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Seminario Coni: "La Resistenza nello sport"

Modena 11 Dicembre 2004 - Auditorium G. Fini - Associazione industriali

Le relazioni          -          Le immagini

Programma di allungamento per atleti Come salvarsi dal terremoto "2" La Fatica: aspetti centrali e periferici Fattori limitanti le massime prestazioni   nell'esercizio anaerobico Valutazione e sviluppo dei processi aerobici nei praticanti le discipline cicliche
Barbieri G.N. Bisciotti G.N. Bisciotti Di Prampero Incalza

 

Programma di allungamento per atleti

Programma di allungamento per atleti

                                                            

Introduzione

 

La flessibilità è, insieme alla forza, una delle qualità fisiche più importanti. Ciò è vero per vari motivi ed in particolare:

 

  1. essere molto flessibili significa che si è in grado di allungare i propri muscoli rapidamente ed in modo estremo senza incorrere in infortuni, ovvero di eseguire gesti violenti ed esplosivi (come sollevare pesi, saltare, calciare ecc.) con un minore rischio di lesioni muscolari;
  2. una grande flessibilità rende più agevole qualsiasi gesto atletico complesso, riducendo l’opposizione al movimento, la frizione, causata da muscoli rigidi, e quindi ha un ruolo fondamentale nell’apprendimento della tecnica di qualsiasi esercitazione.

 

Il prof. Platonov si esprime così a proposito della flessibilità: “Una flessibilità soddisfacente è una prerogativa indispensabile per il perfezionamento tecnico. Una mobilità insufficiente limita la manifestazione delle qualità di forza, velocità e coordinazione … Tutto questo complica o rallenta l’acquisizione delle abitudini motorie e può essere la causa di lesioni muscolari o legamentose. Invece si può dimostrare che l’incremento della mobilità articolare facilita lo sviluppo delle altre qualità motorie. Essa aumenta in particolare l’efficacia dell’allenamento della forza … così da permettere l’imposizione di carichi fino ai gradi estremi di sviluppo del movimento” (V. N. Platonov “Allenamento sportivo”, Calzetti Mariucci).

Pertanto, l’allungamento dovrebbe fare parte del programma di allenamento di qualsiasi atleta. Gesti atletici di comune esecuzione in molti sport, come i calci delle arti marziali, i salti, gli sprint, il superamento di ostacoli ecc. comportano un allungamento violento dei muscoli coinvolti e possono causare infortuni muscolari dolorosi, che costringono l’atleta a periodi protratti di riposo e cure fisioterapiche.

Inoltre, non sempre la difficoltà di apprendimento di un gesto tecnico trova la sua spiegazione in carenze motorie o di coordinazione. Talvolta, infatti, tale difficoltà è dovuta a carenze di forza o di flessibilità. Allenare la flessibilità conferisce all’atleta una maggior libertà di movimento, che si traduce spesso in una più rapida progressione tecnica.

Nella maggior parte degli sport (essendo il nuoto una della poche eccezioni) ed in particolare in quelli che si praticano in piedi, correndo e saltando, le articolazioni più coinvolte sono quelle degli arti inferiori, specialmente ginocchia e anche. Quindi i muscoli cui rivolgere maggiore attenzione sono quelli che agiscono su di esse, in particolare i muscoli posteriori delle cosce, notoriamente soggetti ad infortuni.

A differenza dell’allenamento di forza, che deve essere infrequente per poter permettere un completo recupero, ritengo che l’allungamento debba essere ripetuto di frequente (almeno 3 volte alla settimana), visto che, se eseguito correttamente, non è particolarmente gravoso per l’organismo nel suo complesso e quindi i tempi di recupero sono piuttosto brevi. Ciò comunque non dovrebbe costituire un particolare problema, perché, seguendo il programma che vi suggerirò, le sedute saranno piuttosto brevi.

 

Definizioni

 

Per evitare fraintendimenti, è bene fornire al lettore alcune definizioni dei termini più importanti, secondo l’accezione che verrà utilizzata nel corso di questo studio. Tale accezione è correlata sia all’uso comune che si fa di questi termini in ambito sportivo, sia alla natura fisica delle grandezze considerate.

 

Flessibilità: grado massimo di flessione ed estensione delle articolazioni, da cui dipende l’ampiezza dei movimenti. Solitamente può essere misurata in gradi, come un angolo. Può essere definita anche come mobilità o range (escursione) articolare. Essa è funzione delle caratteristiche anatomiche strutturali delle articolazioni e della elasticità dei muscoli. Nella pratica sportiva è importante tutelare l’integrità anatomica. Certi allungamenti anatomicamente scorretti, invece, arrivano a danneggiare i legamenti (che hanno la funzione di conservare l’integrità di una articolazione) per accrescere l’escursione articolare. Noi invece cercheremo una migliore flessibilità accrescendo l’elasticità muscolare e preservando l’integrità anatomica.

 

Elasticità: proprietà fisica dei muscoli e dei tendini. Noi ci concentriamo su quella muscolare. Maggiore è l’elasticità, maggiore è l’allungamento che si può imporre al muscolo senza danneggiarlo (“stirarlo”), in modo cioè che possa recuperare la sua lunghezza iniziale a riposo, che è la condizione in cui non si applica alcuna tensione. Questa qualità viene allenata con l’allungamento.

 

Allungamento o stretching: insieme di tecniche volte ad accrescere l’elasticità dei muscoli.

 

Tensione: forza fisica applicata al muscolo.

 

Aspetti culturali

 

Da un punto di vista culturale, è possibile individuare due direzioni lungo le quali approfondire la nostra ricerca, al fine di fornire ad atleti ed allenatori mezzi allenanti più efficaci e sicuri.

La prima direzione è quella che io definisco “verticale”. Nel corso dell’epoca moderna si è verificata una profonda frattura fra conoscenze scientifiche e attività sportiva, ovvero tra pensiero e azione, dottrina e pratica. Tale frattura viene spesso attribuita al diffondersi del metodo cartesiano ed alla dicotomia che questo impone fra res cogitans (la mente, la psiche) e res extensa (la materia, il corpo). A mio parere, però, non si può stabilire con certezza se il cartesianesimo sia la causa di tale dicotomia o se ne sia un effetto, trovandosi la causa in periodo che lo precede. In questo senso il cartesianesimo sarebbe semplicemente un aspetto della modernità e non la sua origine.

In ogni caso, tale frattura lungo l’asse verticale deve essere sanata, in quanto una visione meccanicistica, riduttiva, dell’allungamento muscolare si rivela inadeguata ai nostri fini, non tenendo conto della profonda interazione esistente tra sistema nervoso ed allungamento muscolare. Purtroppo, nonostante la vasta letteratura esistente in campo neurologico, la pratica sportiva è spesso in contraddizione con i risultati della ricerca scientifica.

L’altra direzione lungo cui bisogna indagare è quella “orizzontale”, che congiunge il pensiero occidentale e quello orientale. Il cartesianesimo e la cultura illuminista, tipici della modernità, sono nati in Occidente, mentre la cultura orientale è giunta fino od oggi mantenendo molte caratteristiche tradizionali invariate. Ciò può permetterci di attingere ad alcune conoscenze che hanno conservato gran parte della loro originalità.

La disciplina orientale che considero più adeguata per raggiungere i nostri scopi è senz’altro lo yoga. Purtroppo però, non è sempre facile tradurre la teoria con cui questa pratica viene descritta in termini facilmente comprensibili dagli occidentali. E’ pertanto necessario creare un “ponte” che permetta anche a noi, nati e cresciuti in Occidente, di trarre vantaggio da tale disciplina. Ciò è possibile evitando sofisticati esoterismi e mantenendo “i piedi per terra”, rivolgendo la nostra attenzione alle tecniche più simili alla ginnastica occidentale, con cui abbiamo già una certa familiarità.

Tale ponte orizzontale, tra Oriente ed Occidente, permetterebbe anche di sanare la frattura verticale, visto che a differenza dello stretching, nello yoga vi è una profonda consapevolezza dell’interazione esistente tra sistema nervoso e muscoli.

Neurofisiologia dell’allungamento muscolare

 

Procedendo lungo la direzione verticale, è ora necessario fornire al lettore alcuni elementi di neurologia. I principali aspetti neurologici coinvolti nell’allungamento muscolare sono 3:

 

  1. Il riflesso miotatico, detto anche da stiramento: se un muscolo viene allungato troppo rapidamente, il sistema nervoso invia uno stimolo alla contrazione, al fine di tutelare l’integrità del muscolo, evitando che un allungamento eccessivo gli procuri una lesione. Utilizzando un tipico approccio ingegneristico, possiamo renderci facilmente conto di come il ciclo di allungamento-accorciamento, innescato dal riflesso miotatico, funzioni per controllare in retroazione la lunghezza del muscolo:

 

Variazione di lunghezza

 
 

 

 

 

 

 

 

 


Allungamento e contrazione sono due forze applicate lungo la direzione del muscolo, ma aventi verso opposto: ciò determina il controllo sulla lunghezza del muscolo.

Bisogna tenere conto anche della velocità con cui si applica la tensione e con cui, di conseguenza, varia la lunghezza del muscolo e non solo dell’escursione del movimento. Se l’allungamento è sufficientemente lento, tale ciclo non si innesca.

 

  1. Il tono muscolare: con ciò intendo la persistenza dello stimolo nervoso alla contrazione anche in condizioni di riposo. Nonostante l’assenza di uno stimolo volontario alla contrazione, il muscolo mantiene una tensione latente, soprattutto negli atleti allenati.

 

  1. L’inibizione reciproca: la contrazione di un muscolo riduce la tensione latente applicata al suo antagonista (il muscolo che compie il gesto opposto). Tale meccanismo ha il fine di facilitare il gesto, rilassando i muscoli che si oppongono ad esso. Per es. contraendo il bicipite brachiale per flettere il braccio, il tricipite (antagonista del bicipite) è inibito e quindi non oppone resistenza.

 

Lo stretching convenzionale, evitando gli allungamenti rapidi, tiene conto solo del punto 1, non possedendo, a differenza dello yoga, una profonda consapevolezza della relazione esistente tra sistema nervoso e muscoli.

A causa del punto 2, però, una qualsiasi tecnica di stretching realmente passivo risulta impossibile, visto che il muscolo non è mai completamente rilassato, nemmeno quando non viene contratto volontariamente. Inoltre, tale forma di stretching evita l’impiego del terzo meccanismo, che faciliterebbe notevolmente l’allungamento rendendolo anche più sicuro. Lo stretching passivo invece, tenta di allungare un muscolo in cui è ancora presente una notevole quantità di tensione residua.

       Il metodo che io propongo può quindi essere chiamato allungamento attivo: consiste infatti nella contrazione volontaria dei muscoli al fine di allungare gli antagonisti. In questo modo, evitiamo che sia la gravità, grandezza fisica di cui non possiamo modulare l’intensità, ad intervenire al fine di allungare i muscoli. Evitiamo inoltre che si inneschi il ciclo di allungamento-accorciamento, rendendo l’allungamento più sicuro ed efficace: “L’elemento determinante della flessibilità è l’attitudine a combinare in maniera ottimale la contrazione dei muscoli agonisti ed il rilassamento dei loro antagonisti” (L. P. Matveiev, 1992).

 

Anatomia e allungamento muscolare

 

       Ho già accennato al fatto che una articolazione, intesa come il punto prossimale tra le estremità di due ossa, è mantenuta integra dai legamenti ed è attraversata dai muscoli, che, contraendosi, permettono il movimento. Tale movimento viene trasferito ai segmenti articolari grazie ai tendini, che congiungono il muscolo all’osso.

       La colonna vertebrale, con la sua complessità, è la porzione anatomica del nostro corpo che riveste per noi il maggior interesse.

       Essa è composta di un insieme di vertebre ossee, articolate tra loro (grazie a legamenti, muscoli e tendini, come tutte le articolazioni). Il suo compito più gravoso è quello di sorreggere il corpo, contrastando la forza di gravità che tende a schiacciarlo. Per questo ha sviluppato delle curve che le conferiscono le proprietà di una molla, per ammortizzare il carico. Le curve principali sono la lordosi cervicale, la cifosi dorsale e la lordosi lombare.

       Essendo le vertebre di forma leggermente cuneiforme, la colonna si trova in una posizione neutra quando tali curve sono presenti. Qualora fossero accentuate o invertite a causa di un carico, si porrebbe uno stress proporzionale all’intensità di tale carico sulle vertebre e sui dischi di cartilagine che le separano, oltre che sui legamenti che le collegano.

 

 

       A differenza di ciò che si può pensare, una vita sedentaria implica uno stress fisico notevole. Lo stare seduti pone la colonna in una posizione non neutra, in cui una forza anche di intensità relativamente bassa, come quella dovuta solo al proprio peso, se applicata per un lungo periodo, può comunque provocare dolorosi mal di schiena. Ciò non avviene, ad esempio, nel caso in cui l’atleta sollevi con la forma corretta (mantenendo cioè la colonna in una posizione neutra, con le curve fisiologiche) carichi anche elevati in tempi brevi.

       In generale, sono gli stress protratti ed a bassa intensità, che costringono la colonna a posizioni non fisiologiche, ad essere la causa del mal di schiena. Tali sforzi tendono inoltre a sfinire ed indebolire i muscoli, che in questo modo possono svolgere la propria funzione di sostegno attivo con minore efficacia.

 

 

La pratica

 

E’ necessario fornire agli atleti delle tecniche di allungamento relativamente semplici e tali da poter essere inserite nella abituale pratica sportiva. Per questo, suggerisco sempre di effettuare un riscaldamento generale, della durata di circa 10 minuti (di jogging o cyclette), anche se praticanti esperti di yoga riescono ad allungarsi in sicurezza anche da freddi. Consiglio inoltre di praticare a piedi nudi, per evitare che l’uso delle scarpe modifichi le posture e per permettere all’atleta di afferrare anche le dita dei piedi.

Se, dopo l’allungamento, dovete effettuare l’allenamento specifico per il vostro sport, evitate di raffreddarvi, indugiando troppo nello stretching. Potete sempre frazionarlo nel corso dell’allenamento oppure eseguirne una parte alla fine. In ogni caso, la sequenza che vi mostrerò è piuttosto dinamica e dovrebbe favorire ulteriormente il riscaldamento a differenza del cosiddetto stretching passivo.

Noi cercheremo di sfruttare in modo esteso il meccanismo dell’inibizione reciproca. Inoltre, nello sport l’allungamento avviene sempre in modo rapido e spesso violento. Pertanto, questa sequenza, avente una funzione sostanzialmente preparatoria, deve essere integrata con alcuni esercizi di allungamento dinamico (come gli slanci delle gambe) specifici per il vostro sport.

Come vi ho già accennato, potete eseguire questa sequenza di frequente, anche nei giorni in cui non vi allenate. In questo caso, eseguite il riscaldamento e poi tutta la sequenza senza interruzioni.

       Tenete presente che la respirazione ha un ruolo fondamentale nel favorire l’allungamento: in linea di massima, quando il corpo si flette bisogna espirare, mentre quando si estende bisogna inspirare. L’allungamento deve essere imposto gradualmente: è durante l’espirazione che si può accrescere la tensione, progressivamente. Espirazione dopo espirazione ci si porta verso i gradi massimi di allungamento.

 

Sequenza iniziale

 

1.      In quadrupedia, la colonna si trova in una posizione ortogonale rispetto alla direzione di azione della forza di gravità, che quindi non può agire nel senso di una compressione della colonna stessa. Pertanto, l’atleta può permettersi di allungare la colonna, per accrescerne la flessibilità, sia nel senso dell’estensione, sia nel senso della flessione: la forza applicata alla colonna sarà solo quella muscolare, modulata dall’atleta, il che eviterà la possibilità di infortuni.

 

Foto 1 postura iniziale: la schiena è in posizione neutra (potete vedere la lordosi e la cifosi fisiologiche)

 

2.      Inspirando, inarcate la schiena, nel tentativo di invertire la cifosi dorsale ed accentuare la lordosi lombare. In questo modo, la contrazione volontaria di tutti i muscoli che estendono la colonna (come il lunghissimo della spina), inibirà la contrazione dei muscoli che la flettono (come gli addominali, per esempio), permettendo all’atleta di allungarli. Tale movimento deve avvenire lentamente per evitare di innescare il ciclo di allungamento e contrazione causato dal riflesso miotatico.

 

Foto 2: inspirazione – inversione curva dorsale e inarcamento lombare

 

3.      Terminata l’inspirazione, invertite il movimento cominciando ad espirare. Ora la contrazione dei muscoli che flettono la colonna (e che sono stati allungati precedentemente) favorisce l’allungamento di quelli che la estendono. Tale sequenza può essere ripetuta 3 o 4 volte. Di solito viene chiamata “allungamento del gatto”: molte posture dello yoga prendono spunto dall’osservazione del modo di allungarsi degli animali.

 

Foto 3 espirazione: inversione curva lombare e accentuazione curva dorsale

 

4.      Tornate nella posizione neutra 1, inspirate e dorsiflettete i piedi, che si trovano, come le mani, alla larghezza delle spalle, appoggiando a terra le punte. Espirando, sollevate il bacino e contraete i quadricipiti, per distendere le gambe, ed i tibiali anteriori, per flettere le caviglie. Tali muscoli sono, rispettivamente, antagonisti della muscolatura posteriore della coscia (semitendinoso, semimembranoso e bicipite femorale), che flette le gambe, e dei polpacci, che estendono i piedi. In questo modo sfruttiamo il meccanismo di inibizione reciproca. L’allungamento, ottenuto spingendo in basso i talloni, si deve avvertire posteriormente lungo tutta la coscia e la gamba. La flessione avviene a livello dell’articolazione coxo-femorale (anca) e non a livello lombare, grazie alla contrazione del retto femorale e dell’ileo-psoas (che flettono l’anca). In questo modo, tenendo la schiena allungata, il corpo assume la forma di una V rovesciata. La testa è abbandonata verso il basso, lo sguardo è rivolto all’indietro, la parte bassa dell’addome è naturalmente ritratta verso l’alto, le braccia sono sulla stessa linea delle spalle. Rimanete in questa postura per almeno 5 respirazioni complete. E’ importante mantenere la contrazione dei muscoli che flettono l’anca ed estendono il ginocchio, oltre a quella dei muscoli che flettono la caviglia. Tale postura è detta “cane”.

 

Foto 4 postura del cane: schiena in posizione neutra, allungamento della parte posteriore delle gambe e delle cosce

 

5.      Durante l’ultima espirazione, abbassate il bacino e piegate le braccia, portandovi col corpo a trave nella postura del “coccodrillo”. Tale postura richiede una certa forza degli arti superiori, in quanto il corpo non è appoggiato a terra. Braccia e gomiti sono tenuti vicini al tronco. Da qui, estendendo i piedi e le braccia, portatevi subito nella postura del “cobra”, inspirando. In questa postura, detta anche del “cane all’insù”, la contrazione dei muscoli della schiena (lombari, dorsali e cervicali) favorisce l’allungamento della muscolatura anteriore del corpo. Se un atleta principiante non ha forza sufficiente, gli si può permettere di appoggiarsi a terra. In questo caso però non deve estendere completamente le braccia, passando al cobra. Qualora lo facesse, nella parte bassa della zona lombare si verificherebbe una flessione eccessiva. Ciò causerebbe la compressione dei dischi. Sarà quindi preferibile che l’atleta si sollevi quasi esclusivamente in funzione della forza dei muscoli della schiena. Se invece il corpo è sollevato da terra, la tensione si sviluppa lungo tutta la schiena, formando un arco uniforme. Le punte dei piedi fungerebbero da perno. Tale postura rappresenta la contro-posizione rispetto a quella precedente: come nel caso del gatto, anche qui allunghiamo un gruppo di muscoli, responsabili della estensione o flessione di certi segmenti corporei, e immediatamente dopo i loro antagonisti. In generale, anzichè allungare analiticamente ogni singolo muscolo, allunghiamo una intera catena cinetica, ovvero l’insieme dei muscoli che compiono un certo movimento. Solo in questo modo possiamo avere la certezza di avere effettuato un allenamento completo e bilanciato. Tale sequenza, cane - coccodrillo - cobra, può essere ripetuta alcune volte di seguito. Nella postura del cobra ci si ferma per la sola inspirazione.

 

Foto 5 postura del coccodrillo: il corpo è mantenuto teso senza lasciare che poggi a terra

 

 

Foto 6 cobra: allungamento in estensione della colonna

 

6.      Tornate nella postura del cane, espirando, sollevando il bacino e dorsiflettendo i piedi. Da qui inspirate e portate di slancio la gamba destra in avanti, in mezzo alle mani. La sinistra resta protesa dietro, col tallone sollevato. Questa postura deve essere mantenuta per 5 respirazioni complete. Sull’ultima espirazione riportate la gamba destra indietro e tornate nella postura del cane. Inspirando, ripetete la postura portando avanti l’altra gamba. La gamba posteriore è sempre tesa, quindi occorre contrarre i muscoli che estendono l’anca (i glutei in particolare) per poter allungare quelli che la flettono (l’ileo-psoas) grazie all’inibizione reciproca. Tale meccanismo non funzionerebbe se l’atleta piegasse il ginocchio portandolo a terra.

 

Foto 7 allungamento dei flessori dell'anca

 

7.      Tornate nella postura del cane espirando e successivamente, inspirando, portate entrambi i piedi avanti, vicino alle mani, con un saltello od un passo. Allungate la colonna il più possibile, ruotando il bacino in avanti, nel tentativo di non invertire la lordosi lombare, tenendo le dita delle mani a terra. Tale rotazione permette di decomprimere la schiena e di portare la tensione sulla muscolatura posteriore della coscia, dove in effetti dovrebbe essere applicata per allungare i suddetti muscoli. Completate l’inspirazione e poi flettetevi in avanti, espirando. La flessione del busto avviene tenendo la schiena più piatta possibile (ovvero meno ingobbita), in modo da mantenere la tensione nella muscolatura posteriore delle cosce e non sulla zona lombare: in questo modo non vi è compressione delle vertebre e dei dischi, che restano in posizione sostanzialmente neutra. Inoltre l’allungamento posteriore è favorito dalla contrazione dei quadricipiti ed in particolare del retto femorale, che flette l’anca ed estende il ginocchio. E’ molto importante riuscire a portare la tensione di allungamento sulla muscolatura posteriore delle cosce, dopo di che è possibile anche flettere il busto. Se invece si parte flettendo il busto in avanti, la muscolatura posteriore resta scarica e la tensione comprime la bassa schiena. Mantenete questa postura per almeno 5 respirazioni complete.

 

               

Foto 8 – 9 allineamento della colonna e allungamento della muscolatura posteriore delle cosce

 

8.      Inspirando, sollevate il busto e allungatevi verso l’alto, completando così la sequenza con la contro-posizione della postura precedente.

 

Sequenza in piedi

 

1.      Con un saltello od un passo laterale, divaricate le gambe e ruotate il piede destro di 90 gradi verso destra, quello sinistro di 30 gradi circa verso l’interno. Le gambe sono divaricate quel tanto che basta per poter flettere il busto lateralmente ed afferrare la tibia o le dita del piede, nel caso di un atleta molto flessibile. Per fare ciò, si utilizzano l’indice ed il medio della mano, che afferrano l’alluce. Lo sguardo è rivolto verso l’alto e la mano libera viene estesa verso la stessa direzione. Le gambe sono tese, sempre per favorire l’allungamento e le anche sono sulla stessa linea dei piedi, che si trovano coi talloni perfettamente allineati. Questa postura è detta “triangolo”. Mantenete questa posizione per almeno 5 respirazioni complete, poi sollevate il busto, inspirando, e ripetete l’allungamento dall’altra parte.

 

Foto 10 postura del triangolo

 

2.      Risollevate il busto inspirando, ruotate i piedi in avanti e poi flettetevi, tenendo sempre la schiena piatta ed espirando. Appoggiate le mani a terra, in linea coi piedi, che hanno le punte leggermente rivolte verso l’interno. Ora inspirate sollevando spalle e testa, tentando di ruotare il bacino in avanti (come per inarcarsi), per portare la tensione nei muscoli delle cosce e allungare la schiena. Terminata l’ispirazione, espirate flettendovi in avanti e appoggiate la testa a terra. Le gambe devono essere tenute tese, contraendo i quadricipiti, e divaricate quel tanto che basta affinché la sommità del capo sfiori il terreno. Se le divaricate eccessivamente ridurrete l’allungamento. Anche questa postura viene mantenuta per almeno 5 respirazioni complete. La tecnica di allungamento è simile a quella dell’ultima postura della sequenza iniziale: si cerca di ruotare il bacino in avanti e di allungare la colonna, per evitare di comprimere la zona lombare e portare la tensione sui muscoli della parte posteriore delle cosce.

 

 

Foto 11 – 12 allungamento a gambe divaricate

 

La postura può essere ripetuta afferrando gli alluci per rendere l’allungamento più intenso. Cominciate afferrando le dita dei piedi e sollevando il busto, la testa e le spalle, inspirando. Iniziate l’espirazione e flettete il busto. La contrazione dei quadricipiti deve essere massima, per evitare traumi alla muscolatura antagonista che sta subendo l’allungamento. Tentate di rendere la cosa più difficile avvicinando un po’ i piedi, rispetto alla variante precedente. Anche in questa postura, la parte bassa dell’addome risale verso l’alto.

 

 

Foto 13 intensificazione: allungamento con presa degli alluci

 

Sequenza da seduti

 

1.      Da seduti, con le gambe tese, afferrate le tibie, o gli alluci espirando. Inspirate ed allungate la schiena verso l’alto, ruotando il bacino in avanti e tentando di riallineare la colonna. Ora cominciate l’allungamento verso il basso ed in avanti, lasciando che sia il mento o il naso a guidare il movimento e non la fronte (per evitare di ingobbire la schiena). Dopo 5 respirazioni complete, ripetiamo rendendo l’allungamento più intenso, appoggiando i palmi delle mani contro le piante dei piedi o addirittura afferrando le mani, intrecciando le dita, oltre i piedi. Anche il tibiale anteriore è contratto per favorire l’allungamento.

 

 

Foto 14 – 15 allineamento della colonna ed allungamento dei muscoli posteriori delle cosce

    

2.      Tenendo la gamba sinistra protesa, portate il piede destro contro l’adduttore sinistro e afferrate con entrambe le mani la tibia, il piede o, se siete abbastanza flessibili, afferrate con una mano l’altra, oltre il piede. Tenete la gamba sinistra tesa e contraete i muscoli che portano il ginocchio destro verso il basso. Inspirate ed allungatevi verso l’alto, usando il solito metodo di esecuzione (ruotate il bacino in avanti contraendo il quadricipite), poi cominciate l’allungamento con l’espirazione, portando in basso ed avanti il mento. Dopo 5 respirazioni complete ripetete dall’altro lato.

 

Foto 16 allungamento dei muscoli delle cosce una gamba per volta

 

3.      Ripetete la sequenza con le gambe nella posizione ad ostacolo.

 

Foto 17 posizione dell’ostacolista

 

4.      Gamba sinistra protesa in avanti, col piede a martello, destra piegata, con il piede appoggiato a sinistra del ginocchio della gamba tesa. Inspirando, portate il braccio sinistro in alto ed espirando portate schiena, spalle, collo e testa in torsione, appoggiando la mano destra dietro al bacino e la sinistra vicino al gluteo destro. Intensificate la torsione, contraendo i muscoli che la favoriscono. Solite 5 respirazioni, poi ripetete dall’altra parte.

 

Foto 18 torsione della colonna

 

5.      Da sdraiati, sollevate una gamba tenendola tesa, contraendo il quadricipite, fino ad arrivare ad afferrare l’alluce con indice e medio della mano. L’altra mano è appoggiata sulla coscia della gamba che resta a terra. Gli atleti meno flessibili possono cominciare il movimento con la gamba flessa, portando il ginocchio al petto: da qui utilizzate la contrazione del quadricipite per allungare la muscolatura posteriore. La mano che trattiene il piede funge solo da perno per la gamba. Ripetete dall’altro lato.

 

Foto 19 allungamento dei muscoli posteriori della coscia da sdraiato, una gamba per volta

 

Potete provare ad intensificare l’allungamento portando la fronte verso il ginocchio, nel tentativo di tenere comunque il piede della gamba protesa a terra.

 

Foto 20 intensificazione

 

6.      Da seduti, divaricate le gambe, tenendole tese, coi piedi a martello. In tutte queste posture, la contrazione del retto femorale e dell’ileo-psoas contribuisce a ruotare il bacino in avanti, allo scopo di evitare la compressione della zona lombare. Inoltre, la contrazione complessiva dei quadricipiti, di cui il retto del femore fa parte, assieme alla contrazione del tibiale anteriore, favorisce all’allungamento della muscolatura posteriore di cosce e gambe. Qui bisogna aggiungere la contrazione dei muscoli abduttori, per favorire l’apertura delle gambe e l’allungamento degli adduttori (che avvicinano le gambe, a differenza degli abduttori, che le divaricano). Afferrate le tibie o i piedi, a seconda della vostra flessibilità, con le mani. Inspirate, allungando la colonna verso l’alto. Espirate, cominciando l’allungamento verso il basso, cercando di tenere la schiena piatta. Cercate sempre di cominciare l’allungamento col mento e non con la fronte. Tenete la postura per almeno 5 respirazioni complete.

 

Foto 21 divaricata frontale

 

 

 

 

 

Sequenza finale

 

1.      Da sdraiati, portatevi nella posizione a “candela”, appoggiandovi sulle spalle ed allungando tutto il corpo verso l’alto, coi piedi uniti e protesi. Le mani sorreggono la zona lombare. Mantenete questa postura per 10 respirazioni complete. Vi servirà per prepararvi alle posture successive.

 

Foto 22 candela o postura di tutte le membra

2.      Portate le gambe indietro, tenendole tese ed espirando, nella postura dell’”aratro”. Appoggiate le mani a terra, le braccia sono distese. I piedi sono protesi. Lo sguardo è rivolto verso l’addome. Anche qui, 10 respirazioni complete. Questo è il modo corretto per allungare la schiena in flessione: non ingobbendosi nelle posture di flessione da seduto o in piedi ma al contrario, portando le gambe oltre la testa, evitando in questo modo di imporre uno stress eccessivo alla zona lombare.

Foto 23 aratro

3.      Avendo fino ad ora eseguito posture che prevedono, per la maggior parte, la flessione in avanti del busto, eseguite ora una contro-posizione, detta “arco”. Da sdraiati, portate i piedi paralleli vicino ai glutei, con la piante appoggiate a terra, alla larghezza delle spalle. Appoggiate le mani a terra, con le braccia distese. Sollevate il bacino inspirando, tenendo le spalle a terra. Contraete la muscolatura della schiena ed i glutei per favorire l’allungamento. Cercate di mantenere questa postura per almeno 5 respirazioni. Allenatevi per arrivare a 10, magari riabbassando il bacino dopo 5, in modo da inserire una pausa. Provate a ripetere afferrando le caviglie, per rendere l’allungamento più intenso. In queste posture è determinante la contrazione della muscolatura lombare e dorsale, per sfruttare la forza muscolare e l’inibizione reciproca, che favoriscono l’allungamento della muscolatura della parte anteriore del corpo.

 

 

Foto 24 – 25 arco

 

4.      Rendete la cosa più difficile eseguendo il “ponte” completo: mettete le mani all’altezza delle orecchie ed alla larghezza delle spalle o poco più. Sollevate il bacino inspirando. Allenatevi per arrivare a tenere questa postura per 5 respirazioni. Ripetete almeno una volta.

 

Foto 26 ponte

 

5.      Da sdraiati, portatevi a sedere rullando sulla schiena, con le gambe incrociate. Appoggiate le mani una sull’altra davanti a voi. Inspirate e poi flettetevi in avanti col mento, espirando, sino ad arrivare a poggiare la fronte sulle mani. Dopo 5 respiri, ripetete cambiando l’incrocio delle gambe.

 

6.      Provate la postura precedente mettendo le gambe nel mezzo loto, anziché semplicemente incrociate.

Foto 27 allungamento a gambe incrociate in flessione

 

7.      Ora, restando nel mezzo loto o a gambe incrociate, appoggiate le mani circa una spanna dietro al bacino, tenendo le dita rivolte in avanti ed estendete la schiena grazie alla contrazione di tutta la muscolatura lombare, dorsale e cervicale, per compensare la postura precedente. Soliti 5 respiri.

 

Foto 28 allungamento a gambe incrociate in estensione

 

       Con questa postura termina la sequenza.

 

Conclusioni

 

       Poche qualità fisiche possono garantire longevità sportiva, ridotta incidenza di infortuni e grande facilità di movimento nell’esecuzione di gesti atletici complessi al pari della flessibilità. Vale pertanto la pena, sia per gli atleti agonisti, sia per le persone con uno stile di vita sedentario, dedicare un po’ di tempo ogni settimana all’esecuzione di una sequenza completa di posture di allungamento.

       Ciò però può essere fatto in modo sicuro ed efficace solo tenendo conto dei principali meccanismi neurologici implicati in tale attività, in particolare il riflesso miotatico e l’inibizione reciproca. Inoltre, le varie posture devono tenere conto della conformazione anatomica delle strutture che sollecitano.

       Nonostante il rigore scientifico che tale pratica presuppone, è altresì necessario fornire delle metodologie e delle tecniche di allungamento relativamente semplici e facilmente acquisibili da persone che non hanno particolare familiarità con le pratiche yogiche più sofisticate.

       Pertanto, ho scelto di presentare un insieme di posture che presentano una notevole somiglianza con quelle utilizzate da sempre nella ginnastica a corpo libero occidentale,  nell’educazione fisica convenzionale e nel cosiddetto “stretching”.

       Ciò vuole avere lo scopo di elaborare un sistema rigoroso ma facilmente praticabile, con cui sia possibile ottenere risultati sensibili in un tempo relativamente breve. Per chi volesse portarsi oltre, la sequenza che ho mostrato rappresenta, ovviamente, soltanto un punto di partenza.

 

Davide Barbieri

Indirizzo posta elettronica  power_online@email.it

 

 

 

Bibliografia

 

V. N. Platonov “Allenamento sportivo”, Calzetti Mariucci

Kandel, Scwharz, Jessel “Principi di neuroscienze”, Casa Editrice Ambrosiana

 

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Come salvarsi dal terremoto "2"

 

COME SALVARSI DAL TERREMOTO “2”

 Gian Nicola Bisciotti Ph. D.

 Scuola Universitaria Interfacoltà in Scienze Motorie, Torino (I).Facoltà di Scienze dello Sport, Università Claude Bernard,  Lione (F).

Consulente Scientifico Internazionale FC, Milano (I)

 

In uno dei miei primi articoli apparsi su questa rivista, intitolato “come salvarsi dal terremoto”, facevo riferimento al terremoto appunto assumendolo come un modello molto simile a quello della fatica che s’instaura nell’atleta durante un’attività intensa e prolungata. Chi non si ricordasse di quanto detto nel suddetto articolo, oppure chi non lo avesse letto, può trovare un brevissimo sunto che ne mette a fuoco i punti essenziali nel riquadro specifico. Nel tempo intercorso tra l’uscita dell’articolo in questione (marzo 2001), ad ora, ho cercato di sviluppare molto questo concetto di “fatica specifica” nel gioco del calcio, sia da un punto di vista teorico, che pratico, cercando anche di fare una certa opera di proselitismo, se così si può dire, non soltanto tra i miei studenti di Scienze Motorie (troppo facile potranno obbiettare molti) ma anche nei confronti di coloro che sono impegnati professionalmente nella preparazione atletica del calcio (già più difficile potrei dire io).  Per questo motivo mi fa particolarmente piacere tentare di scrivere questa sorta di “Come salvarsi dal terremoto 2” poichè credo che molti dei concetti che andrò ad esporre ora siano la logica integrazione ed il giusto completamento, ovviamente non esaustivo, di quanto detto e scritto allora.

Il terremoto e la fatica.....

 

In natura un modello multifattoriale (ossia composto da numerosi fattori tra loro connessi ed interagenti), sovrapponibile a quello della fatica, è costituito dal terremoto: in un terremoto, l’evento scatenante, costituito dai moti ondulatori e sussultori della crosta terrestre, innesca tutta una serie di altri eventi come il crollo di palazzi, lo scoppio di tubature d’acqua e gas, incendi, crollo di dighe...ecc, tra loro collegati che portano al collassamento del sistema urbano. In un organismo impegnato in un lavoro muscolare , che porti all’esaurimento organico, avviene all’incirca la stessa cosa: tutta una serie di eventi tra loro collegati, quali la deplezione di ATP, l’aumento dell’acidosi, la diminuzione del pH, l’aumento dei pirofosfati liberi ecc. .. portano all’arresto del sistema, questa volta, biologico. Chi volesse approfondire il concetto della fatica può fare riferimento al seguente articolo : La fatica aspetti centrali e periferici., Bisciotti e coll. SdS n° 54 (gennaio-marzo): 28-41, 2002.

 

 

 

 

Figura 1: l’eziologia multifattoriale della fatica

 

 

 

Figura 2: i fattori responsabili del “collassamento” del sistema urbano durante un terremoto

 

 

 

Figura 3: alcuni dei fattori che determinano l’insorgenza della fatica durante il lavoro prolungato e che portano al “collassamento” del sistema biologico.

 

Il modello della fatica nel gioco di squadra

 La prima domanda che dobbiamo porci è: Il modello della fatica nel gioco del calcio è quello riportato nella figura 4, che tra l’altro è a tutt’oggi il modello maggiormente adottato? In altre parole è solamente il concatenarsi di diverse azioni esplosive, quali gli sprint, i balzi ecc ... a determinare nel calciatore l’insorgenza della fatica e quindi lo scadimento del rendimento atletico?

 

Figura 4: il modello della fatica nel calcio è questo?

 Direi che questa modellizzazione della fatica nel calcio è piuttosto incompleta, manca un fattore fondamentale. Infatti le azioni di tipo esplosivo, che reiterate nel tempo conducono all’affaticamento, non costituiscono “un fenomeno a se stante” ma bensì s’inseriscono su un sistema biologico che sta lentamente perdendo la propria stabilità. Ovviamente il sistema biologico a cui mi riferisco è l’organismo dell’atleta che, sottoposto ad un lavoro di minore intensità rispetto agli episodi esplosivi costituiti dagli sprint, dai balzi ecc... sta comunque già conoscendo il fenomeno dell’affaticamento. Direi quindi che una modellizzazione della fatica maggiormente rispondente a quello che realmente avviene in un situazione di competizione nel calcio, risponde piuttosto a quanto è illustrato nella figura 5.

 

Figura 5: Le azioni esplosive nel calcio s’innestano su di un lavoro di minore intensità ma che comunque affatica il sistema biologico rendendolo instabile.

 

 Tutte queste azioni s’innestano quindi su di una base “traballante”, resa instabile da tutta la mole di lavoro di media intensità, tanto misconosciuto e bistrattato, quanto protagonista nel trascinare il sistema biologico del calciatore nell’instabilità causata dall’affaticamento.

 Come rendere “stabile” il sistema?

 Nel primo articolo sul terremoto, affermavo ed affermo ancora, come la tanto ultimamente snobbata potenza aerobica potesse costituire una piattaforma antisismica in grado di stabilizzare il sistema, prorogandone il punto di collassamento. Oggi, oltre che dare ulteriori indicazioni pratiche sulla costruzione di una solida piattaforma antismica costituita dalla potenza aerobica, vorrei aggiungere altre due piattaforme, la seconda sempre di tipo organico, il cui scopo è quello di ottimizzare il rendimento della prima, e la seconda di tipo muscolare. Ma andiamo con ordine e vediamo come costruire una robusta piattaforma antisismica a base di potenza aerobica articolandone il lavoro in tre tappe fondamentali.

 

Figura 6: il sistema biologico è reso maggiormente stabile dall’interposizione di una “piattaforma antisismica” costituita dalla potenza aerobica, interposta tra le cause d’insorgenza della fatica ed il sistema stesso. In tal modo le azioni di tipo esplosivo possono innestarsi su di un sistema reso più stabile e maggiormente lontano dal punto di collassamento.

 1° tappa : il lavoro continuo.

 Si tratta di un lavoro continuo piuttosto particolare, abbastanza lontano dall’accezione classica del termine, rubato se così si può dire da un’esperienza effettuata dal Rosenborg, e che in fin dei conti può costituire una variante “rivista e corretta” delle classiche ripetute sui 1000 metri, anche se in effetti in questo caso la distanza percorsa diviene leggermente maggiore. Si tratta di effettuare 4 serie di corsa al 90-95% della FCmax (quindi al 90-95% della Velocità Aerobica Massimale) della durata di 4’, intervallate da 4’ di recupero attivo, ossia di corsa svolta al 70-75% della VAM. Lavoro indubbiamente impegnativo durante il quale ad esempio un atleta che abbia una VAM di 18 km/h percorre circa 1100 metri durante i 4’ percorsi al 90-95% della VAM e circa 850-900 mt nei 4’ svolti al ritmo pari al 70-75% della VAM.

  

Figura 7: l’andamento della FC in un lavoro di tipo 4’/4’X4 nel quale vengono alternati per 4 volte 4’ al 90-95% della FCmax a 4’ corsi  ad una FC pari al 70-80% della FCmax.

  2° tappa : il lavoro intermittente.

 In questa seconda tappa ci si avvicina maggiormente, rispetto al tipo di  lavoro precedente, alla strutturazione specifica della corsa in ambito calcistico, caratterizzata da un continuo alternarsi di fasi di accelerazione e decelerazione che comportano, oltre ad un incremento del lavoro muscolare, anche un cospicuo aumento della spesa energetica della corsa stessa, che può superare anche del 30% la spesa energetica necessaria a sostenere la stessa velocità di corsa per la medesima distanza effettuata in modalità continua anziché frazionata (Bisciotti e coll. 2001). Le modalità che potremmo definire come “classiche” attraverso le quali strutturare una seduta di tipo intermittente sono le seguenti:

 

Rapporto tempo di lavoro/tempo di recupero : 10’’/10’’ – 20’’-20’’ – 30’’-30’’ e relative varianti

Intensità di lavoro: dal 100 al 115% della VAM

Recupero: di tipo passivo (fermi sul posto), oppure attivo, in questo caso durante la pausa di recupero si dovrà correre ad una velocità, denominata Velocità di Recupero Attivo, compresa tra il 65 ed il 70% della VAM. Facciamo due esempi pratici di lavoro intermittente, il primo con recupero

passivo ed il secondo con recupero attivo, considerando sempre il caso di un atleta che abbia una VAM di 18 km/h.

 

Esempio 1 (recupero passivo)

 

Intensità: 105% della VAM

Tempo di lavoro: 20’’ durante i quali si debbono percorrere 105 mt

Tempo di recupero: 20’’ di recupero passivo

Ripetizioni: 12

Serie: 3

Recupero tra le serie: 5’ di recupero attivo a base di palleggio individuale od a coppie

 

 

 

Esempio 2 (recupero attivo): in questo secondo caso conviene strutturare la seduta in base alla distanza piuttosto che al tempo in modo da renderla maggiormente controllabile da parte del preparatore.

 

Intensità di lavoro: 105% della VAM

Distanza da effettuare: 105 metri da percorrere in 20”

Recupero: 105 metri da percorrere in 30” (70% della VAM)

Ripetizioni: 10

Serie: 3

Recupero tra le serie: 5’ di recupero attivo a base di palleggio individuale od a coppie

 

 

 3° tappa : l’intermittente ad alta intensità.

 Nel lavoro intermittente occorre sempre considerare che le diverse intensità proposte determinano differenti risposte, e conseguenti diversi adattamenti di tipo fisiologico (Bisciotti, 2002; Bisciotti e coll., 2002). In linea generale possiamo dire che un’intensità di lavoro pari al 100% della VAM comporta un tipo di intermittente che potremmo definire “aerobico”, ad un’intensità del 105% della VAM consegue un lavoro di tipo “blandamente anaerobico lattacido”, mentre ad un intermittente svolto al 110 ed al 115% della VAM, corrispondono rispettivamente un lavoro di tipo “lattacido” nel primo caso e “fortemente lattacido” nel secondo. In questa terza tappa il tipo di lavoro risulta quindi di tipo “fortemente lattacido”, e proprio per questo motivo andrà utilizzato a “ragion veduta” ed inserito in periodi ben precisi della programmazione. Un esempio di lavoro intermittente ad alta intensità, sempre considerando un’atleta la cui VAM sia  pari a 18 km/h può essere il seguente:

 

Intensità di lavoro: 135% della VAM

Tempo di lavoro: 20’’ durante i quali si debbono percorrere 135 mt

Recupero: 45” di recupero passivo

Ripetizioni: 8

Serie: 3

Recupero tra le serie: 5’ di recupero passivo, oppure 5’ di recupero attivo a base di palleggio individuale od a coppie

 

 La costruzione della seconda piattaforma antisismica

 Per consolidare ulteriormente la nostra prima piattaforma antisismica, costituita come abbiamo appena detto e visto, dalla potenza aerobica, è opportuno crearne una seconda, costituita questa volta dall’ottimizzazione del livello della soglia anaerobica. Infatti la costruzione di questa seconda piattaforma permette di migliorare il rendimento della prima. Qual è la ragione per la quale una buona soglia anaerobica dovrebbe ottimizzare l’utilizzo della potenza aerobica?. E’ presto detto, il livello di soglia anaerobica é correlato alla percentuale della VAM utilizzata a soglia (Bisciotti, Alfano, Gaudino, 2002). In altre parole, più il valore di soglia è elevato, maggiore risulterà la percentuale di VAM che si potrà utilizzare durante un lavoro prolungato. Cosa significa questo in ambito calcistico? Significa che i calciatori che avranno i migliori valori di soglia anaerobica saranno anche coloro i quali potranno utilizzare nel corso della partita una percentuale maggiore della VAM. Inoltre per approfondire ancor di più il concetto di soglia v’invito al leggere il box “Soglia, VAM e carico interno”

 

 

 

Figura 8: la costruzione di una seconda piattaforma antisismica, costituita dalla soglia anaerobica, permette di ottimizzare l’utilizzo della prima costituita dalla potenza aerobica.

 

 

Figura 9:come per poter costruire un palazzo di una certa altezza è necessario avere a disposizione delle fondamenta solide, avere un buon valore di soglia anaerobica permette al giocatore di calcio di utilizzare nel corso della partita una percentuale maggiore della propria VAM.

 Come migliorare il proprio valore di soglia

 Per migliorare il valore di soglia anaerobica proporrei 3 metodi, ossia il lavoro continuo a soglia, le ripetute a soglia e sopra-soglia ed  il progressivo. Vediamo di esaminarli uno ad uno fornendo come al solito degli esempi pratici di costruzione della seduta.

 Il lavoro continuo a soglia.

 Si tratta di correre per circa 20 minuti al ritmo della propria soglia anaerobica. Per cui per un calciatore che abbia una soglia pari a 14.5 km/h si tratta di correre al ritmo di 4’08’’/km. A questo punto vorrei tranquillizzare coloro i quali temono che simili lavori possano “rallentare” il giocatore provocando una massiccia trasformazione di fibre veloci in fibre lente. Non è certamente effettuando alcune sedute di questo tipo, fermo restando comunque il fatto che il ritmo di soglia è comunque un ritmo piuttosto “vivace”, che si rischia di indurre simili trasformazioni strutturali.

 Le ripetute a soglia e sopra-soglia.

 E’ un lavoro basato sulla percorrenza di distanze definibili come “classiche” (ad esempio i 1000 metri) percorse ad un ritmo che può andare dal 100 al 110% del ritmo di soglia. Un esempio pratico un atleta che abbia una soglia di 14.5 km/h potrebbe essere:

 

Distanza: 1000 metri

Intensità: 110 % della velocità di soglia, pari al 16 km/h (3’45”/km)

Serie: 5

Recupero: Da 3’ a 5’

 

 

 Il progressivo

 Nel progressivo si tratta di correre una distanza di circa 4 – 5 km a velocità progressivamente crescenti. La velocità di partenza del primo km può essere circa pari all’80% - 85%della velocità di soglia sino ad arrivare, all’ultimo km ad una velocità pari al 105% della velocità di soglia. Un esempio, sempre per un atleta la cui soglia sia eguale a 14.5 km/h, potrebbe essere:

 

Progressivo sulla distanza di 5000 metri

 

1° km in 5’10” (pari all’80% della velocità di soglia)

2° km.in 4’52” (pari all’85% della velocità di soglia)

3° km.in 4’37” (pari all’90% della velocità di soglia)

4° km.in 4’08” (pari al 100% della velocità di soglia)

5° km in 3’57’’(pari al 105% della velocità di soglia

 

Si può eventualmente raddoppiare l’ultimo palier, ossia percorre 2000 mt in 8’16”, escludendo il km percorso al 105% della velocità di soglia ma ovviamente le varianti possibili sono numerose.

 La piattaforma antisismica muscolare

 Questa è l’ultima tappa dell’opera di “solidificazione” del nostro sistema biologico. Infatti anche se alcuni autori avanzano un’ipotesi contraria (Vandewalle e Le Chevalier, 2002), avere buone capacità di potenza aerobica e di soglia, non significa affatto avere buone capacità di resistenza alla forza veloce. A questo proposito, oltre naturalmente a tutti i tipi di esercitazioni a base di navette di vario tipo, vorrei proporre tre metodi di lavoro che ho concettualizzato ed utilizzato molto nell’ambito della preparazione atletica, non solo del calcio, ma anche di altre discipline sportive come il tennis ed il judo e che, a mio a mio parere, possono essere di un certo interesse.

  

 

Figura 10: la resistenza alla forza veloce costituisce l’ultima delle piattaforme in grado di stabilizzare il nostro sistema biologico.

  

La resistenza intra-serie

 

Una seduta basata su quella che ho voluto denominare “resistenza intra-serie” segue una struttura di questo tipo:

 

Tipo di esercitazione: Squat (oppure pressa o leg extension nel caso del quadricipite femorale, leg curl nel caso del bicipite femorale)

Serie : da 5 ad 8

Carico: dal 65 al 70% del carico massimale

Ripetizioni: da 10 a 12 RM

Recupero: circa 3’ , comunque totale.

 

 La logica che si persegue in questo tipo di lavoro è di dare la priorità al mantenimento dello stesso carico e dello stesso numero di ripetizioni , dalla prima all’ultima serie, per questo motivo il tempo di recupero tra le serie deve essere totale. In tal modo la resistenza muscolare viene allenata all’interno di ogni singola serie.

  

 

Figura 11: la logica della resistenza intra-serie

 La resistenza inter-serie

 

 Al contrario una seduta basata sulla“resistenza inter-serie” è strutturata secondo questo schema:

 

Tipo di esercitazione: Squat (oppure pressa o leg extension nel caso del quadricipite femorale, leg curl nel caso del bicipite femorale)

Serie : da 5 ad 8

Carico: modulabile in funzione del numero di ripetizioni da effettuare

Ripetizioni: da 10 a 12 RM

Recupero: circa 40” comunque imparziale

 

 

La logica che si persegue nel metodo della resistenza inter-serie, è quella di dare la priorità al numero di ripetizioni da effettuarsi in ogni serie. Dal momento che la pausa ridotta che si osserva  tra le serie non permette un recupero muscolare totale, il carico andrà modulato, ossia ridotto serie dopo serie, in modo tale da mantenere costante il numero delle ripetizioni svolte durante ogni serie stessa. In tal modo la resistenza muscolare viene allenata , sia all’interno di ogni singola serie, che nella globalità delle serie stesse.

  

 

Figura 12: la logica della resistenza inter-serie

 A questo punto diviene logico domandarsi “qual è sostanzialmente la differenza tra la metodologia della resistenza intra-serie e quella inter-serie”?. La risposta è che nel primo caso la resistenza viene allenata ponendo l’accento anche sulle caratteristiche di forza e sull’ipertrofia (poiché il carico è costante e di una certa entità), mentre nel secondo caso si lavora in modo specifico la resistenza, coinvolgendo in modo meno pronunciato lo sviluppo della forza ed il fenomeno ipertrofico (l’entità del carico infatti diminuisce di serie in serie).

 

La “resistenza alla potenza”

 In effetti l’appellativo di resistenza alla potenza potrebbe sembrare prima vista una“contraddizione in termini", come possono, diranno in molti, convivere le caratteristiche di resistenza con quelle di potenza? Ed invece, strano a dirsi, possono. Vediamo di spiegare questo “strano fenomeno”. In primo luogo si tratta di stabilire, per ciò che riguarda l’esercitazione considerata, il carico che ci permette di esprimere il picco di potenza (figura 13). Secondariamente occorre verificare il numero di ripetizioni che l’atleta, utilizzando il carico in questione, riesce ad effettuare senza scendere al di sotto del 90% del valore della potenza di picco. Poniamo che queste siano 7 (in effetti normalmente è possibile effettuare dalle 6 alle 8 ripetizioni). A questo punto occorre sottrarre 3 ripetizioni al numero di ripetizioni precedentemente calcolate, in questo caso : 7-3 = 4 ripetizioni. Ora si tratta effettuare 4 ripetizioni per 3 volte intervallate da 30” di recupero, questo costituisce una serie.Il fattore importante da sottolineare è che in tutte le ripetizioni della serie l’atleta non scenderà mai al di sotto del 90% del valore della potenza di picco. Questo perchè i 30’’ di recupero permettono un parziale ma sufficiente ripristino delle scorte di CP. Alla fine si saranno effettuate un totale 12 ripetizioni contro le 7 possibili con il metodo tradizionale. Non si tratta allora di “resistenza alla potenza”?

 


 


Figura 13: la determinazione del carico che permette la produzione del picco di potenza attraverso il Power Test (Globus Italia Evaluation System) (Bisciotti, 2001).

 

 

 

Figura 14: la logica della “resistenza alla potenza”

 

Soglia, VAM e carico interno

 

Molti ritengono che la VAM sia un parametro sufficiente per quantificare correttamente il carico di lavoro interno di un atleta durante un lavoro di resistenza organica. Non mi trovo d’accordo completamente con questo concetto e vorrei spiegarne brevemente il perchè. Poniamo il caso di due atleti, Ugo e Giovanni, che abbiano lo stesso valore di VAM, ad esempio 18 km/h ma diverso valore di soglia anaerobica, ammettiamo 15 km/h per Ugo e 13.5 per Giovanni. Se Ugo e Giovanni dovessero svolgere un lavoro costituito da 20’ di corsa continua a 14 km/h, utilizzando come sola discriminante per la parametrizzazione del carico interno la VAM, verrebbe logico pensare che i nostri due atleti sosterrebbero il medesimo carico interno, entrambi infatti sarebbero al 78% della loro VAM. Ma se considerassimo i loro rispettivi valori di soglia, Ugo lavorerebbe sotto soglia mentre Giovanni correrebbe sopra soglia, ragion per cui non potremmo più ragionevolmente sostenere l’ipotesi che entrambi svolgano un lavoro di egual carico interno. Che conclusione trarre da tutto ciò? Che durante lavori prolungati, direi dai 20’ in poi (tempo al di là del quale entra in gioco il valore di soglia anaerobica), per parametrizzare correttamente il carico interno occorre considerare il valore di soglia anaerobica, mentre per lavori di durata più corta, il valore di VAM ci dà già di per se una corretta valutazione del carico interno sostenuto.

 

 Per chi volesse approfondire

 Bisciotti Gian Nicola, Sagnol Jean Marcel. Filaire Edith. Aspetti bioenergetici della corsa frazionata nel calcio. SdS. 50 : 21-27, 2000.

 Bisciotti GN., Gaudino C., et al. The Physiological effects of time work, intensity and time recovery in the intermittent training. Med Sport. Submitted.

 Vandewalle H., Le Chevalier JM. Puissance critique locale, puissance aérobie locale et générale et endurance de force. Science et Motricité n° 43-44: 56-57, 2002.

 

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La Fatica: aspetti centrali e periferici

 

LA FATICA: ASPETTI CENTRALI E PERIFERICI

             

Bisciotti GN. Ph D(1,2,3) ., Iodice PP (1), Massarelli R (1).  Sito www. scienzaesport.com

 1)      Dipartimento "Entraînement et performance" , Facoltà di Scienze dello Sport, Università Claude Bernard, Lione (F).

2)      Scuola Universitaria Interfacoltà di Scienze Motorie, Torino (I)

3)      Consulente Scientifico Internazionale FC

 SdS. Anno XXI, 54: 28-41, 2002

Key words: Fatica periferica, fatica centrale, acidosi, fosfati inorganici, eccitazione-contrazione, serotonina, ammoniaca.

 

Abstract:

Il fenomeno della fatica ha un’eziologia multifattoriale, non sempre facilmente identificabile e la cui interpretazione spesso comporta numerosi dubbi e non poche contraddizioni concettuali. Classicamente si tende a suddividere il fenomeno  in fatica periferica e fatica centrale attribuendo alla prima cause prevalentemente metaboliche ed alla seconda invece motivazioni essenzialmente  di tipo neurale. Tuttavia il quadro generale non è sempre così perfettamente distinguibile ed i vari fattori scatenati si sovrappongono molto spesso in maniera indistinguibile, rendendo la situazione di difficile lettura interpretativa. In questa breve review  si cerca di fare un punto sullo stato attuale di conoscenza della problematica inerente l’insorgenza della fatica, sia periferica, che centrale, sottolineando i molti punti di dubbio ed i possibili futuri campi d’indagine.

 

INTRODUZIONE

 Nel corso degli ultimi trent’anni il concetto di fatica si è piuttosto modificato ed  in un certo senso “evoluto”. Prima degli anni ’70 infatti, fisiologicamente  la nozione  di fatica era essenzialmente un sinonimo dell’esaurimento delle scorte energetiche, prevalentemente dell’ATP e dell’ accumulo di sostanze inibitrici nei confronti dei meccanismi di ripristino energetico (Westerblad e coll., 1991). Solamente a partire dagli anni ’80 si è cominciato ad interpretare il  fenomeno come multifattoriale e reversibile, considerando anche, sia la sua diversa  velocità, che i suoi differenti termini d’insorgenza. Più tardi, a cominciare dagli anni ’90, si è potuto assistere ad un crescente consolidamento dei concetti di plasticità muscolare, dei meccanismi di ottimizzazione della produzione di forza da parte del muscolo e della sua ricerca di “attivazione economica”, nonché più recentemente all’apparizione del concetto di formazione di complessi sub-cellulari tra i sistemi biologici e gli elementi ultrastrutturali legato al concetto di formazione di micro-ambienti (Korge e Campbell, 1995).

Autori come  Korge e Campbell, mettono in discussione il fatto che uno dei fattori scatenanti il fenomeno della fatica possa essere costituito dalla mancanza di ATP, dal momento che la deplezione di ATP viene efficacemente controbilanciata dalla sua rigenerazione attraverso un fenomeno di down-regulation anche nel muscolo affaticato. Potenzialmente questo fenomeno di down-regulation potrebbe essere svolto da alcuni prodotti della reazione ATPasica[1] come dall’accumulo di Pi od H+. I due Autori sottolineano come esistano evidenze sperimentali che dimostrino che il legame della creatin-kinasi e degli enzimi glicolitici nella vicinanza dei siti d’idrolisi dell’ATP ed il loro accoppiamento funzionale con i meccanismi di rigenerazione dell’ATP, potrebbe creare un “micro-ambiente” che abbia un importante ruolo nella regolazione della funzione ATPasica. Un’importante funzione in questo fenomeno di rigenerazione dell’ATP può essere assunto dal valore ottimale di ratio locale ADP/ATP, che sembrerebbe particolarmente importante nel caso di un alto turnover dell’ATPasi. Sfortunatamente nel muscolo in vivo non è dato conoscere il massimo rateo locale di rigenerazione dell’ATP, in funzione della sua idrolisi, questa mancanza di conoscenza di dati precisi è principalmente dovuta al fatto che, nella determinazione in vitro questo valore viene di fatto sistematicamente  sottostimato. Ed è proprio negli anni ’90 (Atlan  e coll., 1991) che appare per la prima volta il temine anglosassone wisdom (che tradotto letteralmente significa saggezza) che descrive il sistema di protezione di tipo progressivo messo in atto dal muscolo contro il fenomeno della necrosi.

I due principali processi implicati nell’insorgenza del fenomeno della fatica, che sono costituiti dalla trasmissione del segnale nervoso e dalla catena energetica metabolica, sono fortemente interagenti e si sovrappongono costantemente, costituendo in tal modo, sia singolarmente, che sinergeticamente, la causa scatenante della fenomenologia. La bibliografia inerente la problematica fisiologica della fatica è vastissima (si possono trovare oltre 3.800 articoli scientifici sull’argomento) e costellata di numerose divergenze interpretative riconducibili essenzialmente a problemi di standardizzazione e riproducibilità tra i vari protocolli d’indagine. Soprattutto la trasposizione di dati ottenuti in vitro, rispetto alla situazione in vivo, è alquanto deludente. Occorre anche notare che, sia i criteri di ordine biomeccanico, che quelli di tipo prettamente biologico, inerenti il fenomeno della fatica, sono sovente mal definiti, dal momento che occorre ricordare che la fatica, e conseguentemente la sua modalità d’insorgenza, è “compito-specifica”, ossia presenta una forte specificità nei confronti dell’attività che la ha indotta (Allen e coll., 1995; Fitts e Metzger, 1993; Fitts, 1996; Green, 1997; Mc Lester, 1997;  Sejerstede e coll., 1998; Westerblad e coll., 1991).  D’altro canto anche la classica forma iperbolica che descrive il rapporto tra tempo limite e la  percentuale di forza massimale utilizzata nel corso dell’esercizio, ci sottolinea l’aspetto fortemente multifattoriale del fenomeno (Rohmer, 1968).

In questo lavoro prenderemo in esame i principali fattori che determinano l’insorgenza della fatica periferica e  della fatica centrale per poterci meglio rendere conto della complessità del problema e del suo aspetto “multiparametrico”, che rende impossibile poter imputare ad un solo fattore l’insorgenza del fenomeno.

  LA FATICA PERIFERICA

 Come già accennato il fenomeno della fatica è stato indagato tramite l’utilizzo di svariati protocolli di studio, il più delle volte  difficilmente riproducibili e standardizzabili ed in ultima analisi scarsamente confrontabili. Le metodiche  maggiormente utilizzate sono costituite da sperimentazioni su muscolo isolato oppure in vivo, sia sull’animale, che sull’uomo. Un grosso apporto metodologico è stato costituito, verso la fine degli anni ’70,  dall’avvento della Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) grazie alla quale si è reso possibile lo studio non invasivo ed in tempo reale dei meccanismi energetici cellulari, come ad esempio la concentrazione muscolare di protoni. Grazie all’avvento di questa nuova tecnica si è potuto dare vita a tutta una serie di modelli che hanno tentato e tentano di descrivere, con la maggior precisione possibile, tutte le tappe che portano alla produzione di forza all’interno del muscolo in attività. Tuttavia, indipendentemente dalle tecniche di indagine utilizzate, il concetto di fatica varia in funzione dei diversi Autori. Alcuni infatti adottano come criterio valutativo delle variabili di tipo biomeccanico, come la tensione muscolare, altri invece preferiscono adottare dei parametri di ordine biologico come la concentrazione di alcuni composti, oppure l’attività di alcuni enzimi o di alcuni complessi molecolari. Da un punto di vista prettamente metodologico, i tre tipi di metodo di lavoro maggiormente utilizzati nei protocolli d’indagine della fatica muscolare sono costituiti dalla contrazione isometrica di tipo continuo, dalla contrazione isometrica di tipo discontinuo e dalla contrazione isotonica discontinua. Questa ultima modalità di lavoro può essere svolta eccentricamente, concentricamente, attraverso la modalità isocinetica oppure grazie ad una combinazione di queste differenti possibilità.  La durata, la progressività e l’intensità delle esercitazioni proposte nei vari tipi di protocollo utilizzati sono le più svariate e costituiscono un ulteriore problema interpretativo.

  I MECCANISMI ED I SITI IMPLICATI NELL’ISORGENZA DELLA FATICA IL RUOLO  DELLE POMPE Na+/K+ ATPase E Ca++ ATPase

 Come è noto il segnale chimico prodotto grazie all’acetilcolina, si traduce a livello del sarcolemma nuovamente in segnale elettrico. Se infatti una quantità sufficientemente elevata di questo neurotrasmettitore si lega ad i recettori post-sinaptici, aumenta la permeabilità del sarcolemma stesso nei confronti del sodio, da qui risulta una depolarizzazione della membrana e la propagazione di un potenziale di azione che si propaga lungo il sarcolemma. Questo potenziale viene in seguito trasmesso ai tubuli traversi (sistema T) verso l’interno della cellula. In questa sequenza di eventi sono implicate, sia la pompa Na+/K+ ATPase, al livello del sarcolemma, che la pompa Ca++ ATPase, a livello del reticolo sarcoplasmatico. Le due pompe regolano i gradienti ionici trans-membranari che sono necessari al fenomeno eccitatorio ed all’attivazione dell’accoppiamento acto-miosinico. La pompa Ca++ ATPase presenta una forte specificità in rapporto ad i vari tipi di fibra e ne condiziona la velocità di contrazione, al contrario la pompa Na+/K+ ATPase presenta poche differenze in rapporto alla tipologia delle fibre muscolari. Numerose sperimentazione, effettuate su muscolo in vivo, dimostrano come il bloccaggio di queste due pompe, causi un abbassamento della capacità di contrazione (Nielsen e Harrison, 1998). Alla fine di un esercizio condotto ad esaurimento il ritorno ad uno stato di omeostasi della pompa Na+/K+ ATPase, si presenta più rapido di quello relativo alla pompa Ca++ ATPase (Green, 1998), tuttavia l’alterazione della funzionalità della pompa Na+/K+ ATPase, che si verifica in condizioni di fatica, altera significativamente il gradiente membranario del potassio (McLester, 1997). Durante gli esercizi prolungati, soprattutto svolti ad una certa intensità, si verifica un’importante fuoruscita di potassio, tale da essere notabile anche a livello della differenza artero-venosa del catione stesso. La riduzione del potenziale di azione che ne consegue, che è dell’ordine di circa il 50%, potrebbe essere sufficiente per modificare la funzionalità dei tubuli traversi ed impedire la liberazione di Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico, situazione che porterebbe ad una diminuzione della capacità di produzione della forza da parte del muscolo (Nielsen e Overgaard, 1996; Rios e coll., 1991; Rios e Pizzarro, 1988). La capacità di resistenza contrattile, sembrerebbe quindi dipendere dall’efficienza della pompa Na+/K+, anche se per alcuni Autori (Sjogaard, 1996), il ruolo del potassio nell’insorgenza della fatica dipenderebbe dalla natura della sperimentazione (in vivo oppure in vitro) e dall’intensità del lavoro imposto. In vivo ed a bassa intensità di lavoro infatti il ruolo del potassio, nel fenomeno d’insorgenza della, fatica sarebbe alquanto limitato, e l’apparizione quest’ultima dipenderebbe essenzialmente ad una disfunzionalità del sistema T (Sjogaard, 1996). Al contrario nel caso in cui siano presenti un’alta frequenza ed un importante intensità di contrazione, si verifica una significativa elevazione del gradiente extracelluare di potassio che si accompagna, sia  ad una diminuzione del potenziale di membrana, che del potenziale di azione e di velocità di propagazione dell’onda elettrica (Sjogaard, 1996).

Questo aumento del gradiente extracellulare di potassio, influenzerebbe  a sua volta  il fenomeno di retrocontrollo del debito sanguigno muscolare locale, la cui conseguenza potrebbe essere la stimolazione di chemiorecettori arteriosi che indurrebbero un aumento della pressione arteriosa (Paterson, 1996). Il ruolo del potassio nell’insorgenza della fatica verrebbe ulteriormente confermato dal fatto in numerose sperimentazioni, nelle quali veniva aggiunto potassio nell’ambiente cellulare, si verificava inequivocabilmente una diminuzione della produzione di forza, anche in un muscolo inizialmente non affaticato (Sjogaard, 1996). Nelle sperimentazioni in vitro, al contrario, non è possibile attribuire   al potassio un ruolo particolarmente importante nell’insorgenza della fatica, a causa della sua diluizione immediata nell’ambiente cellulare. Nelle esperienze in vitro, è piuttosto il calcio che si presenta sempre ben correlato alla produzione di forza.

Tuttavia occorre riportare come in bibliografia sia possibile ritrovare protocolli sperimentali nei quali l’affaticamento sia sopravvenuto senza che peraltro si potessero registrare significativi incrementi del potassio extra-cellulare (Sjogaard, 1996), in alcune di queste situazioni infatti il potenziale membranario e l’ampiezza del potenziale d’azione rimanevano sostanzialmente stabili, anche in presenza del fenomeno di affaticamento, e l’aumento del gradiente extra-cellulare di potassio poteva addirittura influenzare positivamente la produzione di forza. Questi dati ci fanno quindi chiaramente intuire come il potassio non sia l’unico elemento responsabile della fatica muscolare e come comunque non agisca sempre in modo diretto.

Altri fenomeni che potrebbero essere collegati all’insorgenza della fatica, riscontrabili nelle sperimentazioni in vivo, possono essere costituiti dall’apparizione di sostanze antagoniste dell’acetilcolina a livello della giunzione neuro-muscolare oppure dall’accumulo di protoni.

  IL CALCIO INTRACELLULARE E L’ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-CONTRAZIONE

 All’interno della cellula l’insorgenza della fatica sembra legata ad una fenomenologia piuttosto complessa concernente sostanzialmente delle variazioni, sia  nella distribuzione e nei legami, oltre che nella concentrazione e nei movimenti del calcio (Williams e coll., 1995). Alcuni lavori (Westerblad e coll., 1990) in effetti mostrano come dopo un periodo di contrazione tetanica ad alta frequenza   compreso tra i 5 ed i 10 secondi, la concentrazione di Ca++ risultasse minore al centro della fibra in rapporto a quanto non fosse al bordo della fibra stessa , questo dato indicherebbe un deficit di liberazione, al centro della fibra, probabilmente dovuto ad un difetto del potenziale di azione del sistema T. Occorre a questo proposito considerare che, dal momento che il sistema T non è solamente devoluto a veicolare il potenziale d’azione ma anche ad indurre una sorta di  retroregolazione nei confronti dell’accumulo degli ioni calcio, un loro cospicuo aumento potrebbe elevare la soglia di propagazione del potenziale d’azione del sistema T stesso (McLester, 1997). Nonostante tutto, comunque il ruolo del sistema T e del reticolo sarcoplasmatico nell’insorgenza della fatica periferica, non è ancora del tutto chiaro, anche se alcuni Autori (Chin e Allen, 1998; Linde e coll, 1998.) concordano nell’associare la fatica con almeno tre meccanismi legati al calcio di cui i primi due sono costituiti da una diminuzione, sia della sua liberazione, che del suo ripompaggio da parte del reticolo sarcoplasmatico ed il terzo è rappresentato da un abbassamento della sensibilità delle miofibrille sempre nei confronti del Ca++ stesso.  Anche il pH locale, come vedremo in seguito, potrebbe giocare un qualche ruolo attivo in questo tipo di meccanismo. In definitiva dunque tutte queste modificazioni riguardanti la concentrazione del Ca++ intracellulare, costituiscono una forte  causa di perturbazione del meccanismo di accoppiamento eccitazione-contrazione, anche se occorre sottolineare che la diversa  tipologia delle fibre è differentemente influenzata da questa catena di eventi. Le fibre ossidative infatti vengono meno perturbate dalle variazioni della concentrazione di Ca++ intracellulare, durante il loro ciclo di accoppiamento eccitazione-contrazione,  rispetto alle fibre glicolitiche (Stephenson e coll., 1998), questo diverso comportamento potrebbe spiegare, almeno in parte, la loro maggior resistenza alla fatica.

  IL RUOLO DELL’ ACIDOSI

 Il metabolismo dell’ATP è strettamente legato a quello dei protoni ed all’equilibrio acido-basico del sarcoplasma (Sahlin, 1994;  Linderman e Gosselink, 1994). In effetti la quasi totalità delle reazioni ossidative concernenti L’ATP, comprese la sua idrolisi e la sua reintegrazione, vedono una liberazione ed un’assunzione di protoni da parte dell’ambiente. L’idrolisi di una molecola di ATP libera un protone, la glicolisi anaerobica citoplasmatica forma 2 molecole di ATP per ogni molecola di glucosio utilizzata con la conseguente liberazione di due protoni, come d’altro canto la glicogenolisi nella quale vengono prodotte 3 moli di ATP per ogni mole di glicogeno e comunque vengono rilasciati nell’ambiente cellulare 2 protoni. Il meccanismo anaerobico alattacido, al contrario ha un bilancio protonico nullo, essendo la scissione della fosfocreatina un meccanismo blandamente alcalinizzante (Wooledge, 1998). A riposo, o nel  corso dell’esercizio svolto a bassa intensità, il sistema è leggermente sbilanciato verso un modico accumulo di protoni, dal momento che in simili condizioni, la loro produzione risulta maggiore, seppur leggermente, del loro recupero, che si attua attraverso le vie di resintesi dell’ATP. Il sarcoplasma riesce comunque a mantenere nel corso del lavoro poco intenso, un pH relativamente stabile grazie, sia all’intervento di numerosi sistemi tampone, che alla fuoruscita dalla cellula di protoni e di gas carbonico. Questi sistemi sono particolarmente efficaci, basti pensare che in totale assenza di tamponi cellulari, il pH cellulare scenderebbe a 1.5 (Rouillon e Candau, 2000). Alcuni di questi processi, come ad esempio il meccanismo di trasporto dei bicarbonati, sono stati scoperti solamente di recente, tanto è vero che nel 1994 Linderman e Gosselink sostenevano ancora l’impermeabilità del sarcolemma nei confronti del bicarbonato. E’ facilmente comprensibile dunque come, nonostante il loro indubbio interesse nei confronti del fenomeno della fatica, questi aspetti siano ancora molto inesplorati e poco conosciuti. Possiamo comunque dire che il potere tampone del muscolo scheletrico risulta maggiore di quanto non sia quello plasmatico ma minore di quello eritrocitario e che i principali sistemi tampone sono costituiti dal sistema bicarbonato/acido carbonico,  dal sistema  proteina/proteinato e dal sistema fosfato monoprotonico/fosfato diprotonico. Dal momento che negli esercizi di alta intensità la cui durata vada oltre qualche secondo, la risentesi dell’ATP avviene essenzialmente tramite il meccanismo anaerobico lattacido, la concentrazione di protoni nell’ambiente cresce rapidamente, superando ben presto le possibilità di controllo del sistema tampone , il risultato è un rapido abbassamento del pH sarcoplasmatico (Mannion e coll., 1995). La perfusione degli ioni H+ dalla fibra muscolare al torrente circolatorio, avviene con una velocità di circa 30 volte maggiore rispetto a quanto non sia per lo ione lattato (La-), questo grazie alla loro minor dimensione (Shepard, 1986). Circa un terzo degli H+ non sarebbe comunque associato agli La-, questo starebbe ad indicare l’importante ruolo giocato in questo senso dal sistema di scambio sodio/protoni e dai sistemi bicarbonato-dipendenti (Bangsbo e coll., 1990). Il ruolo dell’abbassamento del pH nell’insorgenza del fenomeno della fatica è un argomento molto indagato e per alcuni aspetti controverso (Allen e coll., 1995;  Chin e Allen, 1998;  Fitts e Metzger, 1993; McLester, 1997;  Westerblad e coll., 1991) e l’elenco delle conseguenze fisiologiche che i vari Autori attribuiscono all’acidosi è molto lungo: diminuzione dell’attività della pompa sodio/potassio con conseguente apertura dei canali potassici, diminuzione della fissazione del calcio sulla troponina, dato il suo antagonismo con gli H+, diminuzione nella formazione del numero di ponti acto-miosinici, diminuzione della velocità di accorciamento, diminuzione dell’energia cellulare dovuta ad un abbassamento dell’attività enzimatica principalmente della fosfofruttochinasi, diminuzione della miosina ATPasi (che vede il suo pH ideale situato a 7.2), diminuzione sia dell’uscita di calcio, che di protoni dalla cellula, aumento della rigidità delle proteine. Tutto questo quadro viene ulteriormente aggravato in condizioni d’ipertermia. Numerosi studi confermano il ruolo effettivo sostenuto dall’acidosi muscolare nell’insorgenza della fatica nel corso di esercizi svolti ad alta intensità e di media durata (Linderman e Gosselink, 1994). D’altro canto una controprova indiretta dell’importanza dell’abbassamento del pH muscolare nel fenomeno della fatica, è costituito dall’aumento della massa muscolare stessa, e quindi del potere tampone del muscolo,  in seguito ad alcuni tipi di allenamento (Juel, 1998). Tuttavia sono molte le perplessità espresse in merito all’abbassamento del pH come maggiore responsabile della situazione di affaticamento periferico. Quelle che potremmo definire come “divergenze interpretative”,  vanno dalla messa in discussione dei metodi d’indagine utilizzati, come ad esempio il fatto che nella fibra isolata i protoni escano più velocemente di quanto non facciano nella fibra in vivo, sino alla critica di alcuni aspetti maggiormente specifici. Secondo alcuni Autori il lattato non sarebbe né il solo, né tanto meno il principale fornitore di protoni nel corso dell’esercizio muscolare. Secondo i dati riportati da Sahlin (1992) il pH riscontrato su di un prelievo bioptico  muscolare in condizioni di riposo e di fatica, passa da un valore di 7.1 a quello di 6.6, in queste condizioni la concentrazione di lattato aumenta, passando da 1 a 30 mmol . l-1 di acqua intracellulare. Contemporaneamente la degradazione di PCr e di ATP prima in ADP e susseguentemente  in AMP provoca la liberazione di grandi quantità di acido fosforico (H3PO4) che vede aumentare la sua concentrazione da 17 a 49 mmol  l-1 di acqua intracellulare. Sapendo che il pH rappresenta il logaritmo decimale su base negativa (ossia dell’inverso) della concentrazione di protoni, possiamo calcolare, sia la concentrazione di protoni prima dell’esercizio (79 nmol  l-1 : 1 nmol = 10-6 mmol), che quella riscontrabile dopo l’esercizio stesso (251 nmol  l-1): In quest’aumento di concentrazione di protoni post-esercizio, che  è quindi di 172 nmol  l-1, il contributo della degradazione dei composti fosforici ad alta energia (PCr, ATD, ADP) sarebbe di  1.5 volte maggiore rispetto a quello del lattato  (Sahlin, 1992).

Sempre Sahlin (1992) ed altri Autori (Hirvonen e coll., 1987; 1992),  farebbero osservare come durante un esercizio di breve durata svolto ad alta intensità, la degradazione di PCr e l’accumulo di lattato siano tra loro in un rapporto molto vicino, se non eguale, ad  1:1.  In altre parole questi Autori sottolineano il fatto che quando la concentrazione di lattato aumenta di 1 mmol  l-1, quella di PCr diminuisce di altrettanto. Come è noto La formazione di una mole di creatina, proveniente dalla degradazione di una mole di PCr, permette l’eliminazione di una mole di protone  e di una mole di lattato, in tal modo la degradazione della PCr tamponerebbe la gran parte dei protoni forniti dalla glicolisi anaerobica.  Se è indubbio che la contrazione muscolare, effettuata al di là di una certa intensità, provochi un abbassamento del pH, che è a sua volta  responsabile dell’inibizione della PFK (fosfosfofruttochinasi), l’enzima chiave della glicolisi lattacida ,  è altrettanto vero che il fenomeno che interagisce tra questi due fattori, acidificazione dell’ambiente ed inibizione della PFK, non è sempre perfettamente chiaro. L’attività ottimale dell’enzima PFK si trova ad un pH di 7.03, ossia molto vicino al pH che presenta il muscolo a riposo, la caduta del pH sino a valori di 6.63, livelli d’altro canto facilmente raggiungibili nel corso di un’esercitazione intensa, vede in effetti abbassarsi praticamente a zero l’azione dell’enzima chiave del meccanismo glicolitico. Tuttavia anche in simili condizioni, un certo numero di composti, che sono presenti a livello muscolare, sono in grado di  rimuovere l’azione inibitrice svolta dai protoni sulla PFK stessa. Ad esempio ad un pH pari a 6.63, l’aggiunta di fosfato inorganico, sino al raggiungimento del livello di 20 mmol . l-1,riporta l’attività enzimatica della PFK a circa il 40% delle sue capacità (assumendo come 100% dell’attività della PFK quella registrabile a pH 7.3). Anche l’aggiunta di ADP, in ragione di 0.5 mmol l l- riporta l’attività enzimatica della fosfofruttochinasi al 55% delle sue piene potenzialità, mentre queste ultime rimontano sino a ben il 70% dopo l’aggiunta di una pur scarsa quantità di fruttosio 1,6 bifosfato, composto quest’ ultimo, che sappiamo essere ben presente nel muscolo in attività, nel quale svolge peraltro degli importanti ruoli di regolazione (Perronet, 1994). Questi dati potrebbero quindi inficiare la teoria secondo la quale l’accumulo di lattato, ed il conseguente abbassamento del pH, inibirebbero l’attività della PFK, o per meglio dire, sottolineerebbero il fatto che tale fenomeno sia perfettamente osservabile in sperimentazioni effettuate su muscolo isolato ma non altrettanto evidente sul muscolo in vivo, nel quale il livello di ATP e di fruttosio 6 fosfato ( da cui per fosforilazione da parte dell’ATP deriva il fruttosio 1,6 bifosfato) sono molto più elevate.

Anche il ruolo dell’abbassamento del pH sull’apparato contrattile potrebbe essere comunque messo in discussione. E’ conoscenza comune l’antagonismo esistente tra i protoni e gli ioni calcio sui siti di legame della troponina. Questo sarebbe in effetti un meccanismo di difesa del muscolo che inibendo appunto il meccanismo di contrazione in presenza di un pH eccessivamente basso, previene i possibili danni che potrebbero conseguire al perdurare della contrazione muscolare in un ambiente estremamente acido. Tuttavia se si osserva l’andamento  durante la fase successiva ad un esercizio muscolare intenso del ripristino del pH e delle capacità contrattili del muscolo, possiamo  quantomeno mettere in dubbio le affermazioni precedenti. Dopo una contrazione di tipo isometrico, mantenuta sino a quando la forza espressa non cada al 50% della forza massimale volontaria, si registra in effetti un pH molto basso (6.1-6.6), durante la fase di recupero il pH ritorna verso valori normali solamente in tempi molto lunghi dell’ordine di circa 10 minuti, inoltre durante i primi 2’ circa della fase di recupero il pH continua ad abbassarsi, nonostante  l’interruzione del lavoro fisico, questa ulteriore acidificazione dell’ambiente muscolare è dovuta alla liberazione di protoni che avviene durante la resintesi della creatina in PCr. Nonostante il fatto che il ritorno del livello del pH verso i valori di riposo sia un processo relativamente lento, dell’ordine come abbiamo detto di una decina di minuti, il muscolo riesce a ristabilire le sue capacità contrattili in un arco di tempo molto più breve. Infatti dopo il mantenimento di una contrazione isometrica che prosegua sino a che la forza generata non cada a valori pari al 50% della massima forza isometrica, il muscolo recupera completamente, ritornando quindi in grado di generare nuovamente la stessa forza, dopo un periodo di riposo compreso tra i 2 ed i 3 minuti (Sahlin e Ren, 1989). Nella corso dello stesso studio i due Autori notarono come dopo 2 minuti di recupero la diminuzione del livello degli H+ dovuta alla metabolizzazione del lattato, fosse completamente controbilanciato dal rilascio di altri H+ dovuti alla resintesi della PCr. Il fatto quindi che il muscolo possa ritrovare le sue piene capacità contrattili anche in mancanza di un innalzamento del pH, getta numerosi dubbi sull’assunto secondo il quale l’abbassamento del pH, dovuto all’accumulo di lattato, sia il responsabile dell’inibizione contrattile del muscolo e quindi il responsabile dell’insorgenza del fenomeno della fatica periferica. Per cui, anche se in effetti la fatica muscolare appare in presenza di un abbassamento del pH, le evidenze sperimentali, in tutto rigore, escluderebbero un rapporto di linearità tra pH e forza e/o pH e fatica e non permetterebbero di andare al di là di una relazione di coincidenza tra i due fenomeni in causa (Chin e Allen, 1998). D’altro canto in bibliografia esistono numerosi esempi di sperimentazioni che riferiscono l’insorgenza del fenomeno della fatica anche senza il verificarsi di acidosi muscolare (per una review vedi Allen e coll., 1995) Alcuni Autori infine proporrebbero di considerare la fase del recupero in due periodi distinti,  il primo dei quali considerabile come “periodo di recupero rapido”, sarebbe caratterizzato da un veloce ritorno verso lo stato basale del meccanismo di accoppiamento eccitazione/contrazione e di regolazione del calcio e risulterebbe pH-indipendente, ed un secondo, più lento, che sarebbe, almeno in parte, legato al ritorno verso i valori basali, sia dei protoni, che dei fosfati (Fitts e Metzger, 1993). Tuttavia occorre comunque ricordare  che  alcuni studi recenti svolti  su modello animale, nei quali una perfusione di La (con concomitante mantenimento del pH a valori basali) faceva registrare una diminuzione della forza contrattile ( Hogan e coll, 1995), potrebbero riaprire il dibattito sul ruolo del lattato nell’insorgenza della fatica. Per giustificare questi risultati gli Autori avanzavano l’ipotesi dell’aumento della forza ionica che sarebbe la responsabile di un’alterazione nella formazione dei ponti acto-miosinici. In questo senso va anche un'altra sperimentazione, sempre effettuata su modello animale, nella quale gli Autori concludono che l’aumento di La possa avere un effetto negativo sulla capacità di produzione di forza da parte del muscolo, probabilmente a causa di un meccanismo d’inibizione nei confronti del rilascio di Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico (Stephenson e coll., 1998).

 Il ruolo dei fosfati inorganici nella forma mono e diprotonica

 I fosfati inorganici (Pi) sono  dei metaboliti derivanti dall’idrolisi dell’ATP e della PCr e la loro concentrazione tende ad aumentare nell’ambiente indipendentemente dalla durata dell’esercizio svolto. In bibliografia si possono ritrovare numerosi lavori che tendono ad evidenziare il ruolo svolto da queste sostanze nella diminuzione della prestazione fisica legata all’insorgenza della fatica, oppure all’ischemia od all’ipossia. L’aggiunta di poche millimoli di Pi nell’ambiente muscolare induce una diminuzione della capacità contrattile, con una conseguente diminuzione della produzione di forza ed un  cambiamento , sia del ciclo oscillante, che dell’attività ATPasica. Vale la pena soffermarci a questo punto sul meccanismo del “ ciclo oscillante”: quando le fibre muscolari oscillano a 5-15 Hz per circa il 2% della loro lunghezza di riposo, sono in grado di produrre un’importante potenza meccanica idrolizzando praticamente il doppio quantitativo di ATP, per  unità media di tensione, rispetto alla condizione statica. L’attività ATPasica risulta  correlata linearmente  alla tensione media prodotta durante l’oscillazione. L’aggiunta di Pi o di solfato riduce, sia il costo della tensione, che la frequenza ottimale di oscillazione di lavoro perturbando in tal modo il sistema (Pybus e Tregear 1975). I Pi sono presenti a livello organico in due forme: la prima monoprotonica e la seconda diprotonica la cui proporzione di presenza dipende  dalla concentrazione dei protoni presente nell’ambiente. Nel momento in cui il pH cellulare si abbassa, pressoché la totalità del Pi presente passa alla forma diprotonica. Questo passaggio del Pi dalla forma monoprotonica a quella diprotonica è correlato alla diminuzione della forza contrattile, mentre questa correlazione non si registra con la forma monoprotonica. Questi effetti variano in rapporto alla tipologia delle fibre con ogni probabilità in ragione della diversa sensibilità che le fibre medesime presentano per ciò che riguarda la loro attività ATPasica nei confronti del Pi. Nel caso di esercizi di breve durata svolti ad alta intensità, il verificarsi di  un rapido ed importante accumulo di Pi, dovuto al massiccio intervento del meccanismo anaerobico alattacido, costituisce uno dei più importanti fattori responsabili dell’insorgenza della fatica muscolare, assumendo in questo caso una valenza ancor maggiore di quella rivestita dai meccanismi di perturbazione ionica. Questo sarebbe tuttavia in contraddizione con quanto riportato da alcuni studi (Greenhaff, 1995; Mujika e Padilla, 1997) che riferiscono come una supplementazione di creatina possa, aumentando le scorte di fosfocreatina, ritardare l’apparizione del fenomeno della fatica.  In effetti una supplementazione di creatina, generando attraverso il fenomeno dell’idrolisi Pi, dovrebbe al contrario essere un fattore inducente la fatica (Sahlin e coll., 1998.). Anche durante le esercitazioni di lunga durata svolte a bassa intensità, il sistema dei fosfageni, che in questo caso si trova accoppiato ad un forte fenomeno di idrolisi dell’ATP, può comunque indurre un fenomeno di elevazione della concentrazione di Pi tale da comportare il passaggio dei ponti actomiosinici dal loro livello di alta produzione di forza a quello basso, fenomeno che potrebbe essere alla base della teoria del sistema oscillante proposto da Mc Lester (1997). L’allenamento potrebbe giocare un ruolo sostanziale nell’incidenza dei fenomeni sopra descritti, inducendo una progressiva tolleranza a concentrazioni di Pi sempre maggiormente elevate (Mc Lester, 1997).

 Il ruolo dell’adenosindifosfato

 Recentemente alcuni ricercatori hanno rivolto la loro attenzione al possibile ruolo svolto dall’adenosindifosfato (ADP) nell’instaurarsi del fenomeno della fatica periferica, prendendo in considerazione anche il rapporto ADP/ATP (Allen e coll., 1995; Mc Lester, 1997; Sahlin, 1998). Questo composto, come sottolineato nel modello energetico proposto da Mc Lester  (1997), svolgerebbe un ruolo di primo piano nel meccanismo di transizione dallo stato di bassa a quello di alta energia ed è inoltre considerabile a tutti gli effetti come il principale responsabile del distacco dei ponti acto-miosinici. Nel momento in cui la sua concentrazione subisce un sostanziale aumento, l’ADP ostacola l’ ATP nel meccanismo di distacco dei ponti actomiosinici, diminuendo in tal modo la forza prodotta dal sistema oscillante. Questo effetto d’inibizione sul distacco dei ponti verrebbe ulteriormente enfatizzato in presenza di basse concentrazioni di ATP.

  Il ruolo dellA componente lenta del VO2 nel caso particolare della corsa.

 Durante uno sforzo ciclico effettuato ad un  carico costante d’intensità inferiore a quella della prima soglia ventilatoria[2], soprattutto se svolto in posizione eretta come nel caso della corsa,   è possibile notare un primo repentino incremento del VO2, essenzialmente ascrivibile al veloce aumento del flusso ematico polmonare, che caratterizza la prima fase denominata “cardioritmica”, alla quale fa seguito una seconda fase, caratterizzata da un aumento meno ripido del VO2, legata all’arrivo del flusso ematico proveniente dai distretti muscolari  attivi.  Questa seconda fase  porta a sua volta, in circa 3’,  al raggiungimento della terza fase, detta di stady-state, in cui il consumo di O2 si stabilizza.

Nello svolgimento di un lavoro effettuato ad un’intensità maggiore rispetto alla prima soglia ventilatoria, la cinetica del VO2 cambia sostanzialmente. In questo caso infatti alla seconda od alla terza fase, si sovrappone una nuova componente caratterizzata da una cinetica più lenta che, appunto per questa sua caratteristica, prende il nome di “componente lenta del VO2”. La componente lenta del VO2 (cl VO2) rappresenterebbe quindi un “eccedenza” di VO2 che, sino a determinati carichi, consente il raggiungimento di uno steady-state ritardato. Nel caso invece in cui  i carichi di lavoro siano particolarmente intensi, non diviene più possibile il raggiungimento di uno stato di steady-state ed in tal caso la cl VO2 concorrerebbe al raggiungimento del massimo valore di VO2, valore peraltro superiore a quello prevedibile dalla relazione VO2/carico sotto soglia (W) e quindi al rapido raggiungimento dell’esaurimento da fatica. La cl VO2 comporterebbe un aumento del costo VO2/W, che passerebbe dai circa 10 ml /W registrabili sotto-soglia, ai circa 12-13 ml/W osservabili durante il lavoro sopra-soglia (Maione e coll., 20001), evidenziando in tal modo una perdita di efficienza muscolare. La cl VO2 viene pressoché unanimemente spiegata dai diversi Autori, attraverso fenomeni prevalentemente muscolari legati al progressivo reclutamento, durante l’attività svolta ad alta intensità, di fibre di tipo II, il cui rendimento è minore rispetto a quelle di tipo I. La cl VO2 quindi farebbe parte integrante del fenomeno della fatica e sarebbe une delle principali cause, in attività come la corsa,  della progressiva riduzione dell’efficienza muscolare (Whipp e Wassermann, 1970; Jacobsen e coll., 1998).

Figura 1 : la componente lenta del VO2.

LA FATICA CENTRALE

 Con il termine di fatica nervosa o centrale si intende tutto quel complesso di fattori che determinano la diminuzione della contrattilità muscolare indipendentemente dai fattori intramuscolari e/o metabolici. L’implicazione di fenomeni centrali nell’insorgenza della fatica è dimostrata da alcune sperimentazioni (Bigland-Ritchie e coll., 1979) che dimostrano come la stimolazione elettrica di un complesso muscolare affaticato, permetta di recuperare una certa percentuale del livello iniziale di forza. In questo tipo di  sperimentazioni alcuni soggetti furono sottoposti ad un lavoro di tipo intermittente a carico del soleo, sino a che non fosse raggiunto un livello di affaticamento tale da diminuire la forza del distretto muscolare sino al 50% della massima capacità contrattile. Raggiunta una simile situazione, gli Autori riferiscono di come l’imposizione di una stimolazione elettrica permetta di ritrovare un livello di forza pari all’80% del livello massimale, attribuendo in tal modo la differenza tra i due valori alla fatica di tipo centrale. Occorre tuttavia notare che il parziale recupero dei livelli iniziali di forza indotto dall’elettrostimolazione, risulterebbe essere dipendente, sia dal gruppo muscolare considerato, che dal tipo di esercitazione che ha causato la condizione  di affaticamento, senza dimenticare lo stato motivazionale del soggetto (Guézennec, 2000). In ogni caso questi dati sottolineerebbero come, in stato di affaticamento, il Sistema Nervoso Centrale (SNC) sia incapace di generare uno stimolo adeguato (Bigland-Ritchie e coll., 1979; Enoka e Stuard, 1992). Oltre a questo effetto sulla fatica acuta, altri Autori hanno dimostrato come l’elettrostimolazione sia in grado di permettere un parziale recupero dei livelli di forza persi in seguito ad un fenomeno di fatica cronica come quello costituito dal sovrallenamento (Bayley e coll., 1993). Tuttavia questo tipo di sperimentazioni basate sulla contrazione elettroindotta, non riesce a dimostrare appieno il ruolo che il comando nervoso, proveniente dal SNC, ricopre nell’insorgenza della fatica, l’elettrostimolazione infatti può indurre anche un potenziamento del comando nervoso periferico, provocando in tal modo un aumento in toto del comando nervoso che arriva a livello muscolare. Per questo motivo quindi la stimolazione elettrica non può essere considerata come una tecnica specificatamente rivolta all’indagine del  fenomeno della fatica indotta da un deficit di funzionamento del SNC. Non mancano comunque esempi in letteratura che, proprio per dimostrare senza possibilità possibili dubbi il ruolo del SNC nell’insorgenza del fenomeno della fatica, hanno utilizzato come tecnica di studio la stimolazione diretta della corteccia motoria. In quest’ambito uno studio condotto da Maton sui primati (1991), utilizzando una tecnica di registrazione dell’attività elettrica cerebrale dei neuroni della corteccia motoria primaria, tramite un impianto elettrodico intracranico, dimostrò come la contrazione esaustiva del bicipite brachiale comportasse una diminuzione dell’attività elettrica dei neuroni considerati. Il ruolo ricoperto dalla corteccia motoria primaria nell’insorgenza della fatica, è stato confermato in seguito anche nell’uomo grazie all’utilizzo di una tecnica non invasiva, costituita dalla stimolazione della corteccia primaria tramite dei campi magnetici intensi (Gandevia e coll., 1996). Attraverso questo studio gli Autori hanno potuto dimostrare come la superimposizione di una corrente magnetica transcranica permetta di diminuire parzialmente gli effetti che la fatica provoca sulle possibilità di mantenimento della forza contrattile. Tuttavia occorre notare che una parte degli effetti della fatica non può comunque essere spiegata attraverso l’utilizzo di queste tecniche. In ogni caso tutte le sperimentazioni che si basano sulla stimolazione, effettuata a diversi livelli del tratto nervoso, permettono di formulare la verosimile ipotesi dell’esistenza  di una fatica di ordine centrale, evidenziabile attraverso una diminuzione del comando nervoso preposto alla contrazione muscolare, anche se il ruolo dei fattori di ordine metabolico periferico giocano un ruolo predominante per ciò che riguarda la diminuzione delle capacità contrattili muscolari. Inoltre alcuni aspetti della fatica di ordine centrale restano ancora da chiarire completamente, come ad esempio il fatto che il fenomeno sia riconducibile ad un meccanismo inibitorio che si presenterebbe a livello di alcuni gruppi di neuroni, oppure sia piuttosto costituito da un fenomeno inibitorio più generalizzato, causato dai dei meccanismi che agiscono a livello globale sull’insieme delle funzioni nervose. La risposta a questo tipo di domanda non è ancora del tutto chiara, anche se le attuali teorie neurochimiche della fatica sembrerebbero propendere maggiormente per la seconda ipotesi (Guezennec, 2000).

 

GLI ASPETTI NEUROCHIMICI DELLA FATICA CENTRALE

 

L’evidenza del ruolo della fatica centrale, comprovato attraverso le varie sperimentazioni di tipo elettrofisiologico, ha spinto numerosi Autori a formulare differenti ipotesi sul ruolo svolto dai neuromediatori centrali nel corso dell’esercizio esaustivo (per una review vedi Meeusen e coll., 1995). Tutti gli studi rivolti a questo particolare aspetto del fenomeno, dimostrano ampiamente coma la fatica induca, sia nell’uomo, che nell’animale, un cambiamento del modello comportamentale (Dishman, 1997). Nell’ animale si può sostanzialmente notare una diminuzione delle attitudini comportamentali rivolte alla vita di relazione, mentre nell’uomo le risposte sono maggiormente complesse e sembrano dipendere dal tipo di attività responsabile del fenomeno di affaticamento. Possiamo tuttavia in linea generale osservare nel modello umano, come conseguenza ad un esercizio di tipo esaustivo, una diminuzione delle capacità decisionali, sia per quello che riguarda la capacità di presa d’informazione, sia per ciò che concerne l’interpretazione dei segnali visivi (Koutedakis, 1995), nonché una diminuzione della memoria a corto termine (Guézennec, 2000). Inoltre la fatica cronica può essere all’origine di uno stato ansiogeno o depressivo (Dishman, 1997). Anche la secrezione di catecolamine potrebbe giocare un ruolo importante negli aspetti di natura neurochimica legati alla fatica centrale. Alla fine di un  esercizio esaustivo è infatti possibile notare nel tessuto cerebrale una diminuzione della concentrazione di noradrenalina, che sembrerebbe essere dovuta ad un aumento del suo turn over. Lo stesso fenomeno è osservabile, in maniera ancor più evidente, a livello del tronco cerebrale, dell’ippocampo e dell’ipotalamo (Gandevia e coll., 1996). Questo quadro sarebbe simile a quello osservato nel corso di stress psicologico acuto nel quale è appunto possibile notare una deplezione delle riserve di catecolamine cerebrali. La conseguenza di questa diminuzione nelle riserve di noradrenalina  si ripercuoterebbe  a livello comportamentale e potrebbe essere responsabile dell’insorgenza di possibili stati depressivi.

Rimanendo nell’ambito della risposta adrenergica, è importante notare che anche la dopamina può influenzare fortemente l’attività muscolare. L’aumento dell’attività dopaminergica nello striatum[3] induce infatti un aumento spontaneo della motricità.. A livello cerebrale, durante un esercizio prolungato è possibile osservare in un primo tempo un leggero aumento della concentrazione dopamina, a cui fa seguito, nella seconda parte dell’esercizio stesso, quando quest’ultimo si avvicina al punto di esaurimento, una sua  leggera diminuzione (Seguin e coll., 1998). Questa variazione della concentrazione di dopamina cerebrale nel corso di un esercizio prolungato che porti ad esaurimento, potrebbe essere giustificata dal fatto che questo neuromediatore attraversi una prima fase accelerata di liberazione a cui consegua una seconda fase di diminuzione secretoria dovuta ad un esaurimento delle sue riserve neuronali. Sempre a questo proposito è stata avanzata l’ipotesi di una deplezione di tirosina che costituisce il precursore delle catecolamine. In qualsiasi caso il ruolo ricoperto dalle catecolamine nell’insorgenza dell’affaticamento organico, è sperimentalmente provato dal fatto che la somministrazione, prima dell’esercizio, di anfetamina e di agonisti dopaminergici e/o adrenergici, aumenta nell’animale la durata di sopportazione allo sforzo (Seguin e coll., 1998).

 

IL RUOLO DELLA SEROTONINA NELL’INSORGENZA DELLA FATICA

 

Il ruolo svolto dalla serotonina nel fenomeno della fatica organica, è ormai divenuto un aspetto dogmatico del problema in seguito soprattutto ai lavori di sintesi svolti da Newsholmes e coll. (1987) e Chauloff (1989). Quest’ultimo fu il primo a mettere in evidenza sperimentalmente l’aumento della concentrazione di  serotonina a livello cerebrale in seguito ad esercizio prolungato e/o ad allenamento inteso protratto per più settimane. D’altro canto numerosi altri lavori, anche se non in ambito prettamente sportivo, avevano già sottolineato il ruolo della serotonina sul sonno, l’assunzione alimentare, gli stati ansiosi e quelli  depressivi. A questo proposito ad esempio possiamo ricordare come sia da tempo noto che uno stato ansioso sia caratterizzato da un aumento della concentrazione cerebrale di serotonina, mentre al contrario, uno stato depressivo veda ridursi i livelli di serotonina cerebrale. Per tutta questa serie di motivi il fatto che all’esercizio prolungato che conduce al fenomeno della fatica, consegua un aumento dei livelli di serotonina cerebrale, ha portato  alla naturale formulazione dell’ipotesi che questo neuromediatore sia  fortemente implicato, se non addirittura il responsabile principale, dell’insorgenza della fatica centrale. In questo senso numerose sperimentazioni condotte su modello animale confermano il fatto che l’aumento o la diminuzione del tono serotoninergico, indotto attraverso l’utilizzazione di agonisti od antagonisti  serotoninergici, influiscano sul fenomeno d’insorgenza della fatica (Bailey e coll. 1993). Occorre comunque ricordare che lo stesso tipo di sperimentazioni condotte sull’uomo, non ha permesso di confermare i risultati ottenuti sull’animale (Seguin e coll., 1998). Altre sperimentazioni, sempre effettuate allo scopo di poter confermare il ruolo svolto dalla serotonina sulla comparsa insorgenza della fatica, hanno utilizzato la somministrazione di aminoacidi a catena ramificata (AABC). Gli AABC infatti  entrando in competizione con il triptofano, sostanza precursore della serotonina a livello del passaggio attraverso la barriera emato-encefalica, dovrebbero limitare la produzione di quest’ultima a livello cerebrale. Tuttavia i risultati ottenuti da Blomstrand e coll., (1991), dopo la somministrazione di AABC prima di una prova di maratona, hanno permesso di evidenziare solamente un incremento dei risultai ottenuti nel corso di una batteria di test psico-sensoriali, ma non un incremento della prestazione di gara. Questi risultati sono in linea con quelli ottenuti da Bigland-Richie e coll.(1979), i quali non riportano di alcun miglioramento della performance, durante un raid effettuato in alta quota, in seguito alla somministrazione di AACB. L’insieme delle sperimentazioni condotte sull’uomo quindi non permetterebbe di evidenziare nessun risultato positivo, in termini di incremento della performance, legato alla diminuzione del fenomeno di affaticamento, indotto dall’utilizzo di AABC. Ma vi sono  numerosi altri limiti e contraddizioni nella teoria che vede la serotonina come principale fattore d’insorgenza della fatica centrale, uno di questi è costituito dalla mancanza di coerenza tra i dati desumibili dai test comportamentali e gli effetti psicotropi attribuibili all’azione della serotonina stessa. La fatica acuta od il sovrallenamento cronico, infatti , indurrebbero l’insorgenza di turbe comportamentali a sfondo principalmente depressivo caratterizzate da una carenza serotoninergica (Guèzennec, 2000). Questi dati mal si concilierebbero con l’iperserotoninergia che si registra nel corso dell’esercizio fisico strenuo. Seguin e coll. (1998) hanno tentato di spiegare questa contraddizione mettendo in evidenza una diminuzione della recettività di alcuni recettori serotoninergici in seguito all’esercizio prolungato. D’altro canto anche altri risultati molto recenti riferirebbero di una caduta, al di sotto dei livelli basali, della concentrazione di serotonina in alcune aree cerebrali, riscontrabile alla fine dell’esercizio (Guèzennec, 2000).  I due dati di cui sopra, potrebbero quindi far propendere verso un ipotesi di carenza di tono serotoninergico  che sopravverrebbe durante la fase di recupero successiva all’esercizio. In tutti i casi la mancanza di omogeneità e di perfetta coerenza tra i vari risultati ritrovabili in letteratura mostrano come, in ultima analisi, sia sostanzialmente erroneo limitare il fenomeno dell’insorgenza della fatica centrale esclusivamente alla teoria serotoninergica. In effetti gli aspetti comportamentali, ivi compreso quindi il fenomeno della fatica, risultano essere influenzati per la maggior parte dei casi, da un delicato equilibrio esistente tra numerosi neuromediatori. A titolo di esempio possiamo ricordare come gli studi inerenti l’aspetto neurochimico del sonno, mostrino come quest’ultimo dipenda da una complessa azione sinergica ed interdipendente di numerosi neuromediatori in altrettanto numerosi ambiti strutturali, gli aspetti neurochimici della fatica quindi potrebbero essere improntati su di un meccanismo del tutto, od in parte simile a questo.

 

IL RUOLO DELL’AMMONIACA

 Occorre anche ricordare il possibile meccanismo d’intervento dell’ammoniaca legato alla manifestazione della fatica. L’encefalo utilizza come via di metabolizzazione dell’ammoniaca la trasformazione del glutammato in glutammina. L’iperammonemia quindi provoca una diminuzione della concentrazione del glutammato in alcune aree cerebrali specifiche. Dal momento che il glutammato costituisce il principale precursore dell’acido gamma amminobutirrico (GABA), questa catena di eventi porta ad un abbassamento della sua concentrazione a livello encefalico. Il GABA è il neurotrasmettitore maggiormente presente a livello del SNC ed esercita un importante ruolo di regolazione, di tipo inibitorio, sulla liberazione di altri neurotrasmettitori, oltre ad agire direttamente sui nuclei grigi della base facilitandone il compito di regolazione che questi svolgono sulla motricità. La carenza di GABA inoltre gioca un ruolo fondamentale nella patogenesi di alcune malattie come il morbo di Parkinson e la Corea di Huntington. Tutta questa serie di dati farebbe ragionevolmente propendere verso l’ipotesi che la carenza del sistema GABAenergico, registrabile nel corso dell’esercizio intenso e prolungato, possa giocare un ruolo importante nella manifestazione della fatica a livello centrale. I risultati sperimentali sembrerebbero confermare, per lo meno parzialmente, questa ipotesi, mostrando come il sistema  GABA-glutammato-glutammina sia particolarmente attivo, in alcune aree cerebrali, nel corso dell’esercizio esaustivo.

 UN MODELLO TRIDIMENSIONALE DELLA FATICA.

 Secondo alcuni autori il rapporto tra l’intensità dello sforzo e la sensazione di fatica può essere anche interpretato attraverso tre modelli fortemente interagenti tra loro.

Il primo modello è il già descritto modello “classico” della fatica periferica, denominato appunto “modello periferico”, nel quale i fattori regolatori e/o inibitori sono esclusivamente di ordine metabolico (Kay e coll., 2001;  Kirkendall, 1990; Fitts, 1994;  Basset e Howley, 1997.).

Nel secondo modello, denominato “centrale-teleoanticipatorio” , il meccanismo di controllo della fatica funziona essenzialmente come un dispositivo di sicurezza che viene posto in atto da un meccanismo  subcosciente a livello cerebrale. Il meccanismo regolatorio cerebrale viene modulato sulla base di input, sia centrali, che periferici, ed il cui scopo è quello di preservare l’integrità strutturale della fibra muscolare, prevenendo possibili danni irreversibili a quest’ultima attraverso una riduzione od un arresto totale dell’attività. Nel modello “centrale-teleoanticipatorio”, il cervello svolge il ruolo di principale regolatore dell’intensità e della durata dell’esercitazione, che viene mantenuta ad un grado sub-massimale prefissato in  modo tale che il sistema periferico non sia mai utilizzato a livelli massimali (St Clair Gibson e coll., 2001; Wagenmakers, 1992; Kay e coll., 2001.)

In questo secondo modello quindi il fenomeno della fatica può essere considerato come un vero e proprio “atto anticipatorio di sicurezza” che abbia lo scopo di prevenire, sia un eccessivo accumulo di metaboliti, che un’esagerata deplezione di substrati energetici. In questo secondo modello, l’attività non è mai massimale ma viene al contrario mantenuta costantemente a livelli sub-massimali. Ulmer (1996) avanza l’ipotesi che in questo modello i comandi neurali efferenti regolino a livello del muscolo scheletrico, non solamente i pattern di attivazione spaziali e temporali, ma anche il rateo metabolico responsabile della produzione di potenza da parte del muscolo. Questo tipo di meccanismo protettivo, potrebbe spiegare come nel muscolo scheletrico la concentrazione di ATP non scenda mai al di sotto del 60-70% dei valori di riposo anche durante un esercizio di tipo esaustivo (Fitts, 1994; Spriet e coll., 1987). Il modello “centrale-teleoanticipatorio”, sarebbe quindi il responsabile del decremento dell’intensità dell’esercizio anche in presenza di sufficienti riserve energetiche, per cui la manifestazione di fatica sarebbe il risultato di un comando efferente di tipo inibitorio, derivante da una sorta di “calcolo mentale”. In altre parole il decremento dei comandi efferenti di origine neurale, sarebbe causato dagli adattamenti a livello corticale del  processo subcosciente teleoanticipatorio che si verificano in seguito alle risposte agli input afferenti di origine metabolica provenienti dagli organi e dalle strutture periferiche. Nel terzo tipo di  modello denominato di “discussione-cognitiva”, è la sensazione di fatica stessa che, a livello cosciente, utilizzando le antecedenti esperienze come secondo termine di paragone, regola l’intensità dell’esercizio. In questo terzo modello la fatica costituisce una sorta di processo continuativo che modifica costantemente lo stato funzionale dell’individuo e modula il suo livello di attività (Kay e coll., 2001; Kay e Marino, 2000). Nel modello di “discussione cognitiva” si mette quindi in atto un sinergismo tra la percezione cosciente dello sforzo ed il sistema teleoanticipatorio subcosciente nella regolazione dell’intensità dell’attività svolta (Kirkendall, 1990; Davis JM, Bailey, 1997). Un esempio esplicativo di  questo terzo modello può essere quello di un’attività sportiva svolta in presenza di spettatori, in questo caso l’attività stessa può risultare spesso meno gravosa e la percezione dello sforzo minore, proprio perché la motivazione generata dalla fonte esterna, in questo caso gli spettatori, può ridurre gli input  afferenti periferici provenienti dalla muscolatura (St Clair Gibson e coll., 2001b). In questo caso si correre il rischio di un’alterazione della strategia comportamentale nei confronti della fatica, basata sull’influenza degli stimoli esterni. Infatti il livello del meccanismo di retrocontrollo della fatica stessa, dato dall’interazione tra il modello di discussione-cognitiva e quello centrale-teleoanticipatorio, potrebbe elevarsi eccessivamente, e con esso l’intensità dell’esercitazione. Il modello di “discussione-cognitiva” quindi potrebbe essere considerato come l’ultimo stadio d’integrazione decisionale nei confronti della fatica, in quanto la durata e l’intensità dell’esercizio, ossia gli aspetti decisionali nei confronti dello stesso, vengono assunti, sia in base agli input metabolici muscolari provenienti dal modello periferico, che secondo l’attivita centrale-teleoanticipatoria generata dal livello corrente di attività; questi due aspetti vengono quindi integrati nel modello di discussione-cognitiva, nel quale la percezione della fatica proveniente dal livello di attività in corso, viene comparata a precedenti esperienze di fatica (Kay e coll., 2001). La fatica quindi in questo caso diviene un regolatore attivo e non più una conseguenza passiva del processo di controllo (Kay e coll., 2001; Sargeant, 1994).

 LE MANIFESTAZIONI MIOELETTRICHE DI FATICA MUSCOLARE

 Negli ultimi anni, accanto agli studi di tipo prettamente metabolico, si sono fortemente sviluppati dei metodi d’indagine di tipo non invasivo, rivolti allo studio dei fenomeni bioelettrici indotti dalla fatica. I presupposti teorici sui quali tali studi si basano sono costituiti dal fatto che esistono particolari condizioni di lavoro durante le quali la produzione di forza richiesta è talmente bassa da poter permettere la prosecuzione del lavoro spesso per molte ore, questi particolari tipi di lavoro muscolare e vengono denominati  low level static exertions. Durante questo tipo di regime di contrazione si ipotizza che le protagoniste principali  della produzione di forza siano le unità motorie (UM) composte da fibre di tipo ST, questa teoria  in fisiologia è nota come l’ipotesi di Cenerentola (Hägg., 1991). Questa ipotesi è del resto del tutto conforme alla legge di reclutamento di Henneman , secondo la quale le prime UM ad essere reclutate e de-reclutate, in una contrazione che richieda bassi livelli di forza, sarebbero quelle composte da fibre di tipo I. Un altro parametro importante di cui tenere conto durante le indagini di tipo elettromigrafico sullo studio della fatica muscolare, è costituito dalla pressione intramuscolare (PI). Le caratteristiche del muscolo infatti subiscono dei cambiamenti al variare della condizione ischemica che è a sua volta correlato all’aumento della PI che si verifica durante la contrazione muscolare stessa, soprattutto a causa della diminuzione del flusso sanguigno distrettuale e del conseguente aumento di metaboliti (Merletti e coll., 1984). Durante una contrazione muscolare di tipo massimale si possono infatti raggiungere valori di PI pari a 400-500 mmHg, mentre in contrazioni di entità molto più modesta, compresa tra il 5 ed il 10% della massima contrazione volontaria, il valore di PI può essere all’incirca pari a 30 mmHg. In queste condizioni la durata della contrazione può essere mantenuta per lungo tempo, correndo tuttavia il rischio di incorrere in una necrosi muscolare (Sjøgard e Jensen., 1999). Tutta questa serie di fenomeni, comporta una perturbazione del ciclo eccitazione/contrazione ed una conseguente alterazione del segnale elettrico di superficie, nel quale è possibile notare delle alterazioni a carico dell’ampiezza, della forma e della velocità di propagazione del potenziale di azione. Tutta questa serie di fenomeni è nota con il temine di “manifestazioni mioelettriche di fatica muscolare localizzata”. Questo genere di sperimentazioni vengono effettuate durante una contrazione di tipo isometrico, che anche se non può essere ovviamente definita come un pattern di attivazione perfettamente sovrapponibile al comportamento muscolare che avviene durante una condizione naturale, offre comunque un modello sperimentale di osservazione molto standardizzabile e senz’altro meno influenzabile da fattori esterni non correlati al fenomeno di fatica indagato, come ad esempio l’artefatto costituito dal movimento del muscolo rispetto agli elettrodi di superficie che si verifica durante un movimento dinamico (Rainoldi. e coll., 2000).

 Le variabili ed i parametri del segnale mioelettrico

 

Allo scopo di  caratterizzare e rendere disponibile allo studio il segnale mioelettrico, registrato attraverso l’elettromiografia di superficie, ossia tramite l’applicazione di elettrodi sopra la superficie cutanea, vengono utilizzate delle grandezze fisiche che sono classificabili “nel dominio del tempo”, dal momento che per la propria determinazione richiedono il solo tracciato temporale del segnale, e “nel dominio della frequenza”, per il fatto che il loro calcolo necessiti l’analisi spettrale del segnale e che quindi forniscano informazioni sullo spettro del segnale stesso.

Le variabili identificabili nel dominio del tempo, forniscono quindi informazioni sull’ampiezza del segnale, mentre quelle appartenenti al dominio della frequenza permettono lo studio della scomposizione in armoniche del segnale, ossia ci danno informazioni riguardanti il contributo in termini di ampiezza e di potenza fornito da ogni armonica ottenuta attraverso l’analisi di Fourier del segnale stesso. 

Le variabili identificabili nel dominio del tempo, altrimenti chiamate “variabili d’ampiezza” normalmente utilizzate nell’ambito dello studio del segnale mioelettrico ricavato dall’elettromiografia di superficie sono:

 

-         Il Valore Rettificato Medio (Average Rectified Value, ARV): che rappresenta l’area sottesa dal segnale elettromiografico nell’intervallo di tempo T divisa per T.

-         Il Valore Efficace (Root Mean Square), che è una grandezza correlata alla potenza del segnale.

 

Le variabili nel dominio della frequenza maggiormente utilizzate sono:

 

-La frequenza media dello spettro di potenza  (MNF) , che rappresenta il valore baricentrale di frequenza dello spettro di potenza.

-La frequenza mediana dello spettro di potenza  (MDF), che rappresenta il valore di frequenza che divide in due parti di eguale area lo spettro di potenza, per cui il 50% del segnale sarà costituito da armoniche inferiori a MDF ed il restante 50% del segnale sarà costituito da armoniche superiori a MDF.

 

Una ulteriore variabile che riveste una grande importanza nello studio del segnale elettromiografico, è la velocità di conduzione delle fibre muscolari (CV). La CV è ricavata grazie all’utilizzo di due elettrodi posti sulla superficie cutanea che permettono di calcolare il rapporto e/t, intendendo con e la distanza tra i due sistemi di elettrodi e con t il ritardo tra il segnale registrato dal secondo elettrodo e quello registrato dal primo. Alcuni studi hanno dimostrato come  la stima della CV sia correlata con la percentuale di fibre di tipo II ottenibile attraverso la biopsia muscolare effettuata nel vasto mediale di 7 marciatori e 12 sprinters (Merletti., 200). Appare quindi chiaro l’interesse che riveste questo parametro nell’ambito di una possibile tecnica non invasiva di determinazione della tipologia delle fibre.

 

Il cambiamento del segnale mioelettrico in condizioni di affaticamento muscolare.

 

Nel corso di una contrazione muscolare isometrica sub-massimale protratta nel tempo, il segnale mioelettrico, a causa dell’insorgenza del fenomeno della fatica, presenta una diminuzione della CV ed un progressivo depauperamento dei contributi di alta frequenza. Lo spettro del segnale si sposta verso sinistra e le armoniche significative presentano valori progressivamente inferiori (Merletti, 2000). La diminuzione del valore di CV comporta inoltre una concomitante diminuzione dei valori di MDF e MNF ed un aumento dei valori di ARV ed RMS. Quindi lo spostamento verso sinistra dello spettro del segnale  e la compressione delle sue variabili riflettono il decremento del valore di CV (Lindsrtom e Magnusson, 1977). Come dimostrato da alcuni lavori sperimentali (Merletti e Roy, 1996), lo studio dei cambiamenti dei parametri mioelettrici di fatica correlati alla capacità di mantenere una contrazione isometrica sub-massimale protratta nel tempo, possono quindi fornire importanti informazioni sulla tipologia delle fibre muscolari considerate.

Figura 2 Spettro di potenza del segnale elettromiografico registrato in tre distinti momenti (A, B, e C) di una contrazione muscolare protratta nel tempo. I vari spettri sono normalizzati rispetto al massimo valore di picco. E’ interessante notare la diversa scala di ampiezzi dei tre spettri. (Da Merletti, 2000, modificato)

  

CONCLUSIONI

Per ciò che riguarda la fatica periferica, alla luce di questi dati, non possiamo altro che sottolineare ancora una volta e fortemente l’eziologia multifattoriale legata al fenomeno della sua insorgenza. Multifattorialità quindi che esclude a priori l’esistenza di un unico modello ma che al contrario, sottolinea l’esistenza di numerosi fattori che si situano in altrettanto diverse e numerose tappe della catene fisiologica esecutiva  della contrazione muscolare. Per questa ragione anche se indubbiamente la diminuzione della concentrazione di alcuni “composti chiave” della bioenergetica muscolare, come in particolare  la PCr ed il glicogeno, rivestono senza alcun dubbio un ruolo chiave nel fenomeno, il ruolo della perturbazione dell’omeostasi cellulare nella sua totalità, appare tanto determinante quanto estremamente complesso. Potremmo comunque definire il fenomeno della fatica periferica come un fenomeno “ a cascata” di tipo essenzialmente protettivo, che la cellula mette in atto per preservare la sua integrità, rispondendo all’imperativo di base di ogni organismo vivente che altro non è che “l’autoprogrammazione per la sopravvivenza”. Interrompere il lavoro per non autodistruggersi, questa sembrerebbe  essere quindi  la motivazione ultima del fenomeno. Nuovi campi d’indagine, apertisi negli ultimi anni, sembrerebbero essere particolarmente promettenti, come quelli rivolti allo studio del ruolo dei radicali liberi, del monossido di azoto, dell’AMP, oppure del magnesio, tuttavia una chiara ed inequivocabile gerarchizzazione dei fenomeni che costituiscono questo complicato, quanto perfetto meccanismo, che impedisce l’autodistruzione cellulare, sembrerebbe ancora lontana.

Per quello che riguarda la fatica centrale invece, se ad una parte tutta le sperimentazioni di tipo  elettrofisiologico svolte in quest’ambito tendono unanimemente a  disegnare un suo schema di tipo lineare, che parte dalla corteccia motrice per arrivare alla cellula muscolare, dall’altra l’approccio di tipo neurofisiologico lascia trasparire un quadro di notevole complessità, caratterizzato dall’integrazione di numerosi neuromediatori, la cui funzione, se studiata isolatamente, non permette di spiegare esaustivamente e razionalmente il fenomeno.

In ultimo il modello tridimensionale della fatica ci permette di capire quanto i fattori centrali siano fortemente integrati con quelli centrali di ordine cognitivo e decisionale, sottolineando una volta di più, la grande complessità del problema.

 

Cerchiamo quindi  di capire come avviene quello che è uno  dei disastri naturali maggiormente temuti in natura. Questo fenomeno viene ben descritto dalla cosiddetta “teoria del granello di sabbia” che ben illustra come il sistema raggiunga un punto di “non ritorno” che lo porta al suo collassamento, un po’ come avviene nel nostro organismo quando , a poco a poco, si fa strada il fenomeno della fatica. Immaginiamo dunque un banalissimo mucchietto di sabbia, come quello che fanno abitualmente i bambini sulla spiaggia, che cosa succede se aggiungiamo via via dall’alto dei granelli di sabbia? In un primo momento il nostro mucchietto diventa di dimensioni sempre maggiori e questo sembrerebbe tutto quello che in definitiva possa avvenire. Ma osserviamolo più attentamente da vicino: in effetti il pendio che si viene a formare non è del tutto liscio, se avessimo a nostra disposizione una forte lente d’ingrandimento, potremmo facilmente notare come lungo il suo decorso si formino numerose irregolarità costituite da tante piccolissime fossette ed altrettanto microscopici avvallamenti, che si vengono a poco a poco a colmare con l’aggiunta dei granelli di sabbia che cadono dall’alto.  A furia di aggiungere sabbia, la pendenza del nostro mucchietto, ormai divenuto di una certa dimensione, è praticamente completamente liscia, dal momento che tutte le irregolarità si sono colmate (riquadro 3). A questo punto abbiamo raggiunto il “punto critico”, se ora aggiungiamo ancora anche un solo granello di sabbia, quest’ultimo non troverebbe nessuna fossa od avvallamento dove potersi fermare e scivolerebbe inesorabilmente a valle (riquadro 4) , trascinando con se un numero più o meno importante di altri granelli: ecco la valanga. Dopo l’evento del fenomeno, ossia dopo la discesa a valle della valanga, il cumulo di sabbia, ma a questo punto potremmo dire anche di neve, ritorna nuovamente irregolare come all’inizio ed un nuovo ciclo può compiersi.

 

 

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[1] ATPasi : Sigla di Adenosintrifosfatasi, enzima che catalizza l'idrolisi dell'adenosintrifosfato (ATP) in adenosindifosfato (ADP) e fosfato (Pi). L'idrolisi dell'ATP si accompagna sempre ad un altro processo biochimico o fisiologico. Le ATPasi della membrana citoplasmatica e del reticolo sarcoplasmatico, per esempio, funzionano da pompe ioniche; la ATPasi miosinica permette la conversione dell'energia chimica in energia muscolare, ecc. Alcune ATPasi catalizzano, in vivo, la reazione inversa; è questo il caso della ATPasi mitocondriale, che sintetizza ATP sfruttando il gradiente protonico esistente ai due lati della membrana mitocondriale interna.

 

[2] Soglia ventilatoria : Nel corso di un esercizio svolto ad intensità crescente, la ventilazione aumenta in un primo momento in modo proporzionale rispetto all’intensità del lavoro, sino a quando, per una data intensità di lavoro, la ventilazione si accresce in modo sproporzionato rispetto a quest’ultima. Il livello a partire dal quale la cinetica respiratoria subisce questo tipo di cambiamento è chiamato “prima soglia ventilatoria” e si situa attorno al 55-70% del VO2max.

[3] Corpo striato: Nella neuroanatomia dei Mammiferi descrive lo striato telencefalico.. Il corpo striato rappresenta prevalentemente una stazione intercalata sulle vie corticofugali extrapiramidali ma sono descritte anche connessioni a doppio senso con il talamo dorsale.

 

 

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Fattori limitanti le massime prestazioni   nell'esercizio anaerobico

Fattori limitanti
le massime prestazioni nell’esercizio aerobico

Pietro Enrico di Prampero

Dip. di Scienze e Tecnologie biomediche

Università degli Studi di Udine

Scopo della presentazione è una breve analisi dei fattori che determinano le massime prestazioni nella corsa su pista

Il Costo energetico della corsa è la quantità di energia impiegata per unità di distanza

 

Simbolo: C, or Cr

Unità: kJ/km; J/(kg m)

[1 litro O2 ¡Ö 5 kcal ¡Ö 21 kJ]

La potenza metabolica (E’r) è il prodotto del costo energetico (Cr) e della velocità (v) della corsa

Cr * v = E’r (1)
([ml O2/m * m/min = ml O2/min]

da (1): v = E’r/Cr

da cui:
vmax = E’rmax/Cr (2)

In condizioni aerobiche
E’rmax è una funzione di VO2max

 

in queste condizioni:

vmax,aer = F * VO2max/Cr,

dove F ¡Â 1.0 è la frazione di VO2max sostenibile per tutta la durata dell’esercizio

Abbiamo mostrato in precedenza (di Prampero et al.,1986; Brueckner et al., 1991) che la quantità F * VO2max/Cr, spiega più del 70 % della variazione della velocità reale
nella corsa di durata.

Nel caso di distanze più brevi, tuttavia, il contributo delle sorgenti anaerobiche di energia non può essere trascurato

Wilkie (1980) ha mostrato che la relazione tra la massima potenza metabolica (E’max) e il tempo di esaurimento (te), tra circa 50 s e 10 minuti è una funzione di VO2max, della massima capacità anaerobica (AnS) e dela costante di tempo (t) per raggiungere VO2max:

E’max = VO2max + AnS/te - [VO2max *
t (1-e-te/t)]/ t

Ne segue che la relazione tra E’max e te può essere descritta per un soggetto dato a patto che VO2max, AnS e t siano conosciuti. Assumendo VO2max = 25.8 W/kg (74 ml O2/(kg min)) al di sopra del valore di riposo, Ans= 1.4 kJ/kg (68 ml O2/kg) e t = 10 s, per un atleta di élite:

Massima potenza metabolica (Emax, W/kg) per un atleta di élite, in funzione del tempo di esaurimento da 40 a 360 s. La curva in basso (Eaer) rappresenta il contributo medio (nel tempo indicato) delle sorgenti di energia aerobica.

Come detto in precedenza, la potenza metabolica (E’r) è il prodotto di Cr e della velocità v: E’r = Cr *v, o, per una distanza data (d): E’r = Cr * (d/tp), dove tp è il tempo della prestazione. Quindi, se Cr è conosciuto, E’r può essere calcolato, per ogni distanza data, in funzione di tp. Per es., per gli 800 m:

Per i tempi indicati sull’ascissa, la massima potenza metabolica (E’max) e descritta dall’equazione di Wilkie:

E’ ora possibile sovrapporre sullo stesso asse del tempo le due funzioni E’max = f(te) e E’r = f(tp):

Per una prestazione massimale, tempo di esaurimento e di prestazione devono coincidere. Perciò, il valore di scsissa (tempo) per cui le due funzioni si incrociano, cioè il valore per cui E’max = E’r costituisce il miglior tempo individuale.

In due gruppi di atleti, abbiamo determinato Cr e VO2max e, assumendo AnS e t dall’attuale letteratura, abbiamo calcolato i tempi delle migliori prestazioni teoriche su distanze da 800 a 5000 metri e le abbiamo comparate con i tempi reali realizzati sulle stesse.

(Cr e VO2max di atleti di massimo livello da Lacour et al., 1990)

Per tutti i soggetti esaminati, Cr è risultatoessenzialmente indipendente dalla velocità. Sono qui riportati i due atleti più economici (S1 and S2) e i due meno economici
(S3 and S4).

 

 

Esperimenti analoghi sono stati effettuati nel ciclismo su pista

I rapporti (± 1 S.D.) tra tempi di prestazione reali e teorici (tact/ttheor) sono riportati per le distanze indicate (km) nella tavola che segue.

E’ indicato inoltre il numero di osservazioni (N). I migliori tempi di prestazione sono stati ottenuti durante finte prove a tempo. I rapporti tact/ttheor indicati da asterischi sono significativamente diversi da 1. Ciò nonostante, l’accordo tra tempi reali e tempi teorici di prestazione sembra essere molto buono.

Da Capelli et al. (1998).

.

 


CICLISMO, dati da Capelli et al. (1998).

km N tact/ttheor

1.02 10 0.980
± 0.05

2.05 10 1.035
± 0.027*

5.12 10 1.056
± 0.043*

10.2 10 1.070
± 0.061*

Totale 40 1.035
± 0.058*


Aumento in prestazione (%) in funzione della distanza percorsa (d, km), quando VO2max o la massima capacità anaerobica (AnS) sono aumentati di 5 % , o il costo della corsa (Cr)
diminuito del 5 %

Domande aperte

1. Un migliore accordo tra prestazioni previste e reali sarebbe probabilmente raggiunto se i valori individuali di AnS e t venissero realmente misurati, anziché dedotti dalle letteratura.

Domande aperte

2. Le gare di corsa piana si fanno con partenza da fermo. Per questo motivo, Cr deve includere anche l’energia necessaria ad accelerare il corpo nella fase iniziale della corsa. Nell’ambito delle distanze in cui l’analisi sopra riportata ha avuto luogo, l’energia cinetica ha una rilevanza pari ad una percentuale relativamente piccola del consumo di energia complessivo (da circa il 10 % al 1 % del totale). In ogni caso, se l’analisi è da applicarsi su distanze minori, un prerequisito fondamentale sarà costituito da una stima più precisa del costo energetico della fase iniziale della corsa.

 

Domande aperte

3. Il rapporto tra Emax e la durata dello sforzo è stato modellato in un lasso di tempo tra 100 secondi e 14 minuti. Invero, 100 secondi è ben al sopra del tempo minimo sufficiente per utilizzare in pieno le riserve anaerobiche e 15 minuti sono stati assunti come limite massimo di tempo affinché VO2max possa essere pienamente mantenuta. In ogni caso, se l’analisi di cui sopra deve essere applicata a prestazioni inferiori a circa 50 secondi o maggiori di circa 14 minuti, sarà necessario conoscere il tempo di utilizzazione delle riserve anaerobiche, o il livello di caduta del VO2max nel tempo.

Conclusioni

La conoscenza del costo energetico e della massima potenza metabolica individuali consente di deteminare il "collo di bottiglia" energetico che limita le migliori prestazioni nella corsa e, analogamente, in ogni forma di locomozione in cui il costo energetico in funzione della velocità è noto.

L’accordo tra teoria e fatti è una prova convicente che la nostra conoscenza dell’energetica dell’esercizio e della locomozione umana è piuttosto soddisfacente.

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Valutazione e sviluppo dei processi aerobici nei praticanti le discipline cicliche

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Aggiornato il: 03 gennaio 2005