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Gianni Rodari

Scrivere oggi per i bambini


     Battisti Lucio - 7 e 40

Scrivere significa in primo luogo scrivere per se stessi; ma scrivere per i bambini non significa scrivere per se stessi. Significa, per usare un paragone musicale, usare uno strumento particolare e non tutta l’orchestra. Usare una chiave e non tutte le chiavi.

Vorrei cominciare parlando di qualche caso che conosco (per esempio del mio), non per fare dell’autobiografia, ma per partire da dati precisi. Intorno al ’49-50 ero già un giornalista abbastanza contento della sua condizione. Lavoravo in un giornale nazionale a Milano. Avevo la qualifica di inviato ed ogni seria intenzione di fare di quel lavoro il perno della mia vita. Ero già sulla trentina, da un pezzo non ero più un ragazzino. Ed ecco che un giorno il direttore del quotidiano decide di dedicare una pagina domenicale ai bambini. Chiesero a me di fare questo angolo per i bambini. Ero il solo ad aver fatto, anni addietro, il maestro di scuola e questo era l’unico titolo che suggeriva quella scelta. Avevo anche una certa predisposizione per i pezzi brillanti di fantasia o di umorismo. Cominciai così a pubblicare settimanalmente filastrocche e raccontini per i quali ritrovavo il mio gusto giovanile dei surrealisti francesi letti da studente in biblioteca. Quasi subito incominciarono ad arrivare lettere di bambini che chiedevano filastrocche per il padre tranviere, per il padre vigile urbano, per il padre impiegato e così via.

Le filastrocche nascevano, per così dire, dalla mano sinistra, ma mi divertiva inventarle tenendo conto delle due condizioni di cui non potevo non avvertire il significato: la prima che l’angolo per i bambini non appariva in un giornale per bambini ma in un quotidiano nazionale assai impegnato e socialmente vicino alle classi popolari; la seconda che l’angolo diventava sempre più un dialogo in diretta con i bambini. Non una cosa fatta a tavolino, ma in presa diretta con i lettori, i bambini e le loro famiglie. Non sono, dunque, arrivato ai bambini dalla strada della letteratura, ma da quella del giornalismo; tanto è vero che ho continuato anche dopo a fare il giornalista. Nel ’50 fui praticamente costretto, anche se non del tutto convinto, a dirigere un settimanale per bambini e ragazzi e per caratterizzarlo, inventai una serie di personaggi che conoscevo bene dai tempi in cui, da cronista, avevo frequentato quotidianamente i grandi mercati di Milano per studiare i prezzi delle patate, del pesce, della carne, per occuparmi dei problemi della spesa delle famiglie. Cosi nacquero dei personaggi come Cipollino, Pomodoro, le contesse del Ciliegio, Pero Pero, mastro Uvetta ecc. In quel periodo una casa editrice mi propose di pubblicare un volumetto delle mie filastrocche e mi propose di scrivere un libro, un romanzo addirittura, sui personaggi che avevo inventato per un libro diverso: Cipollino e Pomodoro. L’idea mi divertì. Preparai una scaletta (lo scheletro del racconto) presi un mese di ferie e fui ospitato da un contadino nella campagna modenese dove in un mese feci la prima stesura. La mattina mi svegliavano all’alba. La figlia del contadino bussava alla porta: " Dai, Gianni, che sei qui per lavorare, mica per dormire! ". La massaia mi chiedeva sempre a che punto fossi arrivato. La mattina che le dissi che ero arrivato a pag. 100, festeggiammo con i vicini e con i bambini.

Così nacquero i primi due libri non a tavolino ma in un contesto ricco di stimoli a diretto contatto con la realtà, con la piena libertà di usare la fantasia. Insomma, ho scoperto così un po’ per caso un lavoro appassionante che mi metteva decisamente dalla parte dei bambini. Negli anni seguenti questo scrivere divenne sempre più uno scrivere in mezzo ai bambini, con i bambini, giocare con loro, mescolare le immagini della mia fantasia con le immagini della loro fantasia.

Così ho preso l’abitudine di procedere, nel fare nuovi libri, per tre tappe: prima, raccontare a voce ai bambini nelle scuole o dove potevo incontrarli le storie che mi venivano in mente; sceglievo bambini diversi, classi e scuole dislocate nelle varie città italiane.

Seconda tappa: constatato che l’oggetto poteva funzionare, che non era lessico familiare limitato al mio rapporto con un bambino o con un gruppo, allora passavo alla stesura scritta e qui prendeva sempre più piede lo studio dei meccanismi della fiaba e del racconto, la riflessione sull’immaginazione e sugli scrittori che sentivo più vicini da Palazzeschi a Zavattini.

Terza tappa: dare lima, con la lettura ai bambini, prima che la pagina diventasse testo stampato. Portavo nelle scuole queste cose stando attento alle reazioni dei bambini. Anche i bambini sono critici letterari. Più che ai loro giudizi bisognava stare attenti alle loro reazioni. Se mentre io gli leggo la storia si voltano a parlare dall’altra parte significa che la storia non gli interessa; se si distraggono nel momento in cui secondo me dovrebbero ridere, vuol dire che la battuta non funziona quindi il meccanismo va studiato meglio.

Così sono venuto elaborando tecniche inventive, materiale di funzionamento della fantasia che una volta fui invitato ad esporre ad alcuni insegnanti di scuola materna. Così, non a tavolino, ma nel contesto di questa esperienza a contatto con gli insegnanti, è nato il mio libro Grammatica della fantasia. Credo che l’aspetto più importante del tipo di lavoro che sono venuto rapidamente esponendo sia stata la conquista di un modo di scrivere, per i bambini, in presa diretta con il loro mondo mutevole. Ciò mi permetteva di cambiare e aggiornare le mie opinioni sui bambini, sulla scuola, sul mondo, insomma di rifare continuamente i miei studi, di farmi rieducare continuamente dai bambini.

Mi sono trovato senza averlo programmato ne’ desiderato sullo scaffale della letteratura dell’infanzia. C. Dickens teneva scritta sulla sua scrivania una massima che dice: " Fa bene quel che ti capita di fare ". Ho cercato anch’io di obbedire a questa massima senza sentirmi offeso, non considerando che scrivere per bambini significava essere di serie B o in un ghetto. I bambini non sono esseri umani di serie B, ma per secoli e millenni sono cresciuti separati, senza diritti, sconosciuti, insomma in un ghetto. Ma ne stanno uscendo. Da qualche tempo li ha scoperti la pedagogia poi li ha scoperti la psicologia, la pediatria, la pubblicità, l’industria (giocattoli, prodotti alimentari ecc.). I bambini sono diventati in realtà più importanti. Per la psicanalisi sono diventati addirittura la chiave per capire gli adulti, per interpretare i comportamenti sociali. Per ultima è arrivata anche l’ONU, prima emanando una carta dei diritti infantili, poi programmando l’anno del fanciullo. Personalmente credo che i bambini abbiano diritto non a un anno di attenzioni, di problemi, di esposizioni, di mostre, ma alla attenzione permanente e crescente di ogni giorno, di ogni anno, in ogni paese. Allora io credo che ogni anno è anno del bambino. Allora mi sta bene l’anno dei bambini.

Il bambino è una scoperta recente. Nelle società primitive era un cucciolo che acquistava il suo nome solo nell’adolescenza dopo cerimonie di iniziazione, anche dopo riti spaventosi. Nelle società antiche era proprietà del padre come i mobili e gli animali. Nel Medioevo era proprietà del feudatario. Prima del bambino l’Europa rivoluzionaria del ’700 ha scoperto il buon selvaggio e solo dopo il bambino, quando si ha avuto bisogno della mano d’opera infantile per far funzionare le filature, le tessiture, le miniere di carbone in Inghilterra. Il bambino è stato operaio, è stato lavoratore della terra prima che scolaro. La scuola per tutti è nata in Europa nell’800, quando l’industria aveva bisogno di una manodopera qualificata, capace, almeno, di leggere il nome delle macchine e di interpretare le istruzioni per farle funzionare e i regolamenti. Prima, della scuola per tutti non c’era stato bisogno. E sono stati popoli analfabeti ad inventare la ruota, il linguaggio, l’agricoltura, la metallurgia. Sono stati schiavi analfabeti a costruire le piramidi. Legionari analfabeti a conquistare le Gallie. Servi della gleba analfabeti a lavorare per i grandi signori del Medioevo. L’alfabeto e la cultura sono stati per secoli monopolio di un'élite dominante. Anche le grandi letterature sono nate e hanno prodotto capolavori in società nelle quali la maggioranza dei bambini era soltanto riserva o allevamento di manodopera.

Per quanto riguarda il nostro paese è certo un fatto: la letteratura italiana è nata e si è sviluppata dentro e intorno alle corti signorili: grandi centri di civiltà e cultura sparsi per tutta la penisola. E da queste origini ha tratto e conservato caratteri aristocratici che in parte conserva ancora oggi. La tradizione aulica, non popolare, è stata dura a morire. Essa continua ad agire, tanto che letterati e critici definiscono per inferiori, circondandola di mura di silenzio, la letteratura che chiamano amena, anche se per tanti anni è stata la sola ad arrivare a tutti: giallo, fantascienza, fumetto, cinema, televisione o il libro per bambini. Queste mura, però, si sono rotte in più punti. Per il cinema e per la TV lavorano anche scrittori. Racconti per bambini li hanno scritti anche Moravia e Compagnone. Ai fumetti si interessano anche Oreste del Buono e Umberto Eco. Qualcosa ci hanno guadagnato anche i bambini. Ma non ancora tutto quello a cui avrebbero diritto. I bambini sono pazienti. Nell’800 hanno cominciato a andare a scuola e a consumare libri scolastici. In questi libri si esprimeva soprattutto la pedagogia delle classi dominanti insegnando le virtù necessarie: l’obbedienza, il risparmio, la capacità di sopportare sacrifici ecc. Quanto bastava, insomma, perché crescendo restassero lontani dai sindacati, dalle prime cooperative operaie, dalle società di mutuo soccorso. Ma in quei libri, pian piano, si sono andate infilando le fiabe popolari. Collodi traduce dal francese le fiabe di Perrault e qualche anno dopo mette da parte i programmi scolastici e degli editori per dare vita al suo Pinocchio: il più grande frutto contemporaneo della fiaba classica. Nel Pinocchio rivivono le antiche fiabe toscane, francesi, quelle dei fratelli Grimm e di Andersen. Da Pinocchio in poi il libro per bambini ha cominciato a vivere in Italia non all’ombra della scuola, ma in presa diretta con le esigenze infantili, con la fantasia infantile, con le fantasticherie della crescita, con il desiderio di avventura dei giovani lettori. Ecco insomma, il bambino, conquistare il primo piano, diventare lui l’interlocutore fuori delle mediazioni della pedagogia. Però non dimentichiamo che il maggiore filosofo del nostro tempo, Benedetto Croce, ebbe a negare una volta la legittimità dell’esistenza di una letteratura per l’infanzia. " I bambini scelgono negli scaffali i libri italiani che loro riescono ad adattare e quelli sono i libri per bambini. Ma una letteratura per l’infanzia non esiste ". Questo poteva essere vero per lui. Chi nasce in una casa piena di libri e gli viene data libertà di movimento, può andarsi a scegliere l’Orlando Furioso o il Don Chisciotte o il Robinson Crusoe o qualsiasi altro libro che possa diventare, magari ridotto, un libro per ragazzi. Croce, in fondo, teorizzava un fatto compiuto. Teorizzava il fatto che quando Pinocchio è uscito e pochi anni dopo egli scriveva quella frase, la maggioranza dei bambini italiani non aveva libri. Aveva in mano attrezzi da lavoro. Oggi invece questo discorso cambia. Del resto basta guardare lo scaffale dei libri per bambini e per ragazzi, per misurare l’altezza della liberazione che è toccata al libro per bambini rispetto alla letteratura edificante del primo ’800, rispetto al libro scolastico. I tratti importanti di quello scaffale sono oggi, a mio modo di vedere, tre: le fiabe, le avventure, la divulgazione scientifica con le relative suddivisioni (fiabe classiche e contemporanee, avventure tradizionali e di fantascienza, la divulgazione storica, geografica, tecnica e matematica). Per quello che riguarda la fiaba sento levarsi voci discordi. C’è chi si attarda a denunciarne i contenuti come se le fiabe fossero nate dalla pedagogia anziché dalla vita millenaria dei popoli. C’è chi ne suggerisce il rilievo psicanalitico. Ma le fiabe non sono nate a tavolino da sentori individuali, ma dalla elaborazione collettiva di popoli e generazioni enormemente distanti tra loro. C’è chi rimpiange la fiaba come qualcosa che non esiste più o quasi e c’è chi annuncia addirittura la fine della dimensione fantastica sia dei bambini che degli autori. Io a questo punto ci andrei piano. Non sono mai stati stampati tanti libri di fiabe come oggi. Non hanno mai circolato in Italia, come circolano oggi, fiabe di tutti i paesi (europei, africani, asiatici, sudamericani). La più grande raccolta italiana di fiabe popolari, tradotte dai vari dialetti, ha preso vita recentemente sotto i nostri occhi: sono le fiabe di Calvino. Noi non abbiamo avuto i nostri fratelli Grimm nell’800, abbiamo avuto Calvino pochi anni fa. La fiaba non sta morendo e non è mai vissuta più di adesso. Se cinquanta o cento anni fa le fiabe erano lette e gustate soltanto da un certo numero di bambini, oggi, con la scolarizzazione di massa e l’elevamento di livello di vita popolare, hanno conquistato un numero assai più largo di lettori e di ascoltatori.


 

 

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