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Gianni Rodari testi di poesie e racconti

Pace dei vivi e dei morti

     Canzone per bimbi 03

 

Alberi

Ecco: qui era solito sedersi ed abbandonarsi alla contemplazione. I rami stecchiti degli alberi sono come le dita di una mano intrecciate nella preghiera. Le scuote il vento e le rispecchia la corrente. Di qui ha gettato un fogliettino di carta, in acqua con su scritto un pensiero. Pensa: «Romanticherie!».

E si vede così diverso, ora, e pure seduto su lo stesso sasso dell'anno prima, presso lo stesso fiume che sembra un gigante rassegnato e costretto tra le due rive. Il vento gli sferza la faccia e gli scompiglia i capelli. E' un forte vento autunnale venuto su dalle nebbie dense. Spaccò le nebbie e disegnò con forza le montagne su un repentino azzurro troppo vivido.

Si sente così diverso e così uguale. Qualche cosa è mutata in lui: ed egli se la vede davanti come un oggetto perduto. Ogni stato d'animo che si supera lo si considera un oggetto perduto. Gli rincresceva un po', tuttavia, di rinnegarsi così.

Pensa di nuovo.- «Romanticherie!».

Le montagne ora si stagliano azzurre contro il crepuscolo violaceo. Il vento gli soffia in volto turbini di polvere.

Ogni giorno non ci si stacca forse da quello che si fu prima?

Ed a lui rincresceva, ora. Foglie staccate ondeggiano sulla campagna. Forse era l'autunno. Ma un autunno strano, questo: violento. E forse per reazione a questa violenza egli si sentiva bonariamente malinconico. Pensava a sé con bonomia e nostalgia. Vedeva come in uno specchio tutto ciò che aveva fatto e detto e pensato fin lì: quante cose! E come non sorridere a tante piccole viltà infantili?

Ogni viltà di questo genere è infantile. Come non sorridere?

Vedersi sempre così bimbo con le piccinerie e i subitanei slanci dei bimbi: e tante viltà che ricoprivano tutte le ore dei suoi sedici anni.

Sorrise ancora, accoratamente e si sentiva alle spalle l'urlìo del vento.

Il giorno dopo era diverso: era nuovo.

Provava un caotico desiderio che tutte le epoche e tutti i fatti e tutti gli uomini esistessero in una sol volta. E fosse lui tutto: si sentiva così mutevole e così poco di carattere che sentiva in sé tutti i caratteri e riuniva in sé tutti gli stati d'animo.

E per tutto quel giorno gli balenò allo sguardo quella sintesi di tutti i tempi.

E il giorno dopo ancora era diverso. Non aveva un carattere come un binario su cui camminare: ed ogni giorno aveva un carattere, ogni giorno un'idea fissa, ogni giorno una strada.

Ma un pensiero era costante in lui, o meglio, un bisogno: quello di trovare, scavando nella sua umanità un ideale di vita eroica. Non avrebbe mai osato dirlo a qualcuno: questo pudore della sua parte migliore era a volte sensibilissimo.

E rare volte parlava apertamente con se stesso, di questo bisogno di eroismo in lui che non sapeva essere padrone di tutto se stesso.

La causa di ogni suo male era questa abulia che non gli permetteva di praticare l'ideale cristiano, di cui ammirava la grandiosità come di chi sa essere libero perché sa offrirsi. E questo era eroico: sapersi offrire per essere libero. Non sapeva. Si allontanava ogni giorno più dal cristianesimo a cui s'era rivolto da poco. Non sapeva vivere la verità, che è la vera vita eroica.

Aveva bisogno di essa: ma per lui occorreva una verità quotidiana. Ed ogni giorno una vita tutta nuova, diversa nei principii conduttori. E non sapeva: scavava in sé.

Ed a volte si fermava: guardava le pareti della fossa in cui si trovava e sorrideva. Erano tappezzate di piccole viltà. E come non sorridere?

 

«Questa la sà anche quello del gesso!» esclama don Severino e si voltava giusto in tempo per vedere Gianfranco che non sapeva se entrare o ritirarsi alla vista di tanta gente nel salotto del parroco. C'eran due o tre giovanotti, il podestà ed il vecchio Nicola.

«Avanti! Avanti! » gridò il prete.

Un incrociarsi rumoroso di saluti e di strette di mano e Gianfranco è accomodato in un seggiolone con tre cuscini, presso il fuoco del caminetto.

In cucina Brigida faceva saltar le castagne nella padella per le bruciate. La sentiva soffiare per far salire la fiamma. C'eran dei bicchieri pronti sul caminetto.

«Bicchieri delle grandi occasioni» osservò tra sé. E si guardava attorno. Aveva cessato d'essere l'oggetto di tutte le attenzioni, che si rivolgevano di nuovo alla storiella di Nicola, della quale don Severino aveva detto che «la sapeva anche quello del gesso». Così si accomoda un uomo.

«Saluti, strette di mano, seggiolone con tre cuscini ed io sono a posto per tutta la sera. Che dico? Per tutta la vita... Per tutta la vita, sì. Perché no? Non fanno forse così? E un uomo è a posto. Finito. Fritto». Era adirato con se stesso e di conseguenza lo era con tutti.

Si disprezzava. Si chiamava un «affogato nella propria carne e nella propria vita». Affogato con un masso al collo ed una corda alle mani. Una cosa di carne. E non più in su.

E la Brigida aveva portato le caldarroste fumanti. Parlavano tutti in una volta: poi d'improvviso si fece silenzio. Don Severino intonava il Rosario dei morti.

«Già!» pensò Gianfranco. «E' la sera dei Morti. Oggi è il giorno dei Morti. Ma sì, oggi. I Morti». Gli sembrava di accorgersene solo ora che si diceva il Rosario intorno alle caldarroste, secondo le usanze paesane.

Se ne accorgeva solo ora. In casa non ne avevano parlato. Non c'era nessun morto prossimo da ricordare. Ed era la sera dei Morti.

Don Severino recitava le Avemmaria con voce pacata e grave, con sfumature d'inflessione nella voce.

Ed egli ridiventava infinitamente triste, rispondendo. Pregavano dal Signore il riposo per le anime dei morti.

«Ma che cosa è morto di loro? L'anima vive: il corpo si dissolve, ma vivrà. Dunque la loro non è vera morte. t un'altra vita. La loro morte è una seconda nascita, e stavolta cosciente. Ogni giorno io rinasco ed ogni sera torno a morire; ma per me non c'è riposo». E gli pareva non di pregare per i morti, ma per sé, per la sua pace: per la pace della sua carne tormentata, del suo spirito avido di sempre nuove esperienze. «Pace su tutto questo, o Signore!» E sentiva intorno a sé i morti che gli davano della loro pace gaudiosa.

Ed era tanto triste: di quella tristezza irosa, che nasce dalla sazietà, quando scompare la bonomia ironica d'un falso concetto di sé.

Dopo il Rosario uscì con un pretesto. Non si sentiva bene nella rinascente allegria dei compagni.

 

Buio. A sinistra la Chiesa. A destra il Cimitero: due file di cipressi, due file di croci, due file di stelle. Si appoggiò al cancello del Cimitero e gli uscì dell'anima sincera l'invocazione cristiana: «Requiem aeternam dona eis, Domine». Ed a lui un'altra pace.

D'improvviso gli parve che le sue piccole viltà crescessero smisuratamente: le piccole viltà della sua adolescenza assommate nella grande viltà di non saper vivere secondo la propria fede, di non saper vivere il suo Cristianesimo eroico: la grande viltà d'essere vile di fronte a se stesso ed ai morti di tutta l'umanità. Se li sentì vicini, grandi, seri della serietà della morte.

Tra di essi, infinito il numero degli Eroi: ed egli, cresciuto in tempi eroici, credente in un ideale eroico, era solo un vile. E pregava, umiliato al Dio che era la loro gloria, la forza di combattere se stesso per la pace senza fine.

 

Gianni Rodari - 1 novembre 1936

 

 

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