“LE VENTITRE’ E QUARANTUNO”

                                                         

           DI MARGHERITA MELARA

 

 

 

Notte fonda. Appare una serata, co-me o-gni al-tra. Sono le ventitré e quarantuno ma sembra ci sia il fitto dei bassifondi di Roma, dove la gente va, ma è vestita al meglio.

C’è un posto giù in fondo alle scale, è stranamente illuminato da un lampione al neon che però, sempre per stranezza, illumina soltanto un pezzo di cielo congruente a quel punto dove si trovano Marcello e i suoi “amici”.

Cammino verso di loro e contemporaneamente loro verso di me ma non ero io a interessargli, per fortuna. Stavano andando a prendere le scale per  fottersi in qualche altro punto.

Infatti mi avvicino al mio amico Marcello, lasciato con altra gente e noto con rabbrivido che regge in mano una forchetta di plastica bianca alla quale è amorevolmente conficcato un occhio non sanguinante. Era questo che rendeva tutto molto calmo nell’inquetudine della situazione: non c’era cruenza di fatti.

 Marcello non piangeva e non urlava ma era allibito di come credeva d’avere degli amici e poi di come questi si fossero rivelati degli assassini.

Io guardavo nella mia mente e passavo in esame le probabilità dei motivi d’un gesto simile. Che i suoi amici fossero finta gente per bene era fuori dubbio ma che loro ne avessero fin sopra i capelli del comportamento affatto razionale e sopra gli schemi di Marcellino?

L’unico motivo fattibile sembrava essere questo. L’atteggiamento libero e del dire e fare con i sensi soprattutto, aveva infastidito di troppo quei miseri.

Marcello aveva il fazzoletto bianco di carta bagnata poggiato sull’occhio che avrebbe dovuto non esserci ma invece alzando la carta, vidi che dell’occhio rimaneva tutto, tranne il colore. Cioè, c’era traccia dell’iride ma era bianca anche questa. In effetti, l’occhio fisicamente continuava a trovarsi infilzato dalla forchetta.

Esistevano entrambe le situazioni, soltanto questo so spiegare.

Marcello mi prese in un abbraccio molto forte quasi con vero amore ma io non diedi tempo a quell’abbraccio di durare a lungo. Avevo paura. Avevo paura che, se uno di quegli striscianti avesse visto quei gesti di confidenza e familiarità ricambiati, avrebbe potuto farmi male. Mi staccai pensando che ero una gran codarda, che questo mondo con le sue stesse paure mi c’aveva resa e un po’ forse era diventata un’attitudine innata.

 Presi la forchetta, avevo voglia di ucciderli ora, ma l’unica cosa squallida che venne fuori fu il passargli davanti, guardarli nel loro essere vestiti in nero di stile con accenni del bianco e sentirmi educatamente e addirittura rispettosamente salutata.

Io ricambiai, proprio come loro, maledetta me, ricambiai e da quel momento ebbi in testa che non era possibile infliggere colpi alla mafia che non esorbitassero il reale.