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Ernesto Teodoro Moneta - APPUNTO BIOGRAFICO

Foto individuale

di Arturo Colombo


Ernesto Teodoro Moneta è l’unico Premio Nobel che l’Italia ha ottenuto nel campo politico-sociale: precisamente come promotore e animatore di quella Società per la Pace e la Giustizia Internazionale, che aveva saputo ampliare e arricchire l’opera, appassionata e generosa, della Unione Lombarda per la Pace e l’Arbitrato Internazionale, sorta a Milano fin dal 1887 e presto diffusasi per iniziativa dello stesso Moneta, di Angelo Mazzoleni, di Francesco Vigano, e sotto gli auspici di altre autorevoli “voci” del pacifismo internazionale, come l’inglese Hogdson-Pratt.
Finalità e scopi sono subito indicati nei quattro punti-chiave dello statuto: «1. Diffondere idee ed educare sentimenti umanitari per la cessazione delle guerre; 2. Favorire l’affratellameto dei popoli; 3. Propugnare le soluzioni arbitramentali nelle vertenze internazionali; 4. Promuovere la trasformazione globale degli eserciti permanenti, sostituendo ad essi le nazioni armate». Il clima culturale e ideologico-politico, fra l’ultimo ‘800 e l’inizio del ‘900, riflette bene le aspirazioni (o almeno i desideri) di certi ambienti – soprattutto legati al radicalismo, e spesso con esplicite venature massoniche – che credono nella possibilità, anzi nel dovere civile di contribuire a “cambiare il mondo”, cercando di far piazza pulita degli spettri della violenza, della sopraffazione, della guerra.


Tuttavia, non va dimenticato che Moneta non aveva deciso subito di “convertirsi” ai princìpi di un’azione politico-pedagogica che non solo doveva saper suscitare un crescente e diffuso rifiuto verso qualunque ricorso agli strumenti bellici, ma soprattutto doveva riuscire a far prendere coscienza alle classi politiche e di governo che il ricorso al cosiddetto “arbitrato internazionale” era destinato a diventare il nuovo rimedio, e la più efficace medicina d’urto, per porre fine alle ricorrenti controversie fra gli Stati. Al contrario, nato a Milano nel 1833, da ragazzo, appena quindicenne, si era trovato coinvolto nel “diavolezzo” delle Cinque Giornate del ’48, l’anno della “primavera dei popoli”. Poi, già durante la seconda guerra d’indipendenza il suo giovanile spirito “risorgimentale” l’aveva portato a sentire il fascino degli ideali mazziniani e a condividere il coraggio di Garibaldi (tanto da accorrere e partecipare alla spedizione Medici del 1860, combattendo a Milazzo e al Volturno).
Proprio il contatto con le drammatiche conseguenze degli scontri e delle battaglie, in cui si era trovato coinvolto, matura quella che diventerà la sua scelta di campo in senso pacifista. Comunque, a questa prima fase del Moneta “patriota” ne segue una seconda, che potremmo definire del Moneta “giornalista”, perché dal 1867 al ’96 è merito suo, come direttore, fare del giornale “Il Secolo” un grande quotidiano radical-progressista (da trenta a centomila copie in pochi anni!), dando voce ai nuovi ceti emergenti, con un programma di netta opposizione costituzionale, che non mancherà di combattere subito – come si trattasse di una bestia nera – tanto il trasformismo dell’ultimo Depretis quanto la politica, ambiziosa e velleitaria, di Crispi, il nostro “piccolo Bismarck”.
Intanto, però, già durante gli anni ’70, comincia a delinearsi l’immagine del Moneta “pacifista”, destinata a meglio precisarsi negli anni successivi, fino all’assegnazione del Nobel nel 1907 (insieme al francese Louis Renault), un conferimento prestigioso, che gli garantirà un posto di spicco nella storia del pacifismo. Del resto, questo definitivo approdo a favore del movimento pacifista, non solo a livello italiano (che lo avrebbe coinvolto direttamente fino alla morte, avvenuta nel febbraio del 1918), si spiega come una continuazione, o addirittura una “proiezione” delle sue tesi, cariche di istanze mazziniane, secondo cui le conquiste dell’educazione e della democrazia procedono unite, quasi fossero due “momenti”, distinti eppure complementari, di un’unica strategia, rivolta allo sviluppo individuale e, insieme, al progresso di tutti.

Poteva, un simile convincimento, contenere un pizzico di utopia, ma non aveva il benché minimo risvolto “rinunciatario”. Tutt’altro: Moneta respingeva l’idea, cara a certi “fatalisti”, che la guerra dovesse rappresentare “un male necessario”, e nel contempo rifiutava anche l’idea, tipica di certi fanatici, che la guerra dovesse costituire una specie di “igiene del mondo” (secondo la celebre, umiliante immagine futurista...). «La guerra è cosa orribile, neppur concepibile in tempi civili, se un resto di barbarie non la mantenesse in credito», replicava Moneta; e per rincarare la dose, definiva «colma di perfidia» l’insistenza con cui i vertici di ogni Stato continuavano nella loro pessima politica di «educare la gioventù all’idea di uccidere altri uomini a migliaia; preparare strumenti di spaventevole sterminio di vite umane ...; cogliere il momento propizio per assaltare, rovinare, spegnere quel paese verso il quale fino a quel momento si sono prodigate proteste e dichiarazioni di buon vicinato».Parole simili, che riflettono il linguaggio e il sapore di un’epoca, ormai lontanissima, risalgono ai primi del ‘900, quando Moneta decise di dare alle stampe un’opera in ben quattro volumi, che fin dal titolo Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX doveva offrire non solo un “compendio storico” di quanto era successo con il tragico prevalere della logica delle armi, ma altresì una serie di “considerazioni”, fondamentali per rendere finalmente possibile e operante una “politica per la pace”. Che, naturalmente, non comportava solo l’immediato ricorso a due strumenti decisivi – da una parte, il disarmo, e dall’altra, l’arbitrato – ma doveva essere in grado di coinvolgere il maggior numero di cittadini in un’opera di diffuso incivilimento, capace di cancellare per sempre ogni cupidigia bellica e, nel contempo, rendere la pace una “conquista morale” (ne dà un’eloquente conferma l’efficace studio di Claudio Ragaini apparso nel 1999).

Foto da giovane

«Apostolo della pace» il “Corriere della Sera” aveva definito Moneta, appena si era diffusa la notizia che gli era stato assegnato il Nobel. Eppure non va dimenticato che il pacifismo di Moneta non ha mai comportato una drastica negazione dell’idea di patria. Anzi, leggendo tra i suoi moltissimi interventi un articolo, apparso sul “Secolo” del 9 novembre 1897 e intitolato “Il pacifismo degli umanitari”, ci si accorge come – accanto allo «slancio di entusiasmo ideale» (secondo l’immagine usata da Filippo Meda sulla “Nuova Antologia” fin dal 1918) – la posizione di Moneta appaia sempre originale e sostenuta in modo chiaro: «tra l’amore della patria e l’amore dell’umanità non vi è contrapposizione» ha il coraggio di scrivere; e, a scanso di equivoci, è pronto a aggiungere che «il patriottismo vero non è provocante, né bellicoso: ma non esclude la nozione di diritto».
Non basta: alcuni anni dopo, precisamente nell’ottobre del 1906, su “La Vita Internazionale” (una rivista da lui stesso fondata, anche come punto di raccolta della migliore intelligentsija della sinistra democratica: dai radicali ai repubblicani, a quei socialisti allora “personificati” dal suo amico Filippo Turati), preciserà ancora meglio il suo pensiero in questi termini: «Avviene fra i popoli, come fra gli individui, che i più pacifici diventano pugnaci quando si vedono ingiustamente assaliti ... Per questo noi pacifisti abbiamo sempre sostenuto che nella organizzazione della pace è compresa, ed è veramente valida, l’organizzazione della difesa». Da qui nasce, e si consolida un sentimento di vero e proprio disprezzo di Moneta per ogni velleità nazionalista o, peggio, colonialista, che offriva il terreno favorevole a certe pericolose “avventure” in terra africana; ma si rafforza anche la sua drastica opposizione verso quello che bollava come «l’antimilitarismo dei rivoluzionari da burla», non meno rischioso del «militarismo nazionalista».
Per diffondere i grandi motivi ideali della pace e spiegare le concrete ragioni politiche, economiche e giuridiche, che rendono sempre più necessario il ricorso a “strategie di pace”, fin dal 1890 Moneta dà vita a un’altra originale pubblicazione, dal titolo “Almanacco illustrato per la Pace”, su cui appaiono anche le “grandi firme” del giornalismo e della cultura (da Colajanni a De Amicis, da Lombroso a Pareto, da Bertacchi a De Marchi, a Ardigò), oltre alle suggestive illustrazioni di artisti come Previati o Mentessi, Bignami o Tallone. Spesso cambia lo stile, più semplice, più didascalico, adatto a un pubblico magari culturalmente un po’ “basso”; ma l’obbiettivo rimane sempre identico, e ben riassunto in alcuni passi del discorso che Moneta pronuncerà il 25 agosto del 1909 a Cristiania, nel salone dell’Istituto Nobel per la Pace, dove ripeterà che «il pacifismo non mira a distruggere le patrie, fondendole nel crogiuolo del cosmopolitismo, bensì mira a integrarle tutte secondo giustizia».



Insomma, la ricerca della pace – della «pace dei liberi e dei forti», come preferiva indicarla – rimane legata con quella che lui stesso riteneva «la indiscutibile legittimità della lotta per la difesa e la conquista della libertà e della indipendenza dei popoli». Poteva sembrare una contraddizione; e invece, se ancora oggi – di fronte alle immagini ben più fosche dei tanti conflitti in atto – c’è chi continua a battersi per una robusta “politica di pace” e contemporaneamente sente il diritto-dovere di ripetere la propria solidarietà a fianco di chi è oppresso e di chi soffre, vuol dire che quella lontana, e fertile, lezione etico-politica di Ernesto Teodoro Moneta, pur all’insaputa dei più, continua a dare qualche provvido frutto.

Disegno



Letteratura citata

C. Ragaini, Giù le armi! Ernesto Teodoro Moneta e il progetto di pace internazionale, Milano 1999.

 

 

Tratto da http://brunelleschi.imss.fi.it/nobel/inob.asp?c=703836&xsl=1

 

   

 

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