bisogno di fiabe: ma, al posto delle vecchie fiabe, che appartengono a una tradizione morta, bisogna dar loro fiabe contemporanee. L’argomento si riallaccia al precedente, ma lo scavalca. Per intenderne la portata bisognerebbe definire con chiarezza la "fiaba contemporanea". La quale, ovviamente, non può essere quella che tenti di far rivivere motivi, temi, personaggi e moduli della fiaba classica: che sarebbe una operazione in pura perdita, un esercizio letterario fuori del tempo; a parte l’impossibilità di ricostruire a tavolino un mondo alla cui formazione hanno posto mano, se non proprio "cielo e terra", millenni di tradizione. Fiaba contemporanea sarà dunque quella che tenterà di inserire nella dimensione fiabesca cose, persone, problemi del nostro tempo; o che semplicemente userà il linguaggio fiabesco per parlare, con i bambini d’oggi, delle cose d’oggi; o che, muovendosi sulla stessa linea, tenterà di rinnovare il linguaggio fiabesco. In senso lato, "fiaba contemporanea" sono i cartoni animati di Walt Disney, i fumetti, e forse perfino i film dell’agente 007, basati su un ritmo che è, ridotto allo schema, lo stesso delle antiche fiabe: un eroe riceve una missione pericolosa, la porta a termine contro nemici dotati di superpoteri, aiutato da amici e da oggetti fatati (la macchina che semina olio, chiodi, pallottole a mitraglia), riporta la vittoria e quindi si può sposare (o passare un week end alle Bermude con una delle tante belle ragazze del film). "Fiaba contemporanea" fu – ai suoi tempi – quella di Andersen (e rappresentò anche la prima e forse l’ultima iniezione di cristianesimo nel mondo pagano delle fiabe; più laica, se non pagana, la strada battuta da Pinocchio, altro personaggio fiabesco e contemporaneo ai suoi lettori...).

La fiaba illustrata

Non abbiamo niente contro la " Fiaba contemporanea ": anzi...

Ma, di nuovo, non vediamo perché essa debba senz’altro sostituire la fiaba classica, alla quale si riallaccia. I due tipi di fiabe possono pacificamente convivere e integrarsi. La fiaba classica, dal canto suo, ha dimostrato ad abbondanza la sua capacita di adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, diventando fiaba illustrata, cinematografica, televisiva. Essa rimane – se questa sola virtù, per assurdo, le dovesse rimanere – una introduzione indispensabile alla " fiaba contemporanea ".

6) Le fiabe non servono a niente. Non è vero, e lo abbiamo dimostrato. Se la fiaba non serve a niente, non serve a niente nemmeno la musica, e l’arte in generale è superflua, e il gioco un reato contro l’educazione utilitaria, la poesia un peccato mortale, eccetera. Ci sono cose che effettivamente, esaminate da un certo punto di vista, " non servono a nulla ". Ma da quale punto di vista? Da quello – e torniamo su un argomento di cui ci siamo gia serviti – di una società grettamente e aridamente fondata sul ritmo "produzione-consumo ".

L’ideale educativo

Non è indispensabile, per una grande fabbrica di automobili, che i tornitori amino Beethoven, che i tecnici leggano Montale o giochino al tennis, se non nella misura in cui simili occupazioni possono essere concepite come " svaghi ", momenti di " relax " tra una catena di montaggio e l’altra. Ma l’ideale educativo dell'ufficio personale di una grande azienda, privata o pubblica, non è necessariamente il migliore degli ideali educativi. Un uomo completo è un’altra cosa. E di questa " altra cosa " fanno parte attività che non rientrano nel computo del salario e nelle statistiche della produttività, a cominciare dall’impegno politico e sociale. Le fiabe, come la musica, come la poesia, eccetera, appartengono alla vita dell’uomo libero, dell’uomo completo. Possono perfino rappresentare una sua difesa contro la totale resa in schiavitù. Su questo punto l’ideologia produttivistica si può incontrare con l’utilitarismo del senso comune, assai diffuso anche tra le classi che di quell’ideologia fanno le spese. Pazienza, un pregiudizio in più da combattere...

Le fiabe, per un singolare rovesciamento della loro posizione nella storia umana, hanno oggi più a che fare con la dimensione dell’utopia che con quella della nostalgia del passato. Sono alleate dell’utopia, non della conservazione. E perciò, oltre che per tutte le ragioni che abbiamo elencate, noi le difendiamo: perché crediamo nel valore educativo dell’utopia, passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo. Pollicino ha ancora qualcosa da dire.


 

 

 

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