“Blocco mentale”

 

 

 

Racconto originale

scritto da

Simone Bartesaghi

 


 

“Mi sentivo in colpa.

E’ per questo che correvo così forte nonostante la nebbia. Era così fitta che non si vedeva l’asfalto ma mia moglie mi stava aspettando e non volevo che si arrabbiasse. Sapete, lei non approva le mie serate con gli amici; il “gruppo dei deficienti” ci ha definiti una volta per le nostre bizzarre abitudini e non posso darle torto.

Però è l’unica distrazione che mi consento, dopo tutto, due volte al mese una sera con gli amici non è mica grave, no? E’ un modo come un altro per provare emozioni. Sapete io lavoro in banca e lì di emozioni, di sussulti e di sorprese ce ne sono veramente poche. Qualche conto che non torna, al massimo, ma poi tutto si accomoda. Quelle che vogliamo provare noi sono emozioni vere, forti, che ti facciano sentire vivo.

Non è forse Lovecraft che ha scritto “Il sentimento più forte dell’uomo è la paura”? Ed è quella che noi vogliamo provare. E’ con questa frase che apriamo ogni nostro incontro, prima di darci da fare.

Ma cosa avete capito? Guardiamo film, leggiamo libri e poi li commentiamo. Cose innocenti, che non fanno del male a nessuno. Ma sapete quanto possono essere bravi gli scrittori o i registi a farti provare la paura? A farti saltare sulla poltrona e magari guardarti le spalle mentre apri la macchina per tornare a casa?

Ma quando ci salutiamo, sfottendoci mentre con aria circospetta ci allontaniamo e la paura passa lentamente, mi viene sempre un forte senso di colpa a sapere che mia moglie è a casa che  aspetta.

Per questo correvo così tanto e per questo non ho visto cosa avevo messo sotto. Dovete credermi! Quando ho sentito quel rumore sotto la ruota, la macchina che sobbalzava e … oddio che forte emozione. In quel momento si che mi sentivo in colpa. Per il mio divertimento non solo avevo fatto aspettare mia moglie ma avevo anche ucciso un animaletto.

Non so per quanto tempo sono rimasto aggrappato al volante senza voltarmi, a fissare il nulla che mi circondava. Non avevo il coraggio di scendere e guardare; il cuore mi esplodeva nel petto e nella mia mente immaginavo qualsiasi animale, un gatto, un cane, una talpa, un riccio che aveva trovato la sua fine sotto la mia ruota per il mio egoismo. Mi immaginavo la pelliccia squarciata, la carne che si raffredda mentre il sangue cola lento dalle ferite, come in quel film di Landis.

Tenevo gli occhi chiusi, stretti stretti. Quando li ho riaperti la prima cosa che ho visto è stata la foto di mia figlia che dal cruscotto mi sorrideva nel suo abito della prima comunione, con la catenella d’oro e le mani giunte in preghiera.. E come facevo a dirglielo, a dirgli che suo padre era un assassino?

Alla fine ho fatto un respiro profondo e mi sono voltato. Niente, non vedevo niente. Lentamente ho spento la macchina, messo le quattro frecce e sono sceso.

L’asfalto era umido ed ho fatto tutto il giro. La scia rossa di sangue partiva proprio da sotto la mia gomma anteriore. Quando sono arrivato dietro ho fatto un respiro profondo prima di guardare per terra. Ho visto tanti film ed ero convinto di essere preparato. Ho immaginato la scena ed ero convinto che avrei resistito. Ma non ero pronto per quello che ho visto.

Non avevo ucciso un animale innocente, avevo spappolato la testa decapitata di un essere umano.

Adesso, capite? Come potevo reagire? Ho vomitato, con tutte le porcherie che mangiamo alle serate degli amici. Ho vomitato anche l’anima. E’ per questo, penso, che non li ho sentiti avvicinare. E quando li ho visti erano già troppo vicini.

In quel momento, in quel preciso momento ho capito che eravamo solo “un gruppo di deficienti”. Quella sì che era paura, paura vera. Altro che i film e i libri e tutte quelle puttanate. Lì si che me la stavo facendo sotto.

Ero impietrito, paralizzato. Non ricordo di aver pensato niente, anche il mio cervello era sopraffatto. “La paura uccide la mente” dice una litania Bene Gesseritt ed in quel momento la mia era proprio defunta.

Erano solo a pochi passi da me ma, non so come o cosa mi abbia risvegliato. So solo che in un secondo ero dentro la macchina, avevo acceso il motore e stavo correndo via. Le loro ombre sono subito sparite nella nebbia, ed ho urlato. Si urlato, a squarcia gola mentre cominciavo ad accorgermi dell’odore di vomito che mi circondava e del sapore rancido che avevo in bocca.

Comunque avevo i nervi a fior di pelle ed è stato solo per i miei riflessi che sono riuscito ad intravedere nella nebbia quella piccola figura in mezzo alla strada e ad evitarla.

E’ così che sono finito nella roggia ed ho perso conoscenza.

Bhè, non proprio.

Ricordo vagamente che mi tiravano fuori dalla macchina e che mi trascinavano il mezzo ai campi. Erano i due, credo, ed altri, non so quanti, ci seguivano.

Mi sono risvegliato completamente in un capanno. Ero seduto su un ciocco di legno e mi avevano tirato in faccia un secchio d’acqua.

Li intravedevo appena. Erano in cinque. Tutti vestiti di rosso, con un saio o qualcosa del genere. Tre parlavano tra di loro mentre due cercavano di svegliarmi.

Cazzo ma in che guaio ero finito? Mia moglie, mia figlia, il mio lavoro, tutto mi sembrava così lontano ed irreparabilmente perso. Capite cosa intendo?

Come si può sentire una persona che si crede già morta? Non volevo soffrire, ecco tutto. Sono sempre stato un fifone del dolore fisico. Neanche le punture del dottore riuscivo a sopportare. E adesso con un dolore lancinante sulla testa, il sangue sui vestiti, l’odore nauseabondo del mio vomito mi sentivo perso, vinto, avrei voluto piangere. Quasi preferivo essere stato ucciso lì, sul posto, dentro la mia auto almeno non avrei dovuto subire le torture che mi stavo immaginando.

E’ stato proprio in quel momento che mi sono sentito come in uno dei tanti film di serie B che avevo visto con i miei amici. Ed è stato proprio questo pensiero a farmi nascere la speranza.

Non avevano preso il solito sbarbatello imbranato, io i trucchi li sapevo tutti e allora dovevo almeno provarci. Avevano fatto male i conti e presto se ne sarebbero accorti. O almeno lo speravo.

Ho cominciato a ripetermi in testa le parole di Paul Atreides: “La paura uccide la mente, la paura è la piccola morte che porta con sé all’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la mia paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò”. Una, due, tre volte. Ed a occhi chiusi ogni volta riuscivo a rilassarmi ed a concentrarmi di più.

Se era come in un film tanto valeva comportarsi come un personaggio.

Li osservavo con gli occhi pesti e ciondolando la testa per far credere di essere ancora incosciente.

Mi ero già accorto di avere le mani legate strette dietro la schiena ma solo in quel momento mi resi conto del dolore sottile ai polsi. Il fil di ferro con in quale mi avevano legato mi tagliava e l’idea di sentirlo insinuarsi nella mia carne mi faceva venire i brividi.

Ma non dovevo farmi sopraffare. Non dovevo fare caso a quello che provavo, ero vivo e questo mi doveva bastare. Mi concentrai su quello che vedevo.

Il capanno aveva il tetto bucato e non era molto grande. Almeno questo sembrava a me dal mio punto di vista, per quello che riuscivo a sbirciare. C’erano attrezzi, cataste di legno e fieno.

Sinceramente non riuscivo a sentire cosa si dicessero i tre più lontani mentre i due che mi stavano vicino mi guardavano senza dire una parola. Quando si sono riuniti agli altri il loro borbottio è cresciuto ma continuavo a non distinguere bene le parole.

All’improvviso si sono voltati e zittiti all’unisono. Qualcuno era entrato nel capanno ma non riuscivo a vederlo.

La sua voce era rauca e forte ma parlava in una lingua che non conoscevo. Le parole sembravano ricche di “h” aspirate e con un andamento cantilenante che non saprei ripetere.

L’unica cosa che so è che quando la sua voce ha smesso di tuonare i cinque si sono voltati verso di me. Con aria grave mi hanno guardato dritto in faccia e non c’era più bisogno di spiegazioni: mi avevano condannato.

Mi sono sentito gelare ma ho continuato con la mi messa in scena, aggrappandomi alla mia speranza.

Lentamente si sono tirati su il cappuccio fino a coprirsi il viso ed i soliti due si sono avvicinati a me tirandomi in piedi.

Io ho continuato a fingermi svenuto per opporre una qualche forma di resistenza passiva nella speranza che, una volta fuori di lì, avrei trovato un’occasione per scappare.

Purtroppo solo in quel momento mi sono accorto che anche le mie caviglie erano strette dal fil di ferro.

A peso mi hanno portato fuori dal capanno. Un gruppo di persone con il saio e il cappuccio mi aspettava. I due hanno continuato a trascinarmi avanti mentre le persone si aprivano davanti a noi e poi si accodavano.

Non riuscivo a vedere oltre. Solo tante persone, non so quante, forse venti o trenta che mi osservavano e poi ci lasciavano passare. Il fatto che non mi avessero slegato non prometteva bene e nonostante ogni mio sforzo fosse focalizzato a non farmi sopraffare dalla paura e dal terrore cominciavo a cedere. E penso che come sono crollato io mettendomi a urlare e implorare chiunque altro non avrebbe resistito nel vedere il proprio destino.

Quando l’ultima persona si fu tolta dalla mia strada potei vedere un grande falò che ardeva al centro di uno spiazzo. La luce mi abbagliava e per questo non vidi immediatamente la macchina ma piuttosto mi concentrai sull’uomo che aveva cominciato a camminare vicino a me. Alto e imponente, con un saio nero e rilucente.

Un boia, pensai. E quando mi girai per guardare davanti a me ne ebbi la certezza. Distesi per terra in ordine ben allineato c’erano tre o quattro corpi senza testa. Le loro teste erano infilzate sulla punta di tre bastoni. Solo una ne mancava. Accanto ai corpi una rudimentale ghigliottina era stata preparata per me.

E’ inutile dire che la mia furibonda reazioni fu vana. Le mie urla, le mie lacrime… niente. Nessuno sembrava voler o poter fare qualcosa. I due continuavano a trascinarmi a forza e… non ricordo bene… penso di essermi divincolato il più possibile… ma so solo che mi sono ritrovato inginocchiato, con un legno che mi serrava la testa  ed uno strano silenzio che mi circondava.

Nessuno parlava, non c’era vento, non si sentivano rumori, solo silenzio.

Cosa pensate che abbia provato in quel momento? Io non lo so, mi ricordo solo il silenzio e di aver pensato alla mia vita come a un film. Un  film alla Frank Capra, un film a lieto fine.

E’ stato forse per rompere quel silenzio, forse perché ero impazzito o forse perché era l’unica cosa che potevo fare che ho cominciato a ridere. A squarcia gola, velo giuro.

Non li vedevo in faccia ma immaginavo la loro meraviglia, nessuno aveva reagito così, ne sono sicuro. Ridevo certo, perché la cosa migliore da fare era andarsene ridendo tanto ormai non c’era più niente da fare. Stavo per morire e volevo farlo ridendo. Andarsene ridendo, ma vi rendete conto che bello? Ridevo perché la vita era stata tutta una presa in giro.

Io che avevo sognato da sempre grandi emozioni e avventure, non avevo avuto il coraggio di provarle e vivevo come un mite impiegato tutto casa e lavoro. E adesso che la mia vita era diventata così avventurosa sarei morto sognando di tornare alla mia giacca e cravatta, ai bigodini di mia moglie ed al “gruppo di imbecilli” del mercoledì sera.

Strani i pensieri che ti passano per la testa in quel momento. Mentre stai per morire, voglio dire.

Poi è arrivata la prima esplosione; proprio davanti ai miei occhi. Veramente!

Ha fatto saltare in aria una decina di uomini in rosso e tutti gli altri hanno cominciato a correre da tutte le parti. Poi le altre esplosioni, non so dietro, di lato. Non capivo più niente. Una caos infernale anche perché non vedevo, non mi potevo voltare.

Evidentemente stava succedendo qualcosa di tremendo ed imprevisto e la mia speranza si era immediatamente riaccesa. Pensavo fosse la polizia e quindi la mia unica preoccupazione è subito diventata quella di non lasciarci le penne proprio in quel momento. Proprio mentre mi stavano per salvare. Il boia era sparito e non mi sembrava che ci fosse nessuno vicino a me. Piano piano ho cominciato a girare la testa per guardare verso l’alto.

La lama ondeggiava pericolosamente sopra il mio collo e tutto quel trabiccolo di ghigliottina fatta in casa tremava ad ogni colpo. Dovevo fare qualcosa, restarci secco a quel punto sarebbe stato ridicolo, assurdo, non da eroe. Via, non si è mai visto!

Così ho cominciato a urlare, a chiedere aiuto. Ormai sentivo rumori lontani di lotta di urla ma era mai possibile che nessuno venisse a salvarmi? Era evidente che ero in pericolo e la polizia, cribbio, bastava un poliziotto per liberarmi a quel punto!

Vi assicuro che ancora non credo a ciò che ho visto ma… insomma… ecco come è andata: all’improvviso uno di quelli incappucciati corre proprio davanti ai miei occhi. Sarà stato ad una decina di metri da me ed arrivava dalla mia destra.

Si ferma, si gira ed assume una strana posizione. Come per un combattimento di arti marziali. Lentamente indietreggia sempre fissando qualcosa che, evidentemente, si stava avvicinando a lui con fare minaccioso. Ed alla fine è apparso anche ai miei occhi.

Un nano o un bambino, non so. Sembrava troppo elegante e agile per essere un nano. Indossava una tuta o qualcosa del genere con colori scuri…

Alla fine i due si fermano.

Proprio uno di fronte all’altro. Tutti e due in posizione di combattimento. Si fissano e cominciano a urlare parole senza senso. Ognuno una litania propria accompagnata da gesti misurati e rapidi. Sempre più rapidi. Non riuscivo neanche più a vederli fino a quando è successo.

Il piccoletto ha lanciato una palla di… fuoco… o non so cosa contro l’uomo in rosso. Questo è riuscito a schivarla saltando così in alto che non riuscivo neanche più a vederlo mentre l’altro rotolava nell’erba e schivava qualcosa che non vedevo ma che provocava per terra un cratere.

L’uomo in rosso atterrava proprio davanti a me dandomi le spalle.

Si sono fermati per pochi istanti poi si sono rimessi in posizione ed i loro canti sono ricominciati. Prima lenti poi sempre più veloci.

Ricordo solo che, all’improvviso, l’uomo in rosso si è spostato e sono stato investito da una fiammata bianca che mi ha fatto volare via.

Quando sono ricaduto ho cercato di aprire subito gli occhi per capire cosa mi era successo. Magari la ghigliottina si era distrutta oppure pendeva proprio a pochi centimetri dalla mia gola e bastava un niente per… insomma avete capito.

Il problema è che non vedevo niente. Tutto bianco… cazzo ero diventato anche cieco!

Ho cercato di capire come ero messo. Adesso ero sdraiato, almeno così mi sembrava, ma il collo era ancora stretto nel ceppo di legno. Avevo paura a muovermi perché poteva essere un passo falso e allora cominciai a concentrarmi sui rumori.

Sentivo in lontananza schiamazzi e urla. Ancora qualche tonfo attutito dalla distanza ma niente di familiare che potesse aiutarmi.

Gli occhi continuavano a farmi un male pazzesco e la mia visione, quando di tanto in tanto provavo ad aprirli, era sempre e soltanto una desolante macchia bianca.

E’ stato in quel momento che ho riconosciuto quel rumore, chiaro e nitido. Non c’erano dubbi non poteva avere che un significato. La lama stava scivolando…

Una frazione di secondo? Meno, meno… non so di preciso ma non avevo tempo per scegliere, ormai era finita e l’unica cosa che potevo provare era spostarmi da una parte. E se avessi sbagliato, cribbio ero a due passi dalla libertà e sbagliare così no! Ho anche pensato che senza un braccio… bhè avrei potuto continuare a vivere… ma senza testa? Eppure vi dico che tutti questi pensieri mi sono balenati per la testa in quella frazione di secondo che ha separato l’inizio del suono dal dolore lancinante. Certo la ghigliottina era scesa ma per fortuna mi ero spostato dalla parte giusta e adesso sentivo un dolore violentissimo alla spalla. Ma sentivo qualcosa e quindi ero vivo.

E poi…

 

E poi siete arrivati voi”.

Il tenente Marco Ferri rimase qualche istante in silenzio. Abbassò gli occhi e spense l’ennesima sigaretta.

Con il volto contratto in una smorfia si alzò lentamente dalla sedia e tornò a fissare negli occhi il testimone.

Gli appoggiò una mano sulla spalla e con voce grave disse:

“Aspetti qui”.

Uscì dalla stanza dell’interrogatorio ed entrò in quella di ascolto.

Il suo collega, il tenente Danilo Bortot lo stava aspettando.

Dal grande vetro potevano vedere il testimone che si asciugava le lacrime e si ricomponeva.

I due si guardarono in volto scuotendo la testa.

“Io non ho il coraggio di dirglielo” disse Marco Ferri allontanandosi dal vetro ed accendendosi un’altra sigaretta.

“Perché?”.

“Non vedi com’è stravolto, se gli dico che la testa che ha schiacciato è quella di sua moglie… quello … si ammazza. No… dobbiamo aspettare…”.

“Non ti capisco” disse Danilo Bortot avvicinandosi al collega.

“Come non capisci, ma ti rendi conto cosa ha passato? Adesso probabilmente sta sognando di tornare da lei e da sua figlia, di dimenticare tutto quanto… se mai sarà possibile…”

Lo sguardo di Ferri si spostò dal collega al testimone della stanza accanto e non potè fare a meno di provare una grande apprensione per quell’uomo disperato.

“Incredibile” disse scuotendo la testa.

Bortot fissò meravigliato per qualche istante il collega. Avevano lavorato insieme a così tanti casi e pensava, era convinto di conoscerlo bene, ma adesso…. Alla fine gli mosse una mano davanti agli occhi per attirare la sua attenzione.

“Ah, ma perché … tu … tu gli credi?”.

Credi? Credi? Credi? Credi? edi? edi? edi? edi? di? di? di? di? di? di? di? di?

Le onde sonore dell’ultima frase si propagarono rapidamente dalle corde vocali del tenente Bortot attraverso la stanza e furono attutite dalla parete ma arrivarono lo stesso alle orecchie del testimone.

“Accidenti – pensò – lo sapevo che il blocco mentale non funzionava bene su due persone contemporaneamente. Non mi crede uno e metterà un sacco di dubbi anche all’altro. Accidenti a quei maledetti Quoti, sono stupidi per quanto sono bassi! Ma la pagheranno cara! Non posso permettere che una stupidaggine come questa ostacoli il nostro progetto. Poveri stolti, non sanno con cosa hanno a che fare. Poco male. Vorrà dire che il mondo conoscerà il nostro nome prima del previsto. I compagni mi seguiranno e si compirà la nostra volontà”.

Il testimone si alzò in piedi di scatto.

 “Ehi, cosa sta facendo?” disse Bortot sorpreso.

Salì in piedi sulla sedia e poi sul tavolo.

“Ma …. Che …. Diavolo….” Borbottò Ferri.

Il testimone si girò verso lo specchio, fissò lo sguardo dei due poliziotti e sorrise.

“Nooooo, fermalo fermalo… “ cominciò ad urlare il tenente Bortot mentre il testimone si lasciava cadere all’indietro.

I due poliziotti sconvolti corsero fuori dalla stanza e si catapultarono verso quella dell’interrogatorio.

Al primo tentativo la maniglia era bloccata e Bortot si ferì alla mano. Ferri estrasse la pistola e centrò al primo colpo la serratura che cedette di schianto dopo il calcio del collega.

Quando entrarono gli occhi gli si sbarrarono e la saliva gli si asciugò in gola.

Non potevano credere ai loro occhi.

La stanza era vuota.