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Qui troverai una serie di testimonianze di vita cristiana,
a partire dal mio piccolo,
che mirano semplicemente a farti comprendere una cosa:
CRISTO NON E' LONTANO DA TE E DALLA TUA VITA,
basta saper guardare...

Se vuoi puoi inviare la tua testimonianza scrivendomi:
topenz@virgilio.it





Ho sempre osservato con attenzione il comportamento dei bambini e devo dire che, inizialmente, il mio atteggiamento nei loro confronti era essenzialmente di divertimento, ludico. Nell’ormai lontano 1987, vent’anni fa, sotto una inconsapevole ispirazione, avevo scritto una canzone intitolata appunto “Bambini”...

Questo il punto di partenza. Con il passare del tempo, però, a questo approccio si è andato pian piano sostituendo qualcosa di molto più profondo. I bambini, infatti, sono diventati in qualche modo un elemento centrale della mia storia. Ho sempre desiderato avere dei figli ma… come completamento di me stesso, quando lo avessi deciso io. Così, tra timori e precauzioni, sono arrivato a 36 anni al matrimonio con Valeria, nel 1996, imbattendomi subito dopo nel problema della sterilità. Allora lo chiamavo problema... e ad un problema si cerca di trovare la soluzione, sbattendosi più o meno affannosamente, secondo le proprie forze e il proprio livello di rassegnazione.

Per fortuna però, anzi, oggi dico per grazia (perché la fortuna non esiste), un giorno, in una piccola chiesa di Posillipo, mi imbattei in delle persone che “davano la vita per me”. Non entravo in una Chiesa, fatto salvo qualche matrimonio e qualche funerale, da una ventina d’anni. Ma quella volta, spinto da mia moglie, iniziai ad ascoltare delle catechesi. Mi colpiva vedere madri e padri di quattro, cinque figli, che alla sera, dopo il lavoro, invece di starsene in panciolle davanti alla televisione, con i loro bambini a godersi il meritato riposo, stavano lì a parlare a me, proprio a me, di un certo Gesù Cristo, che aveva vinto la morte. Anzi, dicevano che aveva vinto per sempre tutti i tipi di morte… Ebbene, io poco capivo (e ancora oggi non è che “capisca” molto, perché ascoltare non è mai stato il mio forte), ma c’era una luce nei loro occhi che mi diceva che quella era la Verità. E mi attirava a sé.

Così iniziai con mia moglie l’esperienza del Cammino Neocatecumenale. Alla fine di queste catechesi si formò una comunità, fatta di una trentina di persone, le più diverse e scalcagnate possibili. Iniziammo così a “camminare”, sotto la guida del nostro parroco, secondo uno schema semplicissimo: ascolto della Parola di Dio, partecipazione all’Eucaristia, comunione fraterna. Serviva uno che suonasse la chitarra, per aiutare i fratelli a pregare con il canto… e fui scelto io. Dalla musica leggera passai ai salmi.

Intanto, nel corso delle penose trafile mediche, che chi ha vissuto il problema della sterilità conosce benissimo, ci fu proposto di tutto. Anche la fecondazione artificiale. Ne parlai con il nostro parroco che, con chiarezza cristallina, mi fece presente l’illiceità morale della cosa esortandomi a entrare nella mia, anzi, nella nostra storia, senza cercare di scappare da essa, sicuro che il Signore aveva un disegno d’amore su di me e mia moglie. Per la prima volta, dopo che per anni avevo fatto sempre di testa mia, di fronte a questo avvertimento fermo, obbedii.

Tuttavia passarono quasi due anni perché riuscissi finalmente a dare il suo vero nome al mio problema. La sterilità era la mia croce, quella sulla quale ogni cristiano deve essere inchiodato. Il giorno in cui lo riconobbi sentivo i fratelli piangere con me in una comunione che non avevo mai sperimentato prima in vita mia. Ci sentivamo Uno, ed oggi riconosco che lì, forse per la prima volta nella mia vita, si stava facendo presente concretamente la Chiesa, quella vera e non quella che stava sui giornali o nelle mie elucubrazioni mentali. La Chiesa mi consolava attraverso la compassione dei fratelli e, per bocca del parroco e dei catechisti, mi prometteva che un giorno questa croce sarebbe diventata gloriosa. Gesù la portava con me.

Passati poco più di tre anni dal matrimonio, come prescritto dalla legge, decidemmo di inoltrare domanda di adozione, nazionale ed internazionale, al Tribunale dei Minori. Pensammo infatti: “Forse Dio ci chiama ad un altro modo di essere genitori… apriamo la porta del cuore e vediamo cosa succede…”. In questi nuovi anni di attesa ci sottoponemmo ancora a faticose trafile mediche e psicologiche… Ora, però, con un altro spirito, con un’altra serenità, con la fiducia di chi, comunque, vede una luce che gli indica la strada, pure se ancora non sa dove porta questa strada.

Accadde nel frattempo che mio cognato, un omaccione buono poco più che quarantenne, se ne volasse in cielo stroncato in breve tempo da un male incurabile. La sua famiglia viveva a Firenze e la moglie (sorella di mia moglie) si trovò con due bambini, di 4 e 1 anno, a cui badare da sola… Noi vivevamo in un minuscolo appartamentino al pian terreno in una deliziosa villetta del Casale di Posillipo.
Beh, per farla breve e per una serie di quelle che il mondo chiama coincidenze, ma che io inizio a chiamare con il loro nome: interventi di Dio (attraverso, certo, il cuore buono di qualche persona), si liberò l’appartamento di fianco al mio, nella stessa villetta! La mamma e i due bambini, così, vennero a vivere vicino a noi, in una sorta di famiglia allargata. Per me fu la conferma che il Signore mi stava indicando “un altro modo di essere padre”. Lì non ci saremmo mai stati, vista l’angustia degli spazi, se avessimo già avuto un figlio nostro. Ecco, allora c’era un senso nella nostra storia. Entrandoci dentro iniziavo a vedere che, sì, era vero quello che mi era stato promesso. Nel riconoscere i disegni della Provvidenza, la croce diventava gloriosa.

A questo punto, infatti, pur non avendo un figlio mio, mi sentivo fortemente coinvolto non solo con i miei due nipoti, che avevano me come “figura maschile di riferimento” a tempo pieno, ma anche con altri bambini. Facevo infatti cantare quelli che si preparavano alla prima comunione, sia nella mia parrocchia del Casale di Posillipo che in quella dove frequentavo il Cammino Neocatecumenale… e posso assicurare che questa è stata una vera “grazia ricevuta” per la ricchezza di doni che vi ho potuto attingere.

Alla fine, d’improvviso, un bel giorno del 2002, venimmo chiamati perché… un bambino ci aspettava in Russia, a San Pietroburgo! Così, era il mese d’aprile, partimmo e incontrammo per la prima volta Vlad, nostro figlio. Dopo una settimana tornammo in Italia, in attesa che si sbrigassero le pratiche burocratiche, con qualche misera foto e un filmino. E vi assicuro che io e Valeria passammo i due mesi più difficili della nostra vita nell’attesa impaziente di correre di nuovo da lui e portarlo via con noi. Ma il primo luglio tornammo a prenderlo e l’otto dello stesso mese, il giorno del suo terzo compleanno, venne a stare con noi in un appartamento di San Pietroburgo. Alla fine del mese tornammo in Italia e… fu festa grande tra i cuginetti, i parenti, e tutta la buona gente del Casale di Posillipo!

Erano passati sei anni di attesa da quel giorno in cui padre Lorenzo, il mio parroco, mi aveva invitato a smettere di sbattermi per cercare soluzioni e ad entrare nella mia storia, perché lì c’era Cristo ad attendermi. Ed era vero. Lì c’era Cristo ad attendermi. Così diventammo tre. E oggi riconosco che il piccolo Vlad è sempre stato, soprattutto nei momenti di crisi più bui, che ogni coppia attraversa, il punto fermo attraverso il quale Cristo ci ha permesso di restare insieme, di riannodare i fili spezzati e di continuare ad andare avanti. Gesù ha detto: “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini, accoglie me” (Mc. 9, 37): questa Parola dai significati molteplici e profondi, si è avverata nella mia vita alla lettera. In realtà riconosco oggi che è Cristo che mantiene unita la coppia nel sacramento del matrimonio, agendo in modi più o meno misteriosi. A noi sta solo accettare umilmente il suo aiuto.

Vlad intanto è cresciuto, ha iniziato la scuola… La vita è andata avanti, per noi e per gli altri… i miei nipotini sono tornati in Toscana, di dove erano venuti, abbiamo cambiato casa… Sempre abbiamo continuato a frequentare la comunità neocatecumenale, all’interno della quale abbiamo visto meraviglie compiersi nella vita di tutti i nostri fratelli.

E’ iniziato così un periodo in cui sono stato chiamato a dare testimonianza (è incredibile come tante volte il Signore ti mette davanti le persone al momento giusto) a coppie che soffrivano sulla stessa croce. Qui, di fronte al dolore e allo sbandamento che questi aspiranti genitori provavano, nella mia più totale meraviglia, vedevo che il semplice racconto, seguito da un piccolo annuncio di salvezza nel nome di Cristo, suscitava di volta in volta speranza, sollievo, a volte è addirittura arrivato a sbloccare situazioni di stallo incancrenite da anni… Ecco, non c’era bisogno di discorsi o sermoni più o meno sapienti, Dio parla attraverso i fatti della vita di ciascuno di noi. E, senza che in noi ci sia alcun merito particolare, ci utilizza per parlare al cuore degli altri. Mi commuovo, mentre scrivo, se penso che qualcuno abbia potuto vedere nei miei occhi la stessa luce che io avevo visto, tanti anni prima, in quelli dei miei catechisti…

Che aggiungere? Siamo immeritevoli e a volte inconsapevoli beneficiari dell’unico vero dispensatore di doni. Con sempre maggiore convinzione canto con il salmista: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?” (Sal. 116, 12).

All’inizio del 2006 Valeria, parlando con alcune sorelle del Cammino che avevano già fatto questa esperienza, mi propose di accogliere a tempo, durante l’estate e le festività natalizie, un bambino o una bambina proveniente dalla Bielorussia. Si tratta dei cosiddetti “viaggi della salute”, connessi alla necessità di fare respirare aria pura a questi bambini, che soffrono ancora gli strascichi del disastro dovuto all’incendio del reattore nucleare di Chernobyl, nella confinante Ucraina. Sebbene riluttante, perché di fondo timoroso di soffrire poi il distacco, accettai. Ormai sapevo benissimo che Gesù mi diceva: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.

Accoglievo quindi di nuovo Cristo nella mia casa, come era possibile dire di no? Ormai considero folle non accettare tutto il bene che Dio vuole donarci per paura di dover poi, in un futuro più o meno lontano, soffrire. E’ proprio la paura di soffrire, infatti, quello ci tiene schiavi e ci impedisce di camminare, di progredire, di vivere.

Così abbiamo iniziato questa nuova avventura. E’ arrivato Colia, dieci anni, bielorusso. E anche qui sono sicuro che c’è Cristo ad attendermi, anche se non ho ancora una piena percezione della cosa e dei misteriosi disegni che anche in questa, come in mille altre storie della nostra vita, ci vengono proposti. Devo innanzitutto premettere che c’è una grande differenza tra un bambino adottato, del quale si conoscono la storia e i traumi in maniera più o meno dettagliata, ed uno semplicemente accolto, del quale non si sa niente e che, per la difficoltà della lingua, non riesce a spiegare quasi niente. Evidentemente c’era un passo avanti che la nostra vita spirituale doveva fare. Quello dell’accoglienza e basta. Senza chiedere niente, senza pretendere niente, senza potere, spesso, fare niente… se non (e non vi sembri poco) confidare in Dio. E meno male che ho Valeria al mio fianco che, da questo punto di vista è senz’altro più solida di me e mi fa da puntello, quando inizio a cedere di fronte alla mia impotenza…

Così ora, quando Colia torna in patria, per le vicissitudini di quel paese non siamo mai del tutto sicuri di quando e se potremo rivederlo. Preghiamo per lui, sicuri che l’amore di Dio, in qualche modo che probabilmente noi nemmeno riusciamo ad immaginare, gli si manifesterà. Certo, è dura, ma tiriamo avanti. Procediamo nel nostro cammino confidando che, ad ogni bivio, un angelo ci mostri la via…

Vincenzo Topa (tratto dal libro "Bambini", Lulu.com, 2008)




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