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     PFM - Impressioni di settembre

Don Primo Mazzolari - Opere

Cicognara - Chiesa di Santa Giulia

Il compagno Cristo

Vangelo del Reduce - Prologo, I., II.

 

 di Don Primo Pazzolari

 

 

 

Prologo

I.

Se volete

L’uomo oggi è e domani non è più. E quando non è più sotto gli occhi, si cancella ben presto anche dalla mente.

L ‘Imitazione

Quando queste pagine verranno stampate, la guerra sarà finita.

Una volta si diceva che le guerre finissero con la sconfitta o con la vittoria. Questa guerra, come ogni altra, ha una sola maniera di finire: finisce male e non porta che del male. Il bene che a volte ne viene, non è mai frutto della guerra, ma una lezione che riu­sciamo a cavarci con fatica per ripararne in qualche modo i guai.

 

Siete tornati.

Tornare fu il vostro desiderio. Il resto non vi ha preso, non vi poteva prendere. Noi non siamo gente di guerra e non potremo mai comprendere le ragioni di quella politica, che vuole la guerra e la rende necessaria.

Siete tornati. Non tutti. Ecco il caso in cui il Van­gelo non ci proibisce di voltarci indietro. 

Chi torna ha una memoria, un cuore, una volontà, un impegno, ove tutti i suoi Morti sono presenti. 

Voi non siete più soli: voi non potete dimenticare. 

Il vostro privilegio di ritornati, se non lo usate per quelli che non tornano, può diventare pericoloso e ingiusto come il capitale che specula sul lavoro, come l’intelligenza che specula sull’ignoranza. 

Questa presenza non è comoda, ma è la vostra for­za e, fino a tanto che non ne avrete un’altra, può darvi la regola dell’agire. 

Una rivoluzione (ogni ripresa di vita umana dopo un periodo disumanissimo è rivoluzione) per cui i Morti fossero soltanto un pretesto di nuove violenze o accaparramenti, ci porterebbe da capo. 

I Morti sono di tutti, sono cosa sacra, e non si pre­stano a chi vuol scavare nuove divisioni o accrescere le già esistenti. Non si barattano i Morti, né con lusinghe partigiane, né false grandezze, né stolti sogni, né pavidi timori. Ricordiamoci di Giuda. 

Tornate, come può tornare un uomo da una guer­ra non sua. D’ora in avanti non ci saranno più nostre guerre. Questo è un guadagno, se pur non ce lo lasceremo truffare come dopo l’altra guerra. Tornate dopo aver sofferto indicibilmente nel corpo e nell’anima, nell’intelligenza e nel sentimento. 

Non mi provo a descrivervi. Voi stessi, che vi toccate, non lo sapete fare; ed è bene, se no, vi fareste paura. Dopo la grandine, invece di misurarne i danni, il contadino riprende da capo, con l’aratro e il seme. 

Vaste e profonde sono le demolizioni, ma voi ave­te sofferto di ognuna, non importa se, per necessità, foste costretti ad adattarvi anche alle bisogna più ripugnanti. Adesso, sentite che non c’è più ragione né scusa di accettarvi come vi ha fatto la guerra, e che un po’ alla volta è buona cosa ritrovarsi uomini, rintracciando, tra gli orrori di un disumano impegno, la coscienza di quel soffrire che non ha permesso la vostra completa cancellazione interiore. 

Seguendo la traccia del vostro star male, ritroverete anche coloro che sono rimasti a casa, e non creere­te il solito corrosivo dualismo tra quei che son partiti e quei che non son partiti. 

Tra quei che non son partiti ci sono coloro che vi hanno fatto partire: qualcuno in buona fede, altri no. 

Non contano più niente: non vi perdete a litigare con essi, né a vendicarvi delle molte brutte cose che vi hanno messo sulle spalle. 

Come non avete accettato l’odio che vi inculcavano contro un nemico, per il quale non potevate sentire che pietà, la stessa che vi prendeva il cuore pensando a voi stessi, così non vivete, tornati, una giornata di rancore. 

Pulite la strada d’ogni ingombro: chiedete giustizia a chi ne ha il dovere, ma non sporcatevi le mani, per carità. 

Ieri, foste comandati ad uccidere: oggi, che potete non farlo, non lasciatevi prendere la mano da quello spirito di vendetta, che potrebbe servire a chi ambisce prendere il posto di coloro che voi giustamente spazzate. 

Molti di quei che non sono partiti, sono povera gente che ha sofferto come voi, anche se in maniera diversa. Per nessuno fu facile, questa volta, il rimanere. Quanta sofferenza anche in patria! Congiungetevi a questa sofferenza, anche se non sempre all’altezza della vostra, e fatevi voce anche di essa. 

Siete tornati come siete tornati, con niente e ci avete trovati: con niente. 

Non abbiamo niente da dirvi, niente da darvi; neanche un po’ di gioia, all’infuori di quella breve, ma non piccola, d’essere ancora vivi e di poter riprendere insieme. 

Come riprendere e che cosa possiamo fare? 

C’è tanto da fare e niente da fare, perché non si sa dove incominciare e come incominciare. E nessuno sa dircelo. Questo frastuono di opinioni, di idee, questo accaparramento a base di manifesti, appelli, programmi, non è parlare all’uomo. 

Vi vedo sorpresi e sospesi, quasi indifferenti, terra di nessuno e che nessuno è capace di tenere. 

Senza rendervene ben conto, voi pure misurate la distanza e la vacuità di questi tentativi di possesso. 

Manca la parola che vi capisca, che vi risollevi, che vi dia fiducia.

 

Siamo tutti malati nell’anima e nel corpo, e la delusione ci fa senza voglia, nonostante il segreto e sofferto desiderio che qualcuno ci porti verso la buona novità. 

Avete bisogno anche voi di qualcuno che vi voglia veramente bene e del quale vi possiate fidare senza dovergli chiedere garanzie ogni momento. 

Avete bisogno di abbandonarvi come innamorati delusi, come gente di religione senza religione, perché voi siete, oggi più che mai, anime religiose. 

La guerra, ma non per le immagini che vi siete por­tati nel portafoglio, non per le preghiere gridate nel pericolo, ma per gli altri segni che sarebbe lungo enumerare, la guerra vi ha fatto religiosi. 

Capitemi. Vuol dire che non vi basta più, in sostituzione delle certezze umane, che il tremendo tribola­re ha fatto crollare, né la casa sicura, né il pane sicuro. Non siete più sotto la suggestione né della materia, né della tecnica, né del benessere. Vi hanno fatto troppo male queste cose e siete usciti fuori o state per uscire dal loro incantesimo, e aspettate che qualcuno vi dica che c’è qualcosa di meglio, qualche cosa di più sicuro, cui appoggiare la vita. 

Avete sofferto tanto per questi beni materiali così poco sicuri, che vi immagino disposti a soffrire ben di più per qualche cosa che vi può veramente appartene­re e appagare la parte più vera di voi stessi, quella che il dolore ha scoperto e di cui vi ha fatto consapevoli. 

Per questo supero la ripugnanza di dir parole a uomini affaticati, e vengo a parlarvi di Uno che adesso non potete giudicare un estraneo. 

La vostra tribolazione vi accosta a Lui: siete in uno stato di grazia nei suoi riguardi. 

E suo l’invito: — Venite a me tutti voi che siete stanchi e tribolati. 

Chi più stanco di voi nel corpo e nell’anima? 

Non so di preciso cosa pensate di Cristo; temo però che non siate molto disposti né aperti neanche con Lui. 

Durante la guerra ve ne hanno parlato, ma in una maniera che non riuscivate a capire se e come Egli ci entrasse. 

Ve lo siete visto presentare da una parte o dall’altra, vincolato a questa o quella causa, favoreggia­tore o alleato addirittura di questi o quegli interessi; troppo contro, quando vi pareva di aspirare a qualche cosa di buono e di giusto, troppo in favore di chi vi teneva legati, quando volevate disimpegnarvi da pesi e da doveri che non vi sembravano neanche umani. 

Capisco la vostra diffidenza: però Lui non l’avete mai personalmente interrogato, a tu per tu non Gli avete mai discorso. 

Non voglio obbligarvi a quest’incontro, se non ne sentite la voglia: né pregiudicarlo col dirvi Chi Egli sia per me. 

Siete liberi di andargli incontro o di voltargli le spalle e di accostarlo come vi piace e se vi piace. Egli non se n’offende, se dopo essere stati da Lui, credete di non poterlo seguire. 

Una sola cosa vi chiedo: lasciatelo parlare. Dopo, farete come vorrete. 

Lo sappiamo cosa ci può dire: le solite cose. 

Ecco, potrebbero anche non essere le solite cose, perché il Vangelo non è mai la solita cosa, quand’uno lo legge sul serio e nel cuore ha quel che ci avete voi, adesso. 

D’altronde, rivedere ancora una volta prima di buttarla via una cosa anche di poco valore, quando a portata di mano non abbiamo più niente, non è poi da insensati. 

Che abbiamo di nostro? Chi è dalla nostra parte? 

Facciamo un bilancio di ciò che ci è rimasto: delle certezze sopravvissute alla catastrofe, dei sentimenti e degli affetti ancora vivi, delle luci sulla nostra strada... e ditemi se non ci convenga interrogare ancora una volta Cristo, stargli vicino un attimo. Vicino a un povero, a un reietto, a un condannato, a un crocifisso... non vi potete trovare a disagio. Cristo è dei vostri, non v’è ragione che vi mostriate diffidenti. 

E s’Egli è venuto, è venuto soprattutto per voi: se ha parlato, è soprattutto per voi che ha parlato. Ed è morto, perché voi non foste soli quando incomincia l’agonia. 

Può darsi, se l’accostate così, che le impalcature di ogni genere che Gli avete visto d’intorno, non le vediate più; che parecchie cose che continuano a circolare sotto il suo nome, non siano sue: che lo vediate, finalmente, com’è e come vuole essere visto: fratello, guida, salvatore.., in un momento in cui non abbiamo né fratelli, né guide, né salvatori. 

Permettete che vi stia da presso mentre leggete il Vangelo? Che vi segni, col dito, la pagina, la parola? 

Non ce ne sarebbe bisogno se non aveste l’occhio sospettoso e la mente ingombra di pregiudizi. 

Il titolo non cercatelo in un sapere che non ho, ma nel comune soffrire, che spianandomi il cuore mi mostra ciò che voi cercate e chiedete.

 

Sono sicuro, dopo averLo ascoltato insieme, di po­ter dire col vostro interiore consenso: — Ecco, Egli è con noi, “la pietra d’angolo” della novità che vogliamo. 

Ma se non è neanche esistito? Lo dicono un fantasma, un mito... 

Tutto si può dire, purché colui, contro il quale ci si scaglia, non sia un prepotente. Non datevi cruccio di questi “si dice”. Domani qualcuno dirà che anche questa guerra è un mito, poiché il ghibli già ricopre le tom­be, e la primavera riveste d’erbe e di messi i campi e i villaggi devastati. 

Voi rispondete toccandovi le ferite che non si chiudono: e questa sarà la vostra risposta a chi vorrebbe che la guerra non fosse stata, perché se ci fu una tal guerra, nön si può fare il proprio comodo, come qualcuno continua a farlo.

 

Incomincio a capire che vi possa essere gente, cui torni piacevole che Gesù sia un fantasma. E l’unico personaggio della storia che si vorrebbe non fosse esistito. E non per gusto di sapere esatto o di documentata certezza, ma per un segreto inconfessato desiderio di non ritrovarselo vicino, neanche sulla strada del passato. 

Gli altri uomini, grandi o infami, sono memoria e polvere: Cristo, no, è presenza. 

Comincia a diventare interessante uno che gli uo­mini non vorrebbero che fosse! Non può essere uno qualunque, se Lui o qualcosa di Lui è così vivo e inquietante da desiderare che non fosse. 

Voi lo conoscete poco, siete indisposti verso di Lui: 

eppure, come vi dissi che vi avrei parlato di Lui, vi sie­te fatti attenti. 

I fantasmi e i morti — sono venti secoli che Cristo fu Crocifisso — non afferrano così. 

Prima ancora di sapere bene chi Egli sia — uomo o Dio fatto uomo — ci sentiamo legati a Lui, e lo dichiariamo in tanti modi, anche bestemmiandolo. Mi si stringe il cuore, quando vi sento bestemmiare; ma non mi fate paura. Anche questa è una testimonianza e una maniera di dire che Egli è. 

Dove sta di casa? 

Vi aspettate la solita risposta: in Chiesa. Sì, anche in Chiesa e in un modo particolare. Ma se vi rispondessi così, tirereste diritto. 

— Non ci interessa quel Cristo, non si può discorrere con quello. Lo fan parlare in un certo modo che, quando siamo in Chiesa, non lo sentiamo pià. Sarà quel che volete, ma non è nostro. È borghese, uomo d’ordine: buono, sì, tanto buono e misericordioso tanto: ma non è così che noi lo vogliamo misericordioso e buono. 

Perché vi so indisposti verso quella casa del Signore (una delle tante case del Signore, non l’unica) non vi conduco là, tra povere donnette, qualche bambino e qualche vecchio, quasi fosse un ricovero la casa del Signore. 

Egli sta dovunque: non lo sapete? E potete trovarlo dovunque e ascoltarlo parlare dovunque. 

Faccio la parte di Giovanni Battista: lo vedo passa­re e vi dico: — Eccolo —. 

Seguitelo per la strada. Gesù voltandosi vi domanda: — Chi cercate? — Voi gli dite: — Maestro, dove stai? 

— Ed Egli vi risponde: — Venite e vedrete. 

Per andare a Lui non occorre che vi vestiate a fe­sta, né che facciate il segno di croce, se non ne avete voglia, quantunque un povero corpo come il vostro, che, da quando è nato, non fa che portar croci, non ci perde, se si indica con una croce. 

Egli viene dove volete, dove vi piace, avendo preso dimora con voi: in casa vostra, nella fabbrica, all’osteria, in piazza. Ovunque andiate, Egli vi segue: vi ha anzi pre­ceduto. Egli occupa ogni cosa nostra, e ogni nostra abi­tazione, da quando si è fatto uomo per stare con noi. 

Né occorre v’inginocchiate. Continuate pure a lavorare: finite in pace il vostro bicchier di vino. Non vi guarda male, perché bevete un bicchiere. Era amico anche di quei che bevevano: e i morigerati, coloro che non si ubriacano, perché bevono quanto vogliono tutti i giorni, dicevano, intendendo togliergli il credito, che Gesù era amico degli ubriaconi e della gente di malaffare. 

Se siete seduti, vi siede accanto: se camminate, è pellegrino: se lavorate, operaio: se piangete, lo vedete piangere. “Son beati gli occhi che piangono”. 

E che faccia ha? 

Di un galantuomo. 

Questo lo sapete anche voi. E la faccia di un galantuomo, che è poi la vostra di faccia, se ne incontrate una, non vi farà, credo, dispiacere. 

Non sono incontri frequenti, in nessuna stagione. 

Come voi, da povero. E ce l’ha il vestito fin che glielo lasciano: perché viene un giorno che glielo strappano e lo tirano a sorte, e Lui è lasciato nudo, per poterlo meglio stendere sulla croce e più agevolmen­te inchiodare. Come voi in guerra, che certi giorni non avevate neanche più il pastrano, neanche più la giubba, neanche più i calzoni... 

Ve li mangiava la sabbia, la roccia, il fango, l’acqua. Ve li mangiavano gli uomini delle retrovie, gli stessi che vi dovevano vestire. 

E che cosa fa? 

Quel che fate voi. Egli è malato, pellegrino, senza casa, senz’acqua, senza lavoro, senza pane, senza patria, come voi. E un vostro compagno, un camerata. 

Non un crumiro, non uno che taglia la corda quan­do la si fa brutta... 

Tira fino all’ultimo, è fedele fino all’ultimo. Non diserta, non scappa... 

Se anche gli altri scappano, Egli non abbandona il suo posto, si lascia prendere, condannare, e porta fin sul Calvario la sua croce: la sua e la nostra. Anche se non Gli andiamo dietro. 

—                 Se è così, ditegli pure che ci parli. 

Sapevo che Gli avreste concessa la parola. 

Fa piacere sentir discorrere un galantuomo, uno che ha tribolato, che è stato anche dentro, e che ha pagato in tal modo. 

La parola a Cristo 

Non ne è lusingato: è però contento che lo lasciate parlare. 

Cristo non si alza come uno che deve fare un discorso. Chi vuol bene veramente e ha cose importanti da dirci, non fa discorsi; parla a tu per tu. 

Ma prima di parlarci nell’intimo, cerca se qualcu­no è disposto a leggere per lui le parole che un giorno ha rivolto a tutti e che sono raccolte in un libro che si chiama il Vangelo, cioè il libro delle buone notizie di Gesù agli uomini. 

Non posso dirgli di no; non voglio dirgli di no. Non è un mestiere facile leggere per lui, ripetere le sue parole. Ho paura di tradirle. 

Ci vorrebbero ben altre labbra e ben altro cuore! Ma so che, dopo, Lui vi parlerà e ciò che io non ho saputo dirvi, Egli ve lo dirà in maniera sicura, autorevole e dolcissima. Ciò che importa adesso è che vi prepariate ad ascoltare Lui, quando nel segreto del­la vostra coscienza, Egli stesso prenderà la parola. 

“Io non sono che una voce, la voce che grida nel deserto e dice: preparate la via alla sua parola. 

“Principio del Vangelo di Gesù Cristo, Figliuolo di Dio, secondo com’è scritto nel profeta Isaia: — Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero a prepararti la via. — V’è una voce di uno che grida nel deserto: — Preparate le vie del Signore: raddrizzate i suoi sentieri —. 

“E predicava dicendo: — Dopo di me, viene Colui che è più forte di me, cui non sono degno di chinarmi a sciogliere il legaccio delle scarpe 

 

Apro il Vangelo

Un solo libro, secondo quattro ispirati scrittori —Matteo, Marco, Luca, Giovanni — Apostoli o discepoli degli Apostoli. Quindi, gente che ha visto il Signore e ne ha raccolto, a breve distanza di tempo, le parole e i fatti. Gente seria che ha raccontato con semplicità e scrupolo e che ha testimoniato, morendo, ciò che aveva visto e raccontato. 

Vi potete dunque fidare. Anche perché il libro fu gelosamente custodito, come nessun altro libro, sotto gli occhi malevoli dei nemici della religione, sotto gli occhi devoti della Chiesa, che non solo proibisce di toccarne una virgola, ma ci aiuta a leggerlo bene. 

Dico la Chiesa, non i cristiani, perché molti — cri­stiani e non cristiani — si sono serviti e continueranno a servirsi del Vangelo per proprio uso e consumo. Non c’è interesse o idea che non abbia cercato di avere dalla sua il Vangelo. 

Il Vangelo ha lasciato fare, perché, non essendo un libro addomesticato né addomesticabile, finisce per giudicare gli stessi che indebitamente se l’appropriano. 

Quando non si è puliti e non si desidera divenirlo, è pericoloso accostarsi al Vangelo, per qualsiasi motivo. Presto o tardi, si rimane confusi. 

 

Il libro del Mistero 

La persona di Gesù, le sue parole, i suoi fatti... so­no semplici e chiari. Eppure ogni cosa che lo riguarda, confina col Mistero. C’è in Lui una realtà che non può essere contenuta nelle spiegazioni che comunemente diamo degli uomini e della loro storia.

Una persona ci può riuscire misteriosa per due ragioni: quando la sua ignobilità raggiunga certe bassezze, quando la sua sublimità sconfina oltre l’umano. 

Comunque lo guardiate, Gesù è un uomo di là dell’uomo. 

Ciò vi parrà strano e insopportabile, se lo immaginate soltanto, ma se seguite il Signore, attraverso il racconto del Vangelo, ogni assurdo si dilegua e trovate giusto che sia come lo vedete. 

il Mistero di Gesù è tanto umano che è divenuto una nota della nostra umanità. 

Ognuno può dare a questa nota il significato che vuole, ma negarla non la può. 

Gesù è così o non è. Senza la luce del suo Mistero non lo si può neanche presentare sul piano della storia. 

Anche il suo popolo è un mistero 

Non occorre che vi narri la storia e la vocazione degli Ebrei. 

Ogni popolo ha la sua vocazione e a nessuno mancano veggenti e poeti, uomini d’armi e dileggi per esaltarla. 

Se vi dicessi che la vocazione del popolo ebreo è singolare e che il suo messianismo religioso ha una caratteristica senza eguali, non vi avrei dato il senso del mistero, che è legato alla sua storia e alla sua missione. Preferisco ricordarvi la lotta contro gli Ebrei, che fu uno degli aspetti più disumani della guerra, quest’inspiegabile passione di odio che s’è riaccesa in maniera bestiale e di cui voi foste testimoni. Attraverso di essa, meglio che per altre considerazioni, potete intuire qualche cosa del mistero di quel popolo, da cui doveva uscire il Salvatore.

 

II.

 

Ecce veniet... 

—                 Sei tu Colui che deve venire? 

Ancor prima di nascere, Cristo ha una storia. 

In tutti i popoli c’era l’attesa del liberatore; ma i profeti d’Israele par quasi l’abbiano visto, a distanza di secoli, tanto è preciso il loro discorso su Colui che deve venire. 

Sanno che verrà dalla discendenza regale di Davi­de, che vedrà la luce in Betlem da una Vergine: che predicherà a tutti la parola della liberazione con misericordia grande: che alla fine sarà tradito, venduto, giudicato, condotto a morire sulla croce, come un agnello. 

E facile rispondere: fortuite combinazioni tra l’immaginazione e una lontana realtà. Ma quando intorno allo stesso personaggio tali fortuite combinazioni si accumulano in modo impressionante, vien da chiederci, se non c’è un disegno che va oltre i nostri calcoli.

 

La famiglia 

Si conosce bene la Madre. Si chiama Maria ed è Vergine. 

Giuseppe, suo sposo, un piccolo artiere, le è compagno; custode discreto e fedele di un Mistero, che fu rivelato alla Madonna da un Angelo, il giorno dell’annuncio, che avvenne nella casa di Nazareth: un paese della Galilea, nell’Asia Minore, soggetta in quel tempo al dominio di Roma. 

Son poveri ambedue. Lui è un falegname di piccolissimo borgo: Maria una buona figliuola, senza dote, all’infuori del suo nome immacolato e del segreto che gelosamente custodisce, come vanno custoditi i segreti del Re. 

Secondo le parole dell’Angelo Gabriele, Ella è la piena di grazie e la benedetta fra tutte le donne: secondo il suo giudizio è la serva del Signore che accetta il compirsi d’ogni parola di Lui. 

Anche Giuseppe obbedisce; e quando i due sposi si mettono in cammino per Betlem onde farsi inscrivere nel libro del censimento voluto da Cesare Augu­to, Giuseppe e Maria vanno umili, sereni e concordi incontro a un destino, che infinitamente li sopravanza.

 

Il natale 

Non c’era neanche un buco in tutta Betlem per ricoverare Maria e Giuseppe! Più che le carte, non avevano in regola il portafoglio, ragion per cui gli usci se ne stettero sprangati. Tutti gli usci. 

L’ospitalità è sacra — chi non lo dice? — ma quando c’è di mezzo un incomodo senza tornaconto, ci si disimpegna volentieri. 

Anche se può pagare, un povero sa purtroppo che tanto gli sportelli degli uffici come gli usci, si chiudono sempre sgarbatamente, come sempre a malincuore si aprono per lui. 

Quanta stanchezza sul volto di Maria e quale accoramento in Giuseppe! 

Due pene senza nome gli crocifiggono il cuore! Porta una grande responsabilità e vede, ad ogni passo, che gli uomini non obbediscono al segreto disegno divino, di cui egli è il custode. 

Non impreca, non si lamenta. E abituato ai rifiuti, come lo siete voi: e va fuori di Betlem, in aperta campagna, per vedere se tra i poveri c’è più buon cuore. 

In campagna c’è sempre una stalla per i senza tetto: un po’ di paglia per l’uomo di passaggio. 

Non sappiamo di chi fosse la stalla ove sostarono quella sera — 1945 anni fa — Giuseppe e Maria. Se c’erano degli animali — almeno un bue ed un asino — ci doveva essere un padrone. Neanche un cenno del padrone. Il contadino non pensa all’immortalità del proprio nome: non pensa alla gloria. Dalle piante, dalle erbe, dai fiori del prato, dalla mutevolezza del cielo e delle stagioni, ha imparato a sentirsi effimero. Egli è l’anonimo che dà, l’anonimo che soffre: il milite ignoto, l’uomo della strada, che ha buttato il suo cuore e i suoi passi, senza riserve, su tutte le viae crucis. 

Plutarco non ha nulla da segnare sul suo conto: neanche il poeta, neanche l’evangelista. 

Ci penserà Gesù: “La tua sinistra non sappia ciò che fa la tua destra”. 

Il povero l’ha imparata bene la sua lezione: e se lo ringraziate, quasi se n’offende: se gli chiedete il nome, comincia a diffidare. E l’unico che ha paura della propria firma. 

I signori di Betlem hanno rifiutato Giuseppe: un povero dei dintorni gli apre la stalla, cioè la sua casa. Forse era aperta e Giuseppe non ha dovuto né bussare né chiedere. Tutto povero e tutto spalancato. 

Maria e Giuseppe entrano nella stalla, come nella più bella camera d’albergo. Poi nella notte alta ci viene anche Gesù. 

“E Maria diede alla luce il suo figliuolo e lo fasciò e lo pose a giacere in una greppia”. 

Nessuno di noi ebbe un natale così sprovveduto. S’annuncia così sulla terra una nuova grandezza, che batte strade ignote anche agli altri. 

Gesù nasce in una stalla: una greppia gli fa da culla: alcuni animali lo riscaldano col loro fiato. 

Poiché Gesù volle nascere in una stalla, la stalla fu la prima chiesa e la greppia il primo tabernacolo, dopo il seno purissimo di Maria. 

Prima della casa di Nazareth, prima delle catacombe, prima delle basiliche. 

Non c’è niente d’abbietto e d’indegno per Gesù, fuorché il male. 

Ogni cosa può diventare un ostensorio del suo amore. Anzi, le più umili, le più spregiate ne rispettano meglio il mistero, lasciandone trasparire e conservandone il divino incanto. 

Quando S. Francesco volle restituire al suo secolo di ferro e di sfarzo il Cristo dei poveri, non trovò di meglio che convocare i suoi nella stalla di Greccio. 

Una stalla, come un’officina può divenire l’anticamera del Paradiso. 

Quanta luce e quale canto d’angeli in quella stalla nella notte santa! 

—         Gloria a Dio fin nelle sommità dei cieli e, sulla terra, pace agli uomini di buona volontà. — Ve le siete sentite cantare in cuore le parole degli angeli nelle notti di guerra, lungo le dune marmariche, nelle steppe o tra le rocce insidiose delle montagne balcaniche, allor che la serena maestà del cielo stellato contrastava col vostro mestiere di uomini d’arme. 

Gli Angeli ci invitano a liberare la terra da quel pauroso ordigno che è la gloria, che appartiene unicamente a Dio. Quando l’uomo se l’appropria, la terra è corsa dal flagello inondante della guerra. 

Quando Gesù nasce, gli Angeli cantano in Cielo: la Vergine e Giuseppe l’adorano in terra. 

Il Mistero s’è compiuto sotto i soli occhi di Maria e di Giuseppe, delle stelle e del vento, delle piante e degli animali. 

I pastori vengono dopo. Per un momento l’uomo è assente. — Capisce così poco l’uomo! — E il suo posto è tenuto dal bue e dall’asino. 

Guardate l’asino, questo paziente animale: e il bue, questo robusto lavoratore che ci dà mano! Guardate queste teste pensierose! Quanta sottomissione! Quale squisita timidezza! Quanta bontà! Quanta pazienza! E commovente il pensare che tali esseri abbiano adorato Gesù prima di noi! 

E commovente pensare che tali esseri siano senza peccato! 

Gesù Cristo è con le bestie prima di essere con noi. E come potrebbe essere altrimenti? La parola è stata detta per tutti e ogni creatura sospira verso di essa. 

Che lo sappiano o no, il bue e l’asino del Presepio, col mistero della loro vita senza peccato, nella notte di Betlem, piangono verso Gesti e gli cantano lodi che gli riescono gradite più di tutta la nostra eloquenza. 

Dopo le bestie, i pastori. 

“Un angelo si presentò ad essi e la gloria del Signore li circonfuse: — Vi è nato il Salvatore: troverete un bambino giacente in una greppia”. 

“E andarono in fretta”. 

I pastori appartengono alla famiglia dei poveri: sono i nostri antenati. Prima di legarci a un campo o a un tornio (il campo come la sposa è il felice raccogliersi del cuore dal vago innamoramento che abbraccia ogni cosa) abbiamo camminato lungo i tratturi e le piste dì tutti i piani, pe’ greppi e i sentieri dì tutte le montagne, stanchi e trasognati dietro i greggi che scendevano e salivano a seconda delle stagioni e dei pascoli. 

Nonostante secoli e secoli di coniugio con la ter­ra divenuta campo, con la casa divenuta officina, un p0’ di quell’ardore avventuroso e nomade ci è rimasto nel sangue. Esso riempie di nostalgia i nostri canti e ci spinge talvolta a lasciare la zappa a mezzo il solco o l’opra appena avviata, per risalire, dietro ataviche reminiscenze, le strade che costeggiano i deserti infocati dell’Africa, che valicano le Ande, guadano i fiumi dell’Asia misteriosa: strade troppo lunghe per il nostro desiderio senza fine. Se vi sedete lungo un margine, sognate: se vi fermate davanti a una radura, vi incantate: se guardate una notte stellata, l’occhio va subito verso l’Orsa, il Carro, la Stella Polare... Sono gli istinti atavici consegnatici dai nostri padri-pastori, vigilanti per secoli nella chiarità delle notti lunari o sotto la lucentezza inebriante dei meriggi estivi. 

Gesù ha voluto subito i poveri intorno a sé: ci ha fatto onore della primizia, convocandoci per mezzo degli angeli, mentre ai Magi doveva bastare una stella. 

Pastori e Magi, ignoranti e sapienti. Non vi piace questo succedersi di genti diverse intorno al Presepio, venute attraverso vie diverse, con doni e parole diverse? Fin dal Presepio, Gesù è di tutti. 

Però, quando arrivano i Magi — gente di riguardo 

— viene da pensare che i nuovi venuti, col loro seguito di cammelli e cammellieri, abbiano il primo posto: gli altri, pastori e bestie, in un canto della stalla, se non fuori. 

Non allarmatevi subito: un conto sono i presepi messi insieme dagli uomini nelle nostre Chiese, secondo i criteri correnti, un conto quello che è avvenuto davvero a Betlem. 

Non credo che a Gesù certi schieramenti gerarchici o classisti, proprio sotto i suoi occhi, Gli faccian piacere. 

Se mi ricordo bene, queste son parole uscite dalla sua bocca: — I primi saranno gli ultimi. — Ti ringrazio, Padre, che hai taciuto queste cose ai sapienti e le hai rivelate agli ignoranti. — Venite a me, voi i diseredati, voi gli oppressi... 

Non inquietatevi per quello che dicono e fanno gli uomini, anche se uomini di religione, spesso compiacenti cerimonieri di vanità e di ingiustizie. 

L’occhio e il cuore di Gesù hanno abolito fin dal suo nascere e nella maniera con cui ha voluto nascere, le brutte differenze fabbricate da noi. E per buttarle giù egli non ha neanche bisogno delle piccole nostre rivoluzioni, le quali, perché mutano nome agli istituti o sostituiscono privilegi a privilegi, creano l’illusione d’aver fatto camminare il mondo sulle vie dell’eguaglianza e della fraternità. 

Gesù ha detto: — Io sto in mezzo a voi come colui che serve — e le sue parole finché non le vedremo raccolte dai primi e dagli ultimi, non potremo mai essere tranquilli sulle nostre sorti di quaggiù. 

Premesso questo, posso ragionarvi più spedito dei pastori e dei Magi. 

Se davanti al Presepio fossimo rimasti noi soli, povera gente, dopo un po’ ci saremmo voltati indietro per chiederci: — Ma non viene il dottore? E l’ingegnere della fabbrica? E il padrone? Neanche il maestro? 

La nostra fede ha bisogno di essere rassicurata dalla fede di coloro che, secondo noi, ne sanno di più. 

Quando ci hanno lasciati soli in Chiesa, abbiamo finito per dubitare di essere a posto, cedendo alla facile tentazione d’abbandonare una religione divenuta unicamente il rifugio degli ignoranti. 

La venuta dei Magi, più che un omaggio a Cristo, è un omaggio alla fede degli umili. 

E tu, mio fratello asino, e tu, mio fratello bue, che vi lamentate a cagion dei cammelli, non dimenticate che un po’ di fasto e d’arte non disdicono in Chiesa. Manca qualche cosa a un culto, cui il genio non reca il suo omaggio. 

Le cattedrali, i dipinti, i bronzi, le sculture, la musi­ca, i vasi cesellati... nulla aggiungono alla Verità e alla Bellezza Incarnata apparsa nella povertà di una stalla. Sono però le note che completano l’omaggio universale delle creature al Dio fattosi creatura. 

Il tuo raglio, mio fratello asino, il tuo muggito, mio fratello bue, come lo zirlio del grillo, il gracidare delle rane, il trillo dell’usignolo.., s’accordano con un canto di Dante, un sonetto del Petrarca, una sonata di Bach, una sinfonia di Verdi, formando l’inno eterno della terra verso il Cielo. 

Senza nulla eguagliare, senza nulla confondere e togliere, Cristo accoglie ogni voce e le accorda nella sua infinita carità. 

La bieca tristezza di Erode, un reucolo ingiallito nella vendetta e nella gelosia, scaccia Gesù dalla stalla di Betlem e lo mette, con Giuseppe e Maria sua madre, sulla strada. 

Lo sfratto anche a Gesù e subito, prima che ven­gano i sicari del tiranno. Fa da usciere un angelo, che nel sogno appare a Giuseppe. 

Un altro non gli avrebbe creduto; un puro di cuore come voi, trova richiami e premonizioni ovunque. 

Per questo venite spesso chiamati la gente credula, mentre chi ingozza intrugli pseudoscientifici sono “gli evoluti e coscienti”. 

Più conosco la saputa ignoranza di molti che dicono d’aver studiato, e più invidio la santa ignoranza di coloro, che pur non avendo una laurea, hanno sempre davanti un orizzonte di poesia e un impegno di fedeltà. Gli uomini semplici e retti rispettano il mistero e gli obbediscono. 

Figlio di un popolo continuamente esule e continuamente sospirante verso una terra rimasta sempre la terra promessa, Gesù s’incammina verso l’esilio. Egli pure un esule figlio di Eva. Betlem, terra del pane, non ha né pane, né pace per questo bambino appena nato, come non hanno né pane né pace anche le terre più feconde per i nostri bambini. 

La terra è dappertutto buona e materna, se gli uomini non la guastano. 

Voi dite o ve l’hanno messo in testa: — Siamo in troppi, non ci possiamo vivere. E qualcuno di voi è arrivato persino a pensare, dietro suggerimento, che ci vogliono anche le guerre per restituire l’equilibrio tra il pane e le bocche. Un tempo la difficoltà era facilmente risolta. 

Abramo disse a Lot: — Non ci sia contesa tra me e te, né fra i miei pastori e i tuoi pastori, poiché siam fratelli. Se tu andrai a sinistra, io vado a destra: se tu andrai a destra, io vado a sinistra. 

Non è il diritto di proprietà l’unica causa che estranea e affama l’uomo nella propria terra (chi veramente possiede con la morte alle calcagna, come ce l’abbiamo tutti?), ma la cupidigia di chi crede di possedere, la quale divora la terra, la famiglia, la patria, il mondo. 

Voi, che sapete queste cose, non vi dovete lasciare infatuare né ingannare da certi miraggi... E allora, coloro che capiscono tutto, perché capiscono niente, vi diranno che siete stupidi. Non prendetevela. Si sta così bene, quando non si capisce niente di ciò che fanno gli uomini che capiscono tutto. 

Certe cose degli uomini non le intendiamo, ma obbediamo lo stesso: non agli uomini ma a Qualcuno ben più in alto. E senza approvare, senza applaudire quando il comando degli uomini non è buono. 

Sulle nostre mani ci sono i segni della fatica, non quelli degli applausi. Non saremo mai dei cortigiani. 

Erode comanda: Gesù obbedisce: non obbedisce ad Erode, ma al Padre nei Cieli. Non resiste al malva­gio, ma non lo approva. 

Se i prepotenti e i tiranni avessero trovato uomini silenziosi, mani chiuse e fronti dignitose, la loro malvagità non sarebbe arrivata dove è arrivata. 

Le guerre non hanno ancora trovato una diga nella volontà dei popoli. 

Ogni passo dell’esilio di Gesù è una condanna per chi l’ha condannato: ogni lacrima dei tre esuli una stella sul ciclo della nostra redenzione. 

La storia, la storia vera, non la scrive nessun Erode. Siatene certi. 

Mentre Gesù va in esilio, gli innocenti muoiono. Le mamme piangono i loro figliuoli e rifiutano di essere consolate, perché i loro figliuoli non sono più. 

Il mondo è pieno di questo pianto, che non può essere consolato e che fa il vostro ritorno pesante e doloroso. 

Quando si vedono bambini a milioni, partire e soc­combere a motivo di folli economie nazionali e di barbare guerre, congegnate con insensibilità erodiana: quando il pianto delle madri si unisce al gemito dei figli innocenti, mi chiedo come mai il sole continui a splendere e la terra torni a dar fiori ed erbe. 

Il pianto dei bambini di Betlem è rimasto nel cuore, nell’abbraccio e nella parola del Cristo: — Lasciate che i piccoli vengano a me. 

Mi domando, per voi me lo domando: che ne abbiamo fatto di questa parola? 

Quanto dura l’esilio? Quanto durano certi sradicamenti, che si chiamano coi nomi più diversi: coscrizione, richiamo, mobilitazione, fronte del lavoro, della resistenza, ecc...? 

Neanche voi, ora che siete tornati, non sapete bene computare i mesi della vostra lontananza. Ve li sentite pesare, come certo se li sentivano pesare sulle spalle e sul cuore i loro mesi d’Africa, Giuseppe e Maria. Gesù era ancora bambino, ma appunto perché ancora bambino, il trattamento che gli uomini gli infliggono è ancora più cattivo. 

Quanti milioni di creature la guerra ha strappato dalle loro case, dalla loro terra, dai loro affetti! Greggi senza pastore, spinti dove la bieca ferocia di pochi sperava di aver trovato un soggiorno di pena per colpe mai esistite o un utile per imprese che non potevano essere capite da chi le pagava a così caro prezzo! 

E nessuno ha protestato. E il tragico e vile silenzio è parso un riconoscimento al diritto creato dalla ferocia. 

Gli Erodi si sono moltiplicati e si moltiplicano per la complicità dei nostri silenzi. 

Quando tornano i fuggiaschi dall’Egitto? Quando vi giunge, portata da un angelo a Giuseppe, la notizia della morte di Erode. 

Fa male pensare che solo la morte possa essere la fine di tante calamità e che ci sia bisogno di un basta gridato da più in alto dell’uomo per fermare le iniquità dell’uomo! Certi lascia-passare all’iniquità si pagano ben cari, ma ciò che fa spavento è il fatto che sono gli innocenti che pagano! Pagano Gesù, Maria e Giuseppe. Avete pagato voi: hanno pagato in milioni e milioni di creature nei campi di concentramento, deportate e fuggiasche da un capo all’altro dei continenti. 

La patria, la casa, la terra, la religione, vennero distrutte in tal modo nel cuore degli uomini, e se doma­ni, tra quei che tornano, non ci troveremo più senso umano, nessuno dei custodi della moralità ha diritto di recriminare, dopo che abbiamo lasciato distruggere l’uomo col nostro silenzio. E supremamente assurdo che si venga a domandare qualche cosa ove abbiamo lasciato trafugare e demolire, senza rischiare la vita per impedirlo. 

Un giorno Gesù dirà: — Guai a voi che chiedete le decime della menta e del cimino e lasciate calpestare la giustizia e la misericordia. 

Cos’hanno trovato? 

La casa abitata da altri, la poca clientela assorbita da altri. Per loro non c’era più posto neanche a Nazareth, come a Betlem. I rimasti fanno presto ad abituarsi, senza quei che se ne sono andati. Anche i più intimi. E chi torna, si sente spaesato e forestiero tra i suoi. Ha visto tante cose e sofferto tanto: e nella sua sofferenza immaginosa e cordiale ha pensato una casa che non esiste, una comunione che s’è fermata, mentre lui ha camminato. 

Qualcuno finirà per chiedervi quando scade la vostra licenza. Come Gesù che “venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero”.

 

 

Tratto integralmente da www.ildialogo.org

 

 

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