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Gianni Rodari

L'ora della lettura

     Battisti Lucio - Mi ritorni in mente

Mi accade spesso di immaginare la scuola (e col verbo "immaginare" eccomi libero di dimenticare per un momento eccezioni e obiezioni) come un universo che abbia un’esistenza puramente burocratica, con una scala di valori (il tema, il compito in classe, il voto, la pagella, il registro, lo scrutinio, la disciplina ecc.) fissata dall’alto, senza tenere in minimo conto la realtà del bambino obbligato a muoversi in quell’universo: con un suo calendario di priorità, di scadenze, di adempimenti (prendo volentieri in prestito questi termini del linguaggio di Moro, che mi sembra il più adatto a rappresentare la vanificazione, la sparizione del concreto, la disintegrazione del reale. Improvvisamente, un Martedì mattina alle dieci, tutti gli abitanti (o i prigionieri) di questo universo astratto, di questo pianeta di convenzione, debbono "parlare della mamma" o "scrivere una lettera ad un amico malato", o riflettere sul proverbio secondo il quale "le bugie hanno la gambe corte". Che trenta ragazzi, nello stesso momento, possano sentire il bisogno intimo e infrenabile bisogno di esprimere i loro sentimenti per la madre o di fingere odio e riprovazione per il brutto vizio di mentire, è abbastanza da escludere. Se poi, per giunte a dannazione, non avessero nemmeno un amico a letto con al rosolia, bisogna che lo inventino.

In questo universo il libro entra, generalmente, solo per essere assorbito dal sistema di relazioni burocratiche in vigore. Testo di storia, o antologia di letture, esso viene prima di tutto spogliato e svuotato di personalità, affinché si renda conto di essere un mero strumento per lo svolgimento del programma, per gli esercizi, le interrogazioni, i voti, gli scrutini, le pagelle, eccetera. In questo sistema "il gusto della lettura" è il povero agrimensore di Kafka che si aggira ai piedi del castello, cercando invano una via per entrare, magari per mezzo di potenti raccomandazioni, nelle grazie dei superiori. Ogni sforzo è indirizzato ad una meta che non lo riguarda: la misurazione del profitto, la scrittura ufficiale sul registro. Entità che starebbero, in un mondo di cose vere, infinitamente al di sotto di lui (per esempio l’analisi logica e l’analisi grammaticale) lo dominano senza pietà. Il bambino, costretto a tener conto delle leggi interne della scuola, come il soldato deve tener conto di quelle della caserma, finisce per considerare il libro né più né meno di come il soldato considera la ramazza, usandola coscienziosamente, se è di servizio, per non incappare nella consegna, dimenticandola del tutto quando è in libera uscita.

Milioni di italiani che a scuola leggevano passabilmente, appena raggiungono il traguardo della "libera uscita" dimenticano con grande naturalezza l’esistenza del libro. Naturalezza è la parola giusta. In natura non si danno libri. Non si nasce con l’istinto di leggere, come con quello di mangiare. La famiglia e la scuola si accontentano (parlando sempre in generale) di innestare nei bambini e nei ragazzi, per quel che riguarda la lettura, come per tante altre cose, un riflesso puramente scolastico. Finché suona il campanello della scuola, sgorga la saliva, la pagina - bene o male - si apre. Ma questo riflesso non ha niente a che vedere con una reale esigenza culturale: non tocca il nocciolo della questione, perché si innesta molto superficialmente, appena appena nel grembiule dello scolaretto.

Che il libro abbia una sua vitalità autonoma, che possa interessare, divertire, commuovere, spingere a pensare e ad agire, ciò riguarda la scuola in modo del tutto secondario: non si può dare un voto al divertimento o alla commozione. Tutt’al più, se il bambino non guarderà dalla finestra quando "si fa lettura", ne verrà tenuto conto al momento di distillare il voto in condotta. Il piacere disinteressato non ha cittadinanza tra i banchi, come non ne avrebbe un gatto che, approfittando della disattenzione del bidello, si infilasse tra i medesimi (e chiedo scusa a Margherita Zoebeli, che nella sua scuola di Rimini lascia liberi i gatti di andare venire a loro piacimento).

Le condizioni di una lettura disinteressata e veramente educativa sono molte e complesse, e assai raramente si realizzano nella scuola. Personalmente non sarei capace di esporle in modo ordinato e convincente. Posso accennare ad alcune che mi sembrano particolarmente importanti.

La prima è questa: che la lettura sia, in qualche misura, fine a se stessa, come il gioco. Quando il maestro, durante gli ultimi dieci minuti di lezione, prima che suoni il campanello, premia l’attenzione o il buon lavoro della scolaresca leggendo qualche pagina di Pinocchio o di Robinson Crusoe, egli considera quei momenti probabilmente come una semplice distensione. Al contrario, invece, è assai difficile che in quella mattinata egli abbia fatto qualcosa di più utile.

Un’altra condizione è che la lettura sia anche dialogo col libro, discussione alla pari, da uomo a uomo. Mi succede spesso di citare il caso di una scuola, quella di Vho di Piadena dove insegna il maestro Lodi, che mi sembra, al proposito, esemplare. I ragazzi (erano allora in quarta elementare) lessero la favola della "Capra del signor Seguin" - la famosa capra che cerca la libertà e che, per aver disobbedito al padrone, finisce mangiata dal lupo. La morale della favola li lasciò perplessi. Ne seguì una discussione assai vivace, al termine della quale i ragazzi decisero di riscrivere la favola a modo loro, decretando il trionfo della capretta e, ovviamente, di un loro ideale di libertà (i ragazzi non hanno bisogno di conoscere il latino per sapere che "de te fabula narratur"). Questo mi pare un esempio di lettura viva. Esso presuppone un’abitudine alla libertà, alla discussione, un costume democratico, in cui le opinioni dei ragazzi non sono "rumore" da mettere a tacere. Presuppone una piccola comunità in cui valori come il voto, la pagella eccetera, contino assai meno di altri, tra i quali, non ultimo, il piacere di lavorare insieme.

Una terza condizione mi sembra quella di mettere nelle mani dei ragazzi i libri che contano. Si tratti di letteratura infantile o di classici, di racconti o di volumi di divulgazione culturale e scientifica, questi libri dovrebbero rispondere ad un requisito comune: dovrebbero, cioè, appagare il desiderio del ragazzo di essere trattato da uomo, dovrebbero procurargli un tuffo in acque profonde, dove non si corre il pericolo di battere la testa sul fondo alla prima bracciata. Dovrebbero essere molti, per consentirgli di scegliere, di sottrarsi ad ogni imposizione; molti, anche per rispondere alle sue curiosità, ed ai suoi umori, che sono molti, e spesso mutevoli, confusi, instabili. Si dice con facilità: "Ai ragazzi piace questo", "Ai ragazzi piace quest’altro". Ma allo stesso ragazzo, nel corso della stessa giornata, possono piacere libri assai diversi tra loro. E se non trova nei libri quello che cerca, lo cercherà altrove. Per esempio, cercherà nei fumetti l’elemento comico, umoristico, di cui i libri sono spesso tanto avari: e avrà ragione lui, naturalmente. Se i libri sono meno attuali della televisione, meno interessanti del cinema, meno divertenti di Topolino, è colpa loro.

Siamo arrivati abbastanza lontano dall’insegnamento della lingua. Ma è proprio qui che si voleva arrivare. La lettura - appena terminato l’inevitabile apprendistato tecnico, che però dovrebbe poter avvenire, oggi, in modo vivo e per nulla meccanico - non fa parte dell’"insegnamento della lingua" , un concetto troppo limitato per contenerla. Essa fa parte di un’attività educativa più vasta, nella quale la responsabilità dell’insegnante di lettere non è superiore a quella dell’insegnante di scienze, e la responsabilità delle famiglie non è da meno. Non solo perché la "lingua" s’impara tanto studiando botanica che studiando lettere; e s’impara fuori della scuola non meno che a scuola (può darsi più fuori che dentro); ma perché la lettura riguarda la persona, riguarda tutto l’uomo. Sotto i panni dello scolaro o dello studente che "impara la lingua" dovremmo riuscire a vedere il personaggio più importante, cioè il giovane uomo che vive e impara a vivere.

Vediamo così agitarsi in folla, attorno al libro di lettura, le più varie esigenze di riforma: di programmi, di metodi, di strutture, di attrezzature; esigenze di aggiornamento psicologico, pedagogico, didattico, sociologico. Non si può toccare una ciliegia senza scuotere tutto il mazzo. Ma io credo che, tanto tra gli insegnanti quanto nel gran pubblico, la coscienza della necessità di riforma possa più facilmente formarsi se si riesce ad evocarla intorno ai problemi sostanziali. Uno di questi mi sembra il rapporto tra il ragazzo e la lettura.

 

 

 

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