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Noè Bordignon:

un brutto caso d’incuria e degrado artistico

di Marco Mondi

  Nel catalogo della mostra su Noè Bordignon curato da Paolo Rizzi nel 1982, fu redatta un'interessantissima mappa del nostro entroterra dove furono evidenziate le chiese, le ville e gli edifici in genere per i quali l'artista lavorò. Si tratta di un territorio piuttosto vasto, che dalle cittadine gravitanti attorno alla natia Castelfranco si estende ad Ovest, passando per il bassanese, fino alle porte di Schio, a Nord, e poi ad Est, abbracciando una buona parte dell'asolano, fino a spingersi oltre Conegliano, mentre a Sud, nel veneziano, tocca paesi come Moniego, Robegano, Campocroce e, con i lavori realizzati nell'isola di San Lazzaro degli Armeni, entra in laguna. Tra questi lavori, molti sono affreschi e vale la pena sottolineare che gli affreschi eseguiti nel nostro territorio tra gli ultimi decenni del XIX ed i primi del XX secolo, rappresentano un "fenomeno" che andrebbe affrontato ed approfondito con uno studio a parte, soprattutto qualora si considerassero prevalentemente gli affreschi esterni. Essi, infatti, rappresentano una singolare e sintomatica fioritura di un gusto per la decorazione parietale che, dalla grande stagione prima medievale e poi rinascimentale, andò gradualmente scemando, per mantenere la tradizione viva solo in pochi casi, e piuttosto circoscritti nelle dimensioni, legati prevalentemente ad esigenze popolari di carattere votivo. Dalla seconda metà dell'Ottocento, non a caso dopo la liberazione dal dominio austriaco e l'annessione del nostro territorio al Regno d'Italia, quindi in un clima di generale euforia, di ripresa economica e di ricostruzione edilizia, che sentiva forte la necessità di riappropriarsi di una cultura strettamente autoctona riallacciandosi, nel nostro caso, ad una delle più floride tradizioni figurative venete, ci fu la tendenza a tornare ad affrescare, oltre che gli spazi interni, anche le facciate esterne di chiese e palazzi. In questo senso, Noè Bordignon fu sicuramente uno tra gli artisti veneti che più si prodigarono nell'attività di frescante. E la suddetta mappa ne è, come già detto, un'interessantissima testimonianza.

  Questo "fenomeno", non mancò di toccare la bella cittadina di Castello di Godego, centro antichissimo e particolarmente ricco di preziosi e prestigiosi edifici. Edifici, contro molti dei quali, purtroppo, negli ultimi decenni si sono perpetrate mutilazioni, demolizioni e vere proprie devastazioni di quello che un tempo era il loro naturale habitat architettonico-paesaggistico, al punto che, per taluni contesti urbanistici, la città ha assunto un volto del tutto diverso ed oramai quasi non più identificabile con quello che la caratterizzò e la impreziosì per molti secoli. Castello di Godego, in quel suo centro cittadino che oggi, almeno nella piazza principale, si fatica ad identificare col suo centro storico, conserva ancora la "struttura ossea" di un gioiellino dell'architettura veneta qual è l'antica chiesa abbaziale di Santa Maria, per la quale il Bordignon Favero cautamente ha suggerito il nome di Giorgio Massari, come architetto, per la sua ristrutturazione settecentesca. La chiesa è oggi abbandonata ad un lento ed inevitabile degrado, tanto più funesto quanto più "innaturale" è il suo attuale impiego; e può essere assunta ad esempio non tanto, o non solo, del poco valore ed amore con cui la città guarda ai suoi più preziosi tesori, quanto di una non efficace attività di soprintendenza esercitata per decenni e decenni dalle istituzioni statali preposte per legge a conservare, tutelare e valorizzare il nostro patrimonio storico-artistico. Se un ente pubblico la cui funzione istituzionale è di conservare, tutelare e valorizzare, consente determinati interventi architettonico-urbanistici o non interviene con tempestività, o non interviene affatto, evidentemente c'è qualcosa che non funziona e la causa, o la colpa, deve ricercarsi là, piuttosto che in una o in un'altra volontà ecclesiastica, là, piuttosto che in uno o in un altro architetto, là, piuttosto che in una o in un'altra amministrazione comunale, la quale ha anche altre esigenze e necessità, e la quale deve comunque attenersi alle decisioni e alle autorizzazioni delle competenti Soprintendenze.

  Quando, negli primi anni del XX secolo, Noè Bordignon ricevette l'incarico di affrescare il soffitto ed alcune pareti della parrocchiale di Santa Maria di Castello di Godego, si può quasi affermare che la chiesa così concludesse la lunga ristrutturazione iniziata circa due secoli prima e caldamente ripresa alla metà del XVIII secolo dall'arciprete Nuzio Querini, al quale spetta il merito di aver ottenuto per sé e per il suoi successori il titolo e la dignità di abbaziali (Giampaolo Bordignon Favero). Nei primi anni del Novecento la chiesa di Santa Maria dovette forse vivere i suoi "anni migliori". Ad un secolo di distanza, purtroppo, a causa di una disastroso “cambio d’uso” fatto negli anni del dopoguerra, ben altro è il suo destino! Così, anche per gli affreschi di Noè Bordignon.

  Noè Raimondo Bordignon nasce a Salvarosa di Castelfranco Veneto il 3 settembre 1841 da una famiglia di umile estrazione. Grazie a vari aiuti, può iscriversi alla Regia Accademia di Belle Arti di Venezia, dove frequenta i corsi di Michelangelo Grigoletti, Carlo De Blaas e Pompeo Molmenti. Suoi amici e compagni di studio sono alcuni tra i massimi esponenti della pittura veneta dell’Ottocento, come Guglielmo Ciardi, Luigi Nono, Giacomo Favretto. La sua prima formazione artistica, quindi, avviene subito dopo la metà del secolo, in un clima culturale ancora tutto farcito di un Romanticismo d’impostazione storica, mitologica e religiosa.

  In ambito scolastico, le sue capacità sono presto notate e nel 1865, alla conclusione degli studi, vince una borsa di studio governativa per il perfezionamento artistico a Roma, dove soggiorna fino al 1868 e ha modo di approfondire i propri interessi, specie per la pittura dei Puristi e dei Nazareni, ma anche per l'antichità classica, il Rinascimento (Michelangelo in particolar modo), il Barocco e il classicismo dei Carracci e di Poussin, e poi di David e di Ingres. Assiduo frequentatore del caffè "Greco", è fatto socio dell'Associazione Artistica Internazionale. Di ritorno da Roma, si ferma alcuni mesi a Firenze, dove entra in diretto contatto con i Macchiaioli e s’iscrive all'Associazione degli Artisti Italiani, nella quale il suo nome comparirà fino alla morte.

  Nel 1869, al suo rientro a Castelfranco e a Venezia, Bordignon è quindi un giovane artista con una propria personalità pittorica. Numerosi sono subito i lavori che gli sono affidati, commissionatigli principalmente nell'ambito della decorazione d'interni di chiese. Tra gli incarichi più importanti di questi anni, si ricordano il ciclo in affresco della Resurrezione della Carne, dipinto nel 1874 per la parrocchiale di Pagnano d'Asolo, quello della Gloria di S. Nicolò vescovo, del 1877, per la parrocchiale di Monfumo, e quello di Gesù Figlio di Dio, per la parrocchiale di Montaner, del 1877. Ma là dove ottiene forse il suo più alto raggiungimento in questo senso, è il ciclo affrescato per la chiesa di San Zenone degli Ezzelini (1869-1882): se nell'Assunta del soffitto, esplicito è il richiamo all'Assunta di Tiziano e, ad esempio, nel riquadro con il Beato Giordano Forzatè riaffiora l'impostazione storico-accademica, è nell’elaboratissimo Giudizio Universale dell'abside dove Bordignon dà sfogo a tutta la sua indole di drammatica rappresentazione romantica, inventata sul modello romano del Giudizio Universale di Michelangelo; limite oltre il quale il pittore non può che cambiare stilisticamente direzione per non cadere nella ripetizione manierata di se stesso. Non è casuale, infatti, se la sua attenzione si rivolge adesso principalmente al Realismo, con il quale si afferma a Venezia.

  Capolavoro della fine degli anni Settanta è La mosca cieca della Civica Raccolta Comunale di Castelfranco Veneto, splendido dipinto la cui composizione accademico-classiccheggiante ed il modo di delineare e colorare le figure dei bambini che giocano nella campagna romana, forse dipinta non solo sulla base di ricordi, tradi­scono un sapore partenopeo, ma anche fiorentino in talune minuziosità ed in taluni esiti cromatici, che andrà a perdersi negli anni succes­sivi. E sulla base delle qualità stilistiche di questa tela, viene da supporre che Bordignon, durante il suo soggiorno romano, si sia spinto anche sin giù nel napoletano.

  A partire dalla fine degli anni Settanta, ha inizio il suo cosiddetto "periodo veneziano", quando anch’egli, con grande respiro qualitativo, svolge un ruolo determinante nell’ambito del Realismo. Le opere realizzate a partire da questo momento, possono considerarsi quelle della sua piena maturità, e taluni saggi rappresentano alcuni tra i più alti raggiungimenti della pittura veneta allo scadere del secolo. Nascono, allora, lavori straordinari per l'ambientazione compositiva, per la resa dell'insieme e dei particolari, per le delicate e sapienti scelte luministico-cromatiche. Di questi anni sono dipinti come Cortile veneziano, Le pettegole o il Banco del lotto, i cui soggetti sono scorci di campielli o altre invenzioni nelle quali la vita quotidiana è ritratta nel suo svolgersi reale, colto attraverso la "lente" del pennello che ferma, come in un'istantanea (ed interessante sarebbe fare uno studio della pittura dell'artista in relazione alla fotografia), tanto il gesto dei personaggi e l'intimità del momento, quanto il panno disteso o l'oggetto minuto, apparentemente insignificante ma anch'esso vero, reale, come la scena stessa in tutto il suo insieme. Già a partire da questi anni, egli non si ferma alla sola ambientazione veneziana: i suoi soggiorni sempre più frequenti e lunghi nei luoghi natii dell'entroterra, dove verso la metà degli anni Novanta si ritirerà definitivamente a vivere, gli ispirano l'ambientazione della campagna veneta. Queste opere rappresentano forse la sua produzione di maggior rilievo artistico, e certo la più profondamente sentita, dove si riscontra sovente una riposante visione tra il pastorale e l'aneddotico, e dove la natura, la campagna ed il mondo rurale in genere sono sentiti come il luogo di una nuova e toccante armonia tra la presenza umana e l'ambiente circostante.

  Nella prima metà degli anni Novanta, Bordignon dà vita a tre veri capolavori: Gli emigranti, databile verso il 1890 circa, La cresima, del 1893 circa, e La pappa al fogo, di uno o due anni dopo. Sono tre opere diverse tra loro, eppure di una coerenza straordinaria nella rappresentazione della stessa realtà sociale: quasi tre brani di "letteratura figurativa" che ci raccontano tre momenti diversi della vita dell'epoca e che ci sono presentati nella più lucida, oggettiva testimonianza con cui il sensibile occhio dell'artista li ha saputi cogliere. Gli emigranti, è una straordinaria composizione ambientata nella campagna veneta con tutta la naturalezza di chi vuol rendere, senza enfasi, una drammatica realtà sociale di quegli anni; La cresima, che pare quasi un omaggio al futuro papa santo, dove in un ampio scorcio dell'interno dei Frari, a Venezia, il pennello dell'artista va a cogliere la gioiosa, frizzante ed emozionante sacralità di un momento importante della liturgia cristiano-cattolica; e La pappa al fogo, concepita per presentarla alla prima Biennale veneziana del 1895, vero monumento innalzato alla tradizione "liturgico-rurale" del nostro entroterra attraverso il quale l’artista, senza immaginazione fantastica o enfatica volontà di letteraria ostentazione, senza drammaticità, né rassegnazione, e nemmeno intento polemico, presenta una realtà che ha una sua precisa dimensione sociale e politica, nella direzione di quel cattolicesimo che trovava allora il suo punto di riferimento nella Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, nell'ambito cioè di un pensiero cristiano-sociale attento alle condizioni di vita della classe contadina. E’, quest’ultima, una delle opere più importanti di tutta la pittura veneta di fine Ottocento.

  L’importanza svolta dalle riviste e, successivamente, dalle visite alla Biennale di Venezia, come per altri pittori suoi coetanei, lo inducono gradualmente ad assimilare stilemi Liberty, dalle connotazioni simboliste. Lo si nota in molte opere eseguite a cavallo del secolo, dove le tematiche affrontate sono sovente le medesime di quelle degli anni precedenti, ma in esse vi si riscontra un fare più svolazzante e ricercato, che fa traspirare un senso più raffinato di enfasi espressiva e simbolicamente allusiva.

  Il rientro in terraferma, gli comporta nuove commissioni di carattere pubblico, ancora una volta soprattutto in campo ecclesiastico. Numerosi sono gli affreschi che esegue perché molte sono le commissioni che gli sono affidate. In queste opere, che lo terranno impegnato fin negli ultimi anni di vita, egli esprime la sua vena decorativa in composizioni che adattano il soggetto di volta in volta richiestogli a soluzioni formali dalla vena religiosa storico-narrativa. Ed è proprio a questi anni, cioè attorno al 1908, che si può far risalire l'esecuzione del ciclo in affresco per l'antica chiesa abbaziale di Castello di Godego. In lavori come questi, infatti, analogamente a quanto faceva nelle pitture da cavalletto, Bordignon risolve le tematiche richiestegli su un impianto compositivo che rimane sotto più punti di vista fedele ai grandi cicli di affreschi degli anni Settanta; tuttavia, si mitigano alquanto le componenti di ascendenza purista a favore di composizioni ariose, maggiormente debitrici della gloriosa tradizione figurativista della pittura veneziana del Cinquecento (da Giorgione ai Bassano) e del Settecento, con un occhio di particolar riguardo sempre rivolto al Tiepolo, e anch'esse ormai immerse in una atmosfera pacatamente più simbolista.

  Il nuovo secolo riserva a Bordignon anni difficili e funesti: nel 1906 muore il figlio Lazzaro (soprannominato Rino), a cui egli era particolarmente legato, anche per la sua predisposizione alla pittura; nel maggio del 1913, dopo sei anni di infermità, anche la moglie Maria lo abbandona. Nell'agosto dello stesso anno si ritira definitivamente nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, dove continua ad avere rapporti con pochi amici, tra i quali Teodoro Wolf Ferrari, Alessandro Milesi, Luigi Nono e Andrea Favero.

  Nelle opere da cavalletto, uno tra i generi particolarmente preferiti adesso, è il ritratto. La sua pittura si fa pastosa e densa, con cromatismi meno accesi ma dalla grande forza espressiva. La sua arte lo mostra artista di grande qualità e talento, ma artista ancora profondamente legato al Realismo dell’Ottocento in anni nei quali l'arte moderna afferma con forza, e talvolta con clamore, il diritto ad una nuova libertà espressiva per lui (ma non è il solo) difficile da capire e difficile da condividere. Noè Bordignon, dopo una dolorosa caduta che gli procura la frattura del femore, si spegne il 7 dicembre 1920 nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, lasciando incompiuto un Autoritratto, il suo ultimo lavoro.

  Queste, in breve, le vicende artistiche del pittore che affrescò soffitto e lunotti della chiesa di Santa Maria di Castello di Godego; affreschi coronati, tra l'altro, da raffinatissime e bellissime decorazioni in stucco. Lavori, s'è detto, la cui esecuzione è da far risalire, ritenendo attendibile la data riportata su uno di essi, al 1908: una ricerca tra la documentazione conservata negli archivi parrocchiali, dovrebbe facilmente confermarne la datazione, svelando probabilmente anche altri interessanti particolari. L'affresco rettangolare del soffitto, in una composizione magistralmente colta dal sotto in su, come nella più fastosa tradizione settecentesca veneta, raffigura una bellissima Natività, pittoricamente fresca e vivace nel suo dispiegarsi di personaggi che spiccano con cromatismi timbrici sotto ad un intenso cielo blu dove stanno, con la stessa luminosità delle spumeggianti nuvole bianche, gli angeli in volo. Di grande effetto scenografico e di sapore tiepolesco, a scandire un ritmo ascensionale sinuosamente zigzagato e leggermente tortile, è la figura elegantissima dell'angelo con le ali spiegate, caratterizzato, come tutte le altre figure angeliche, da una bellezza idealizzata, divina, celestiale. Al contrario, la dolcissima figura della Madonna e quella virile di San Giuseppe, sono presentate con tutto il loro realismo di esseri umani chiamati a dar vita alla nuova era del Cristianesimo. La stessa bravura pittorica, doveva caratterizzare il tondo del soffitto col Santo in gloria, oggi pesantemente ridipinto da renderne assai difficile la lettura. Quasi del tutto compromessi, invece, sono i quattro evangelisti dipinti sui lunotti ora inglobati in due stanzette drasticamente inventate nello spazio interno della chiesa. A tal proposito, le loro immagini qui pubblicate sono certo il commento più esaustivo.

  Inutile dire che l'antica chiesa abbaziale dovrebbe essere recuperata nella sua integrità architettonica ed artistica (e, m'è stato detto, che il restauro dovrebbe essere imminente!), a meno che non ci sia la più "sensata" decisione di demolirla completamente per far spazio, ad esempio, ad un bel ed utile supermercato dalle grandi vetrine e dalle insegne ben luminose, completando così urbanisticamente l'oramai quasi totalmente "rinnovato" centro storico che, nella sua piazza principale, storico non è quasi più. I tesori della chiesetta però, e le sue decorazioni, potrebbero essere venduti a pezzi. Ci sarebbe un bel ritorno economico: in fondo, per parlare solo delle pitture, ci sono opere di Bordignon che nel mercato hanno raggiunto cifre, con le vecchie lire, ad otto zeri! Al contrario, se si pensa ad un restauro "come si deve", ai cittadini costerà non poco. E pensare che se ci fosse stata una continua, costante, normale manutenzione, probabilmente la chiesetta di Santa Maria non avrebbe bisogno di alcun restauro, quindi, ai cittadini non costerebbe nulla, o quasi. Infatti, come per ogni altro patrimonio storico-artistico, il miglio modo per conservarlo, tutelarlo, valorizzarlo, è viverlo, è usarlo, è goderlo, anche perché, comunque sia, esso è ciò che ci identifica, che ci identifica oggi per quello che siamo grazie, ed è bene non dimenticarlo, alla nostra cultura, al nostro passato, alla nostra storia, alla nostra arte.

 

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