Articoli di Storia della guerra
a cura di Simone Giusti

indice:
Motrone 1170, le torri mobili scendono in battaglia
In che modo si debba schierare le legioni
In che modo si debba schierare l’esercito affinché vinca la battaglia
Ma è proprio vero che la cavalleria Italiana era inferiore alla Francese?


Motrone 1170, le torri mobili scendono in battaglia

(Dalla cronaca di B. Maragone, Annales Pisani, a cura di M. LUPO GENTILE, in “Rerum Italicarum Scriptores”, tomo VI, II, Bologna 1930, pp. 50-51)

  

Il 17 novembre del 1170 un grande esercito pisano lasciò le mura cittadine per marciare verso Nord lungo il litorale costiero, per conquistare e distruggere il castello di Motrone, fortezza lucchese e genovese a difesa del porto, pericoloso concorrente di Porto Pisano. La città toscana riuscì ad allestire un grande esercito, composto da ben 2000 milites (cavalieri), numero veramente grande per il tempo, con grande quantità di pedites (fanti) e sagittarii (tiratori), ed avanzò con padiglioni e tende fin oltre «Caput Cavalli». I Lucchesi, venuti a conoscenza della grande armata pisana in movimento verso nord, approntarono anch’essi un grande esercito di «cavalieri, fanti e con grande moltitudine di sagittarii» e si portarono in difesa di Motrone, tagliando la strada ai Pisani all’altezza di una grossa torre lignea posta «presso la via detta Regia». Qui si fortificarono, creando un’invalicabile linea difensiva che correva dalla suddetta torre lignea, solida e ben difendibile per la natura del luogo – costituito da terre paludose e cespugliose, terreno difficile per il transito di un esercito – fino a giungere alla spiaggia, chiudendo completamente la via ai Pisani. L’idea di fortificare il passaggio costiero, che in definitiva era l’unico percorribile data la natura paludosa dell’entroterra fino alle pendici collinari, doveva essere il punto centrale del piano lucchese fin dalla partenza dalla città, poiché il loro esercito comprendeva un numero rilevante di tiratori, che risultavano eccezionali nel difendere linee trincerate. Per quattro giorni gli eserciti si fronteggiarono, mentre i consoli di Firenze e molte altre «religiosae personae» cercavano di mediare tra le due parti, ma nessuna delle due città voleva la pace e lo scontro divenne inevitabile.

I pisani allora, vedendo i nemici ben trincerati, prepararono l’esercito alla battaglia dividendolo in tre schiere. Nella prima, comandata dal conte Ildebrandino VII degli Aldobraneschi, «grande cavaliere e capitano», furono schierati tutti i pedites ed i sagittarii, ed ottocento milites, con ben «sei castelli di legno fortissimi, ognuno dei quali era trasportato da quattro carri». Nella seconda schiera, di cui fu vessillifero il pisano Ugo de Bella, «egregio cavaliere», furono schierati settecento milites; mentre nella terza, dove fu vessillifero Enrico II del Cane dei Sismondi, «valorosissimo cavaliere», furono disposti i restanti cinquecento milites, tra cui la milizia del vescovo di Volterra.

Il territorio era pressoché pianeggiante, delimitato ad Est e ad Ovest, rispettivamente, dalle paludi e dal mare. Al centro dello schieramento dovevano essere i milites, disposti su tre battaglioni – come del resto era uso al tempo, e come si continuò a fare per altri due secoli con pochissime varianti –, ai lati la fanteria, molto probabilmente composta da una prima schiera di tiratori, protetta alle spalle dalla gran massa di lancieri pronti a fare quadrato contro le avanzate nemiche – è probabile che si possa rintracciare uno schieramento di fanteria pesante e tiratori simile a quello descritto da Vegezio (vedi In che modo si debba schierare l’esercito affinché vinca la battaglia, su questo sito) –. Le sei torri lignee dovevano trovarsi dislocate a distanza sul fronte occupato dalla fanteria, dividendola in vari porzioni compatte e protette ai fianchi. L’esercito doveva apparire quindi come una grossa fortificazione mobile, lenta e scarsamente manovrabile, ma massiccia e difficilmente scompigliabile, con le torri che proteggevano il resto delle truppe come forti baluardi, i tiratori che avanzavano distruggendo il nemico sempre protetti dalla massa dei lancieri, e la cavalleria pronta a sfondare sul proprio fronte incuneandosi con ben tre ondate di carica nei varchi aperti dal continuo tiro dei saettatori.

Lo scopo dei Pisani era ben evidente: volevano attaccare il nemico togliendogli la superiorità tattica concessa dal trinceramento, schierando in prima linea le sei torri mobili spinte dalla moltitudine dei fanti, così che dall’alto di tali strutture potessero bersagliare con un tiro ripetuto e logorante le schiere lucchesi – con 20/30 tiratori ciascuna torre che scagliavano circa 8/10 frecce al minuto, un tiro non troppo veloce che tiene in considerazione il fatto che vi erano certamente anche balestrieri, i Lucchesi erano costretti a sopportare una pioggia di 1000/1800 dardi al minuto – supportando così in modo devastante l’assalto totale delle proprie truppe. E così infatti avvenne. I Pisani attaccarono e le due schiere si portarono in contatto producendo un unico grande scontro lungo tutto il fronte. La battaglia, combattuta il 26 di novembre, fu dura ed ardimentosa, e si concluse con una schiacciante vittoria pisana ed un conseguente grande massacro di Lucchesi: gli sconfitti si ritirarono verso la torre lignea, presumibilmente in completo disordine, ed i pisani poterono così catturare ben trecento milites, oltre settecento pedites e tre Consoli. Molti altri poi, mille – secondo il cronista pisano Maragone – morirono sul campo o annegarono nelle paludi durante la fuga. Anche per i cavalli, data la tremenda brutalità dello scontro, non vi fu scampo: i lucchesi persero mille destrieri, più di mille invece i «ronzini e mulu», ed un’immensa muiltitudione di asini fu catturata da Pisa. La rotta fu totale, tanto che i pisani catturarono «vessilli, scudi, armature, vari tipi di armi, padiglioni, tende e tutto quello che poteva essere saccheggiato nell’accampamento lucchese».

 

 

 

 


In che modo si debba schierare le legioni*

(P. Flavii Vegeti Renati, Epitoma Rei Militaris, Lib. II, XV: Quemadmodum legionum acies instrunatur)

 

Vegezio, scrivendo la sua opera militare nel 383 d.C., in piena età Tardo Imperiale, spiega in che modo si debba schierare l’esercito, se la pugna è imminente, adducendo l’esempio dello schieramento di una legione che, se ben appreso, potrà fornire l’esperienza necessaria per essere ampliato a schieramenti comprendenti un maggior numero di effettivi.

Per prima cosa i cavalieri devono essere schierati sui fianchi. I fanti, divisi in dieci coorti, cinque di principes e le restanti di hastati, devono essere schierati da destra a sinistra a partire dalla prima coorte. Con un fronte coperto da cinque coorti avremo così da destra a sinistra: prima e seconda coorte a destra, terza al centro, quarta e quinta a sinistra. Le insegne vengono poste nella prima schiera che è composta dai combattenti chiamati principes. Questi sono combattenti pesanti a causa dell’armatura che è costituita da elmi corazzati, schinieri, scudi, grandi gladi che sono chiamati spahte ed altri piccoli chiamati semispathe – i secondi erano diffusi nelle schiere dell’Urbe già dalla fine del III secolo a.C, quando questi modelli di spada corta, diffusa nel mondo iberico, furono adottati in sostituzione dei precedenti modelli di spada ellenistica, ed erano adatti ad un combattimento a ranghi serrati e formidabili nel colpire di punta; le prime, più lunghe e pesanti, utilizzate in particolare dalla cavalleria, erano state adottate dalla legione per permettere ai suoi combattenti di confrontarsi con nemici dotati di lunghe e pesanti spade in mischie furibonde –. Hanno inoltre cinque plumbatas (palle di piombo probabilmente appese a catene) appese agli scudi che lanciano per prime, e due giavellotti, uno più grande e pesante ed uno piccolo e leggero. Il primo, che monta un ferro dalla punta triangolare di nove once (245,592 g), con asta di cinque piedi (1,628 m), che era chiamato precedentemente pilum ed ora è detto spiculum, è un’arma al getto della quale i soldati erano fatti esercitare poiché, scagliato con abilità e forza, spesso trafiggeva anche i fanti armati di scudo ed i cavalieri in armatura. Il secondo, con ferro di cinque once (136,44 g) e con asta di tre piedi (1,036 m) che, detto un tempo vericulum, oggi è chiamato verutum.

Sempre nella prima schiera vi erano i soldati armati alla leggera, detti un tempo feretanii ed ora chiamati exculcatores, armati di scudo e gladio, e provvisti di armi da distanza. Vi erano così i sagittarii (arcieri), armati di elmi corazzati e gladi, frecce ed archi, i funditores (frombolieri), che lanciavano pietre con fionde o mazzafionde (fionde montate su bastoni ed adatte per un tiro a lunga gittata), c’erano infine i tragularii che dirigevano dardi con manuballistas ed arcuballistas – si tratta di balliste di uso individuale montate su supporti a tre piedi potenti ma facili da trasportare, si differenziavano per il sistema di propulsione, agivano per torsione le prime e per tensione le seconde; in definitiva le manuballiste avevano due bracci separati fissati con corde attorcigliate che accumulavano energia cinetica nella torsione e la rilasciavano al proietto, le arcuballiste invece agivano come le balestre medievali essendo però di dimensioni maggiori e con archi compositi –.

La seconda schiera era armata in modo simile alla prima, con i combattenti chiamati hastati poiché armati di lancia ed addestrati al suo utilizzo. Le rimanenti cinque coorti, tutte di hastati, venivano schierate dietro le prime a partire dalla sesta posta sul fianco destro, poi la settima, l’ottava al centro dello schieramento, infine la nona e decima che era posta sul fianco sinistro.

 

 

*Traduzione non letterale così che possa essere maggiormente comprensibile anche ad un pubblico di non esperti.
 


 

In che modo si debba schierare l’esercito affinché vinca la battaglia*

(P. Flavii Vegeti Renati, Epitoma Rei Militaris, Lib. III, XIV: Quemadmodum acies debeat ordinari ut in conflictu reddatur invicta)

 

Colui che sta per schierare l’esercito deve prima di tutto considerare tre fattori: sole, polvere e vento. Il sole infatti, posto di fronte, impedisce la vista; il vento contrario fa incurvare ed abbassare i tuoi, mentre favorisce i dardi nemici; la polvere sul fronte finisce negli occhi e li chiude. Questi ammonimenti siano utili all’inesperto affinché prenda coscienza delle caratteristiche del luogo della futura battaglia e schieri in modo previdente, ovvero in modo tale che sul nascere del giorno il sole non gli sia negli occhi, ed il vento contrario si levi nel momento in cui inizia la battaglia. Così è da schierare le legioni affinché questi fattori (sole, polvere e vento) siano alle spalle delle truppe e magari in fronte all’avversario.

Lo schieramento prevede la disposizione dell’esercito in fronte al nemico. Se è effettuato con perizia e sapientemente è giovamento di tutti, se invece è fatto da un incompetente, sebbene lo schieramento sia composto da ottimi combattenti, se mal ordinato è infranto.

La regola per lo schieramento prevede che siano collocati nella prima schiera i veterani e gli addestrati, i quali prima si chiamavano principes, in seconda linea, racchiusi tra i tiratori corazzati, trovano posto i migliori combattenti armati con spiculi e lance, i quali prima erano chiamati hastati. I singoli armati devono occupare ciascuno uno spazio di tre piedi (88,8 cm) intorno a se, così che si possa schierare 1666 fanti in mille passi (1479 m) di lunghezza, in modo tale che non vi sia luce negli intervalli tra i combattenti e vi sia spazio sufficiente per maneggiare le armi. Tra le linee poi vi devono essere sei piedi (1,776 m) affinché vi sia spazio per avanzare ed arretrare; in tal modo, avendo spazio sufficiente, i combattenti possono scagliare con maggior vigore i giavellotti. In queste due schiere, quelle di principes ed hastati, devono trovar posto i più maturi per età ed avvezzi all’uso delle armi, muniti delle armature più pesanti. Questi infatti, come se fossero un muro, non devono cedere né inseguire il nemico al fine di restare sempre uniti, né si disordino, ma devono sopportare la spinta dell’avversario in carica e, combattendo in posizione, respingerlo e metterlo in fuga.

In terza schiera si devono porre coloro che sono armati alla leggera, i giovani sagittarii, i buoni lanciatori, i quali prima erano chiamati ferentarii.

Nella quarta schiera poi devono trovar posto gli armati di scudi e velocissimi – privi quindi di altre protezioni –, i sagittarii giovanissimi, e i mattiobarbularii, ovvero quei combattenti che scagliano con ardore veruti e plumbatas (palle di piombo probabilmente appese a catene), i quali rientrano tra gli armati alla leggera.

La terza e quarta schiera deve avanzare davanti alle prime due, armate in modo pesante e ferme a ranghi serrati, per provocare con dardi, frecce e quant’altro il nemico. Nel caso il nemico sia rotto e posto in fuga, gli stessi armati alla leggera devono proseguire nell’inseguimento con i cavalieri; nel caso in cui siano respinti dal nemico, devono attraversare le prime due schiere per trovare riparo nelle loro sicure posizioni. Lo scontro copro a corpo è mansione delle prime due schiere armate di spade e pila.

Nella quinta schiera, intervallati l’un l’altro, si devono porre le carroballistae, i manuballistarii, i frombolieri (funditores) ed i mazzafrombolieri (fundibulatores). I mazzafrombolieri sono quelli che scagliano pietre con le mazzafionde, che sono aste lunghe quattro piedi (1,184 m) alle quali sono fissare delle fionde di cuoio, i quali utilizzano entrambe le mani così da scagliare le pietre allo stesso modo degli onagri – che erano delle macchine dotate di fionda appesa ad un’asta spinta dalla torsione di corde attorcigliate –. I frombolieri sono quelli che, armati di fionde di lino o seta, che pare siano le migliori, scagliano pietre roteando il braccio. Tutti costoro sono privi di scudi e, sia che scaglino pietre che dardi, un tempo chiamati accensi (soldati di riserva) o giovani, oggi sono detti additi (soldati aggiunti: ausialiri).

La sesta schiera è composta da tutti i combattenti più saldi, fieri e vigorosi, provvisti di scudo e di ogni genere d’arma, che un tempo erano chiamati triarii. Questi, affinché freschi e riposati potessero assalire il nemico più violentemente, erano soliti star seduti – in realtà stavano con un ginocchio a terra e la lunga lancia a 45° – dopo l’ultima schiera. Se infatti fosse accaduto qualcosa alle prime schiere, la speranza di riparare ad una probabile sconfitta sarebbe dipesa dal loro intervento.

 

 

 

*Traduzione non letterale così che possa essere maggiormente comprensibile anche ad un pubblico di non esperti.
 


 

Ma è proprio vero che la cavalleria Italiana era inferiore alla Francese?

 

La cavalleria francese è passata alla storia come la migliore arma da guerra del Medioevo. Era formata dalla nobiltà feudale che aveva cominciato a guerreggiare in sella al cavallo fin dalla fine dell’VIII secolo, quando i Franchi, da combattenti che erano soliti riunirsi in folte falangi di fanteria, seguendo la tendenza comune a tutti i popoli occidentali, cominciarono a combattere montati adottando particolari tattiche, non sempre con successo, ma fondando fin da tempi lontani la loro abilità nel guerreggiar su destrieri. Spesso però, pur potenti che fossero, i cavalieri Francesi Basso Medievali conobbero la sconfitta per una tattica troppo semplice e ripetitiva, non flessibile alle necessità della circostanza: la carica. Così in molti perirono caricando nel 1303 i Fiamminghi schierati a semiluna con lunghe picche in difesa di un fossato, con molti armati di godendac – grosse clave chiodate – con le quali era facile penetrare le difese dei cavalieri; famose poi sono le disfatte di Crecy, Agincourt, contro l’esercito Inglese – anch’esso limitato tatticamente all’uso di massicci blocchi di arcieri – che distrusse con il tiro degli archi gallesi le speranze di vittoria della cavalleria più forte d’Europa, e quindi del mondo: ma era vero fino in fondo? Erano veramente i migliori subendo grosse sconfitte solo perché caricarono in modo inaudito in alcune circostanze sfavorevoli – importante poi è ricordare che per costituire una forza invincibile in battaglia non basta la forza individuale, ma è necessario anche lo spirito di corpo, cosa che poteva trasformare dei prodi combattenti in invincibili pugnatori – od in realtà potevano essere battuti sul loro stesso campo?

Per rispondere a questa domanda mi limito a citare un brano di Il Rinascimento e la crisi militare Italiana di Piero Pieri (pp. 306-307), grande studioso di Storia Militare dello scorso secolo, forse l’ultimo esponente di rilievo che il nostro paese seppe dare tra il XIX e la prima metà del XX secolo:

«L’11 ottobre 1447 Bartolomeo Colleoni al servizio della Repubblica ambrosiana sbaraglia a Bosco Marengo i Francesi del duce d’Orléans. Il condottiero bergamasco, braccesco come pochi altri quanto a temperamento, contrappone alla furia francese uguale furia: non più forze impegnate a poco alla volta, successivamente, ma un’unica grossa schiera, e allo spietato grido di battaglia francese: <A la gorge!> il grido italiano di: <Carne, carne!>. E’ dal punto di vista tattico un combattimento ancora prettamente medievale: non manovra né sfruttamento del terreno; pure termina con la piena vittoria degl’Italiani. Duemila morti restano sul terreno, per tre quarti almeno di parte francese, e 300 cavalieri vengono fatti prigionieri. Meno di due anni dopo, lo stesso Colleoni sbaraglia per due volte di seguito – a Romagnano Sesia il 1° aprile, a Borgomasnero il 23 aprile 1449 – le schiere del duca di Savoia, alleato della repubblica ambrosiana, in gran parte costituite da elementi francesi messi a disposizione dal re Carlo VII di Francia». In questo secondo scontro, come ricorda il Pieri in nota, «vittoria completa: il nemico vinto e inseguito fin nell’accampamento, e questo messo a sacco: 2000 morti e 1000 prigionieri, fra cui tutti i capitani».

E sempre come ricorda lo storico italiano, dodici anni dopo gli Italiani, messi di nuovo di fronte ai Francesi, seppero ottenere una vittoria totale sotto le mura di Genova. Ma qui non ci fu un puro scontro di cavalleria, ma l’ingegno e le capacità tattiche degli Italiani prevalsero sull’ottusa irruenza transalpina.

Si deve allora continuare a pensare alla cavalleria francese come la migliore del Medioevo, oppure anche questa convinzione, come purtroppo molte altre nella Storia, è frutto di un mito cresciuto di forza nei secoli?

 


torna all'inizio