STEFANO ZAMPIERI
L'arte, l'opera, l'origine. M. Blanchot


DA: «Verifiche», a. XXIV, N.1-2, Gennaio-Giugno 1995

Dall'estetica all'opera

Il destino dell'arte è legato, secondo Maurice Blanchot, ad un duplice movimento: uno scambio continuo, tra "una esistenza che diviene sempre più pura intimità soggettiva e la conquista, sempre più attiva e più oggettiva, del mondo in nome dello spirito che realizza e della volontà che produce". Così da un lato, colui che riconosce come proprio compito l'azione efficace nel mondo, non può che rinunciare all'arte, in quanto essa si rivela del tutto inadatta a tal fine, incapace com'è di offrirsi ad un uso produttivo, ad una azione trasformatrice. Dall'altro lato, e in conseguenza di ciò, l'arte si trova ricondotta all'interiorità dell'artista attraverso un rovesciamento simmetrico, per cui al mondo dei fini, dell'ordine, della serietà, della tecnica, dello Stato, si contrappone un mondo rigorosamente contrario, allora: "l'arte è il 'mondo rovesciato': l'insubordinazione, l'eccesso, la frivolezza, l'ignoranza, il male, la mancanza di senso, tutto ciò le appartiene, vasto dominio". Ma assumendo questa fisionomia, l'arte non fa altro che ribadire lo stesso principio dell'azione efficace, ovvero la sovranità di un soggetto creatore assoluto, la potenza di un produttore, la forza di un realizzatore del proprio mondo, l'esigenza di un compimento, sia alla luce del giorno, quanto nelle ombre della notte, sia nell'ambito del lavoro utile quanto in quello dell'attività improduttiva.

E' alla sommità di questo movimento del Moderno che Hegel può affermare l'arte come "cosa passata", in quanto "a partire dal giorno in cui l'assoluto è diventato coscientemente il lavoro della storia, l'arte non è più capace di soddisfare il bisogno di assoluto". da questo momento in poi non si può più evitare di fare i conti con un tale decreto di morte. Ecco allora che l'arte contemporanea, per reazione, mette in luce un altro movimento, attraverso cui essa vuole affermare la propria essenza indipendentemente da qualsiasi valore estraneo.

Blanchot delinea le coordinate di questo movimento attraverso l'analisi della nozione di "museo immaginario" propria di Malraux. Con questa espressione Malraux intende l'unità dell'arte universale, la sua coerente appartenenza ad una storia, in cui l'apparizione di ogni singola opera modifica l'intero museo, ed in cui le trasformazioni apportate dal tempo sono essenziali alle opere stesse. Entrando nel museo immaginario dell'arte, le opere rinunciano alla loro connessione con la vita reale (chiesa, politica, aneddoti, figure...), cosicchè l'opera si riferisce solo all'arte, e l'arte non si riferisce a nulla, se non a se stessa, chiusa nello spazio autosufficiente del museo.

L'arte contemporanea prende da questa appartenenza al museo, da questa separazione dalla vita, la sua stessa essenza. Allora, hegelianamente, Malraux pone la cotemporaneità come il momento in cui l'arte raggiunge una perfezione dialettica, per cui l'immortalità del museo conserva in sè la morte, la negazione di tutto, il lavoro del negativo, che ogni singola opera rappresenta. Attraverso questa negazione di tutto, l'arte può affermarsi nella propria autonomia.

In questo modo, osserva Blanchot, il museo si libera anche dal legame con la storia, e non è più la "storia dell'arte" ma l'arte nella sua "libertà dalla storia". Così, insiste, l'arte rispetto alla storia in Malraux ha la stesa funzione dello spirito rispetto alla natura in Hegel: assicurare attraverso la morte delle cose finite "la vita e l'eternità del senso".

Anche così, dunque, non si esce dalla trappola della prospettiva dialettica, e l'arte rivelandosi impotente a liberarsi della riconduzione alla storia, al divenire dello spirito, al cui interno è solo un momento destinato ad essere superato, a divenire "cosa passata", non può salvarsi dal decreto di morte.

Eppure, qualcosa come l'arte continua a darsi, essa sopravvive alla propria fine. Il problema è ora, come avvicinarsene, come approssimarsi ad essa senza dissolverla, come accade appunto tanto nell'impostazione hegeliana in cui l'arte è ridotta, cioè superata, dalla filosofia, dal concetto, quanto in tutte quelle forme dell'Estetica in cui essa è comunque ridotta ad altro, a qualcosa di più vero ed originale, sia la vita, sia la struttura economica, sia l'inconscio, sia la storia.

Il problema diviene dunque, in generale, quello di liberarsi da qualsiasi Estetica, per liberarsi da una considerazione dell'arte come oggetto di riflessione o di sapere, per instaurare invece una "ricerca dell'opera", poichè l'opera è il tentativo sempre insufficiente di elevarsi all'essenza dell'arte, ma soprattutto poichè solo nell'opera l'arte si presenta, diviene problema, diviene soprattutto esperienza.

Ma lo spostamento, in realtà, è duplice: non solo dall'arte all'opera, ma ancora più indietro al problema della possibilità stessa dell'opera.

In questo cammino Blanchot accoglie come guida Heidegger, su cui impronta innanzi tutto la sua reinterpretazione dela funzione ermeneutica come una funzione ontologica, fondata sulla coappartenenza dell'uomo e dell'opera, e sulla appartenenza di entrambi all'ambito del'origine.

Ma la via del maestro gli offre essenzialmente le coordinate generali di riferimento, perchè l'analisi approda a conclusioni originali almeno intorno a due questioni essenziali: l'opera come unità lacerata e come accesso al dominio dell'immaginario.

I caratteri dell'opera d'arte

Sulla scia di Heidegger, dunque, Blanchot distingue innanzi tutto l'opera dall'oggetto di uso comune, il quale possiede anch'esso la caratteristica decisiva dell'anonimato, di non rinviare cioè ad alcuno come proprio artefice, ma è condizionato dal fatto di non rinviare nemmeno a se stesso: l'opera invece si presenta, appare, facendo un passo indietro dal mondo del giorno, della funzionalità, della sicurezza, della comprensione. L'atto d'origine dell'opera è uno svelamento, è l'evento della verità, intesa appunto, heideggerianamente come a-letheia.

Il presentarsi dell'opera allora, è una illuminazione folgorante e incomprensibile, o meglio, riducibile solo in seconda battuta al modello della conoscenza ma, quanto alla sua origine, oscuro, impenetrabile, in quanto prodotto "nella regione anteriore che noi possiamo designare soltanto sotto il velo del 'non", "regione dove l'impossibilità è affermazione, non più privazione". Poichè l'opera è l'evento della verità, ma la verità è nella sua essenza non-verità; il non-nascosto ha origine nel nascosto.

Dunque il mondo stesso dell'ente, il mondo del possibile, sorge misteriosamente, dal dominio dell'impossibile, che non è più chiusura, privazione assoluta, nihil absolutum, quanto piuttosto affermazione, nihil relativum, niente dell'ente, vale a dire, secondo Heidegger, propriamente Essere.

Blanchot nomina questa come la zona del "non", ove "l'impossibilità è affermazione", indirizzando così la sua ricerca verso quella che Heidegger chiama la "lotta tra Mondo e Terra".

La caratteristica dell'opera, infatti, è quella di esporre un Mondo, cioè di mantenere aperta l'apertura della manifestazione, il luogo delle decisioni essenziali, della storia (storia dell'essere, beninteso), ma il Mondo è fondato sulla Terra: "La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo". Così l'opera, nel porre l'apertura del Mondo si ritira nella Terra, e in questo modo diviene l'attizzatrice della contesa fra Terra e Mondo.

Per effetto di questa contesa l'aspetto materiale dell'opera è glorificato, innalzato verso l'oscura matrice che è origine di ogni materia, "se lo scultore si serve della pietra e se anche lo stradino si serve della pietra, il primo la utilizza in tal modo che essa non è utilizzata, consumata, negata dall'uso, ma affermata e rivelata nella sua oscurità, cammino che conduce soltanto ad essa".

L'opera, dunque, attizza la contesa fra Terra e Mondo, ma Terra e Mondo sono due elementi inscindibili, non sono mai l'uno senza l'altro, pur essendo del tutto diversi. Il Mondo si fonda sulla Terra, la Terra sorge attraverso il Mondo. La mera-cosa o il mezzo, non sono mai in grado di alludere a questo "fondo elementare", "elemento che è come la profondità e l'ombra dell'elemento"; lo è invece l'opera d'arte, "tutte le arti, nell'apparenza di essere che danno alla materia di cui si dice che le loro opere sono fatte, lo evocano fra noi, nell'evento unico dell'opera".

In questo senso, appartiene all'essenza dell'opera il concretizzarsi in una realtà, in un Mondo, ritirandosi nella Terra, cioè il processo per cui l'assenza che costituisce il "fondo elementare", l'oscurità dell'origine, luogo del non-disvelamento, della non-verità, tende a divenire un Mondo. Ma al contempo è proprio dell'opera, in questa tensione che tiene aperto l'ambito della manifestazione, che presenta un Mondo, aspirare a quella che Blanchot nomina come "assenza", o "fondo elementare". Allora l'opera d'arte è insieme testimone di questa assenza originaria e sua materializzazione, ponendosi nella contraddizione per cui essa vuole essere assenza ma non può fare a meno di materializzarsi in una presenza. In questo senso l'opera è "ciò che si contraddice e ciò che al contempo si pone in questa contraddizione".

Questo sviluppo della questione apparirebbe forse più chiaramente se si riflettesse intorno al passaggio, che in Blanchot si realizza, dalle questioni dell'arte in generale a quelle della Letteratura, intesa non tanto come disciplina specifica, ma piuttosto come dimensione privilegiata del linguaggio dell'arte, come dimensione in cui l'esperienza dell'opera raggiunge il suo culmine e la sua piena coerenza. La contraddittorietà, allora, apparirebbe come elemento fondativo per un'opera il cui destino è di cercare nella parola il silenzio dell'origine.

Intanto, val la pena di proseguire con Blanchot sulla via della reinterpretazione della prassi artistica così come viene proposta da Heidegger. Il quale osserva che se certo l'opera è fatta dall'artista, è l'essenza di questo "fare" che deve essere pensata in modo radicalmente diverso da come è stata pensata dall'occidente moderno, che ha raccolto nella figura del Soggetto un diritto/potere sulle cose, che si manifesta innanzi tutto come capacità produttiva.

Allora, per Heidegger, è necessario ricondursi alla nozione di techne, che secondo l'esperienza originale che ne ebbero i greci, non indica tanto una valenza pratico-produttiva, quanto una valenza manifestativa. La tecnhe, così ha a che fare con la aletheia. Il "fare" dell'artista, in questo stesso senso, è un realizzare l'aprimento dell'aperto in cui l'ente è "prodotto". Esso è dunque non tanto un creare quanto un accogliere, un attingere all'interno del non-essere-nascosto dell'ente.

In questo senso l'opera e l'artista possono essere pensati solo come cooriginari, e non come legati da un modello causale: l'uomo e l'opera si raccolgono nell'evento, in esso l'uomo produce l'opera nel momento in cui la lascia accadere, ma l'opera fa essere l'uomo legandolo all'apparizione dell'essere che l'evento realizza.

Si comprende allora come Heidegger giunga a dire:

All'essere-opera dell'opera appartengono coessenzialmente tanto coloro che la fanno quanto coloro che la salvaguardano. Ma è l'opera stessa a rendere possibili coloro che la fanno e a richiedere, quanto alla sua stessa essenza, coloro che la salvaguardino.

Blanchot a sua volta accoglie questa nozione decisiva, che sviluppa dal proprio punto di vista, indicandone una fitta serie di conseguenze paradossali, con le quali non intende confutare questa essenziale coappartenenza in cui l'opera si presenta, ma si propone piuttosto di sollevarne il carattere naturalmente contraddittorio, che come si è detto, è per Blanchot il carattere costitutivo dell'opera stessa. Egli si preoccupa quindi tanto di indicare la natura di queste conseguenze paradossali, quanto di verificarle poi, una per una, nell'esperienza della letteratura.

Innanzi tutto Blanchot sottolinea come la coappartenenza dell'artista, dell'opera e di coloro che la salvaguardano non sia mai statica: "L'opera non è l'unità inerte di un riposo. E' l'intimità e la violenza di movimenti contrari che non si conciliano mai e che non si placano, almeno finchè l'opera è opera".

Nell'evento dell'opera si presenta dinamicamente questo fenomeno di reciproca "contestazione", per cui l'un elemento pretende inutilmente di negare gli altri. Così, per esempio, si presenta il paradosso del "talento", per il quale l'artista è dilaniato fra la possibilità di manifestare le proprie capacità solo dopo aver compiuto un'opera, e l'impossibilità di compierla se non a partire da esse. Oppure il paradosso della "ispirazione", per il quale l'artista si sente sempre "a venire" nell'opera: vuole realizzarsi in essa, ma ciò gli è possibile solo scomparendo nell'opera stessa, annientandosi, ma d'altra parte anche questo risulta impossibile, e così l'opera diviene un infinito cammino verso l'ispirazione stessa.

E ancora il paradosso del "lettore", di fronte al quale si presenta una stessa opera che è però ogni volta diversa, come è diverso il lettore, ogni volta unico e irripetibile, anch'esso partecipe alla novità sempre riproposta dell'opera, anch'esso a sua volta originato dall'opera stessa. E il paradosso che scaturisce dalla impossibilità per lo scrittore di "leggersi", che indica l'impossibilità di solidificare l'opera come una propria realizzazione.

Insomma, attraverso questa fenomenologia di situazioni paradossali, Blanchot intende mostrare come la coappartenenza che costituisce l'unità dell'opera sia resa altamente problematica dalla reciproca "contestazione" degli elementi che la compongono: "L'opera è opera solo quando diventa l'intimità aperta di qualcuno che la scrive e di qualcuno che la legge, lo spazio violentemente dispiegato attraverso la reciproca contestazione del potere di dire e del potere di intendere."

Dunque l'elemento proprio di coloro che fanno esperienza dell'opera è questo movimento di reciproca contestazione di ogni momento, che viene prima assolutizzato e poi rinnegato in nome di tutti gli altri. nessuna legge cui richiamarsi, allora, nessuna certezza nel proprio comprendere l'opera. Ma esperienza della contestazione infinta e reciproca di ogni operare, pericolo dell'inganno e dell'impostura.

Così si delinea il carattere proprio di quell'evento che è l'opera. La forza con cui in quell'evento si tengono insieme e si separano i diversi elementi. Indicando una realtà massimamente pericolosa, in quanto rovina la precisa e sicura dimensione del "giorno", dimensione fatta di soggetti e di oggetti, di cause e di effetti, di volontà e di materia bruta a sua disposizione.

Attraverso l'esperienza dell'opera si accede allora al dominio di una coappartenenza che trasforma radicalmente la realtà dell'uomo: si fa prova di una situazione-limite in cui cadono le pretese del soggetto creatore e si afferma invece una condizione di incertezza, un groviglio di contraddizioni e di pardossi, attraverso i quali, tuttavia, si stabilisce l'ambito di una comunicazione.

"L'intendere e il parlare - dice Blanchot - hanno nell'opera il loro principio in una lacerazione, in una lacerata unità che sola fonda il dialogo". Nell'esperienza dell'opera come "lacerata unità" si esprime una infinita inquietudine, che si dispiega nel doppio movimento della "comunicazione" e della "distanza": "contestazione che è un moto d'intesa, intesa che viene meno fin dal momento in cui cessa d'essere la vicinanza di ciò che è senza intesa". Esperienza di una comunicazione estranea al comprendere razionale, di una comunicazione che non tende all'assimilazione, alla riduzione dell'ignoto, ma conserva la distanza del'alterità pur essendone il legame indissolubile.

L'opera, l'evento

In quanto legata all'evento, l'opera, secondo Heidegger, si storicizza, entra cioè nel tempo. "Il divenir-opera dell'opera è una maniera del divenire e dello storicizzarsi della verità". Ciò in quanto l'opera ha il carattere del'inizio, vero e proprio "salto in avanti", che contiene in sè "la pienezza del prodigioso" in quanto costituisce una vera e propria "lotta con l'ordinario"; in questo senso l'evento dell'opera determina un urto nella storia, di fronte al quale la storia"inizia e riinizia", e così "la verità si fa essente, cioè storica".

Nello stesso senso, Blanchot fa notare che quella unità lacerata che compone l'opera fa di essa un "avvenimento" che "non si dà fuori del tempo", tuttavia il tempo proprio dell'opera è "un altro tempo". Non è il tempo della storia dell'arte, cioè della situazione in cui gli eruditi fanno di essa un oggetto di studio, perchè piuttosto l'opera appartiene alla storia in quanto l'avvenimento stesso di essa; in quanto avvenimento dell'inizio l'opera dice: "cominciamento", e lo ripete incessantemente in ogni nuovo evento, che è sempre un nuovo inizio.

L'unità lacerata dell'opera si dà, ogni volta, ricreandosi, ogni volta risorgendo in una nuova origine. Ma restando sempre, nella sua essenza, anteriore a qualsiasi origine, perchè proveniente da quella zona oscura, zona del "non", della "impossibilità" che afferma, che sta sempre e comunque sullo sfondo di ogni apparire.

E' proprio la dimenticanza di questo oscuro fondo, di questo essere che si ritrae per mostrare, che assegna l'opera alla sua stessa rovina, in quanto a partire dall'oblio dell'esser-nascosto, l'opera assume il carattere di una verità duplice: una verità "attiva", per la quale l'opera diviene un oggetto efficace nel mondo, e una "inattiva", per la quale l'opera diviene un puro oggetto estetico. In entrambi i casi l'opera è rovinata.

Viceversa se essa è salvaguardata nella sua essenza, obbedisce al destino di nominare quella origine da cui scaturisce. Ed è allora proprio nella ricerca ed esperienza di questa origine che l'opera si offre all'uomo. Ed è lungo la traccia di questa "esperienza originale" che si svolge lo stesso itinerario di Blanchot.

La traccia dell'origine

La via dell'esperienza originale, esperienza dell'essenza dell'opera, trova il suo primo ostacolo nell'opera stessa, poichè se da un lato questa sembra concedersi facilmente, in quanto si mondanizza, si storicizza, dall'altro lato però, essa è l'evento in cui allo svelarsi di un Mondo corrisponde il ritrarsi di un fondamento che resta oscuro e impenetrabile. E se è proprio a questa origine notturna che l'esperienza intende approssimarsi, allora sarà necessaria una preventiva rinuncia ad ogni forma di conoscenza sicura, accertata, e pienamente comunicabile. Poichè avvicinarsi al luogo del fondamento significa sottrarsi al mondo dell'azione efficace, della decisione utile, della sicurezza, significa consegnarsi all'indecisione, alla confusione, all'errore, alla non verità.

Fare esperienza dell'opera nella sua origine, vuol dire provare "il pericolo dei pericoli", vale a dire la radicale messa in causa tanto del linguaggio quanto dell'essere, o meglio dell'idea che se ne ha nel mondo quotidiano dei discorsi razionali, dei soggetti e degli oggetti, della certezza delle cose.

La prima traccia che Blanchot scopre in questa direzione è la morte. In ciò ancora traspare l'analogia con la riflessione heideggeriana:

Il tempo è povero perchè Dio è morto, ma anche perchè i mortali sono a malapena in grado di conoscere il loro esser-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. La morte si sottrae nell'enigmatico.

Il pericolo autentico per l'uomo è l'oblio della propria essenza. Un pericolo che si fa bruciante nell'epoca della modernità, in quello che Heidegger definisce il Tempo della Tecnica, ovvero in quel tempo in cui l'uomo, attraverso l'oggettivazione del mondo si esclude dall'ambito dell'aperto, organizzando così il dominio della separazione. Il mondo della Tecnica s'impone attraverso l'oblio dell'essenza, fin della sua stessa essenza. Così in questo tempo di penuria estrema, l'uomo stenta a riconoscere il proprio esser-mortale che pure, nei termini stessi della modernità, è quel che appare massimamente certo. Da un lato dunque il moderno, il "funzionario" della Tecnica come dice Heidegger, vorrebbe rendersi padrone del proprio esser-mortale liberandosi della condizione di "creaturalità", annunciando la morte di Dio; ma dall'altro, non potendo attribuire lo statuto di "ente" che a quel che gli si presenta secondo i criteri dell'oggettività, si trova di fronte alla morte come di fronte ad un puro enigma che non sa risolvere.

Così continua Hedegger, ascoltanto la parola poetica di Rilke:

La morte e il regno dei morti appartengono, come l'altra parte, al tutto dell'ente. (...) Nel più ampio Cerchio della sfera dell'ente vi sono regioni e luoghi che, per esserci inaccessibili, sembrano qualcosa di negativo, ma che tali non sono purchè pensiamo a fondo ogni cosa nel più ampio Cerchio dell'ente.

A partire dalla necessità di pensare ogni cosa "nel più ampio Cerchio dell'ente", si fa luce la possibilità per l'uomo di ricondursi alla propria essenza mortale; possibilità custodita nel "rivolgimento della separazione contro l'Aperto". La dimensione della Tecnica, cioè della autoimposizione, dell'oggettivazione, porta con sè la negazione costante della morte, per via della quale la morte diviene "qualcosa di negativo, il puro e semplice non-stabile, il nullo". Ma rivolgere la separazione nel più ampio Cerchio, cioè ricondursi alla dimensione dell'ente non più considerato come oggetto, ma nel suo legame essenziale con l'essere, implica la "rinuncia ad assumere negativamente ciò che è".

Subito di seguito Heidegger cita una frase da una lettera di Rilke a Muzot (datata 6 gennaio 1923), in cui si dice che occorre "assumere la parola 'morte' senza negazione"; Blanchot riprende a sua volta questa stessa citazione e la commenta riproponendo la riflessione heideggeriana puntualizzata secondo i canoni della propria:

Leggere la parola morte senza negazione, vuol dire toglierne il mordente della decisione e il potere di negare, vuol dire separarsi dalla possibilità e dal vero, ma vuol dire anche separarsi dalla morte come evento vero, abbandonarsi all'indistinto e all'indeterminato, l'al di qua vuoto dove la fine ha la pesantezza del ricominciamento. Tale esperienza è quella dell'arte.

Liberarsi della negatività della morte, significa reintegrarla nel dominio di un al di qua che non riconosce più la distinzione rigorosa di vita e morte, ma li tiene insieme come appartenenti alla stessa realtà. Ma ciò significa attribuire a questa realtà una costitutiva mancanza di fine che rende impossibile la determinazione, la distinzione; significa pensare un tempo senza conclusione, non più lineare, il tempo del ricominciamento. Questa realtà si manifesta pienamente nell'esperienza dell'arte, che è esperienza dell'opera.

(...) l'arte rappresenta originalmente il presentimento e lo scandalo dell'errore assoluto, di qualche cosa di non-vero, ma in cui il "non" non ha il carattere perentorio di un limite, poichè è piuttosto l'indeterminazione piena e senza fine con la quale il vero non può andare d'accordo.

Nell'esperienza originale, dunque, si fa esperienza di una morte reintegrata nella vita, cioè di una morte impossibile a morirsi, una morte di cui non c'è esperienza diretta, ma con la quale si coabita, in una strana situazione di avvicinamento senza fine, che non conclude mai in una presa di possesso. In questo senso "vi è in prossimità dell'arte un patto stretto con la morte, con la ripetizione e con la sconfitta". Vi è, nell'esperienza originale, la necessità di affrontare questo rischio supremo rappresentato dall'esperienza di una morte impossibile, sempre presente, e priva di negazione. Una morte che conduce alla realtà di un "fondo di impotenza in cui tutto ricade quando il possibile si attenua", cioè alla realtà di quel che si ritrae col presentarsi dell'opera, quell'impossibilità che non nega ma afferma.

Nell'esperienza dell'origine, l'opera sostiene il venir meno del mondo del possibile (dell'azione, delle decisioni, del lavoro, della certezza, della ragione), sul fondamento dell'impossibile: ed è seguendo le tracce della morte che si giunge a tale oscura, insostenibile, incomprensibile origine. Solo riflettendo sulla morte, intende suggerire Blanchot, ci è consentito entrare nell'ambiguità del rapporto tra possibile e impossibile, tra Mondo e Terra, tra l'evento dell'opera e il nascondimento dell'origine.

A questa dimensione Blanchot dà il nome di immaginario.


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