Windhoek. Il volo Air Namibia ci ha appena sbarcato nella capitale dopo
un'intera notte di ineccepibile volo da Francoforte.
Solo le poltrone dell'Airbus 330 (in noleggio
da Novair) sono forse un po' più strette del lecito,
ma pazienza. Era stato annunciato un Boeing 747-400,
che stranamente abbiamo trovato in parcheggio
a Windhoek con le insegne Air Namibia cancellate. Il simpatico addetto dell'Europcar ci sta consegnando il 4x4 prenotato dall'Italia,
e snocciola alcuni consigli. Le piste sterrate non sono autostrade europee,
ammonisce, meglio pensarci due volte a superare i 100 all'ora. Anche sulle strade asfaltate,
ricordate che siete in Africa: un'antilope può sempre spuntare fuori all'improvviso.
Se affrontate lunghi tratti di deserto, portate
con voi dell'acqua: in caso di guasto il deserto non perdona. Rispettate
l'ambiente e quindi non abbandonate i percorsi tracciati. E via così.
Lo ascoltiamo un po' agghiacciati.
La sensazione è che l'aeroporto di Windhoek
abbia accolto, negli anni recenti, un significativo
numero di imbecilli, convinti di sbarcare in Africa per far sfoggio delle
proprie inarrivabili qualità di fuoristradista.
O magari battere il record Windhoek/Swakopmund casello/casello. Altrimenti,
cosa spingerebbe il nostro addetto namibiano
ad inanellare, con infinita pazienza e cortesia, una simile sequela di ovvietà? Lungo la Skeleton
Coast se ne trova conferma: le aride,
splendide collinette che fiancheggiano la strada, sono sconciate da innumerevoli
tracce di 4x4. Doppiamente idiote: un po' perché in simili
climi le tracce di un fuoristrada possono durare anni o decenni; un po' perché
quei su e giù per le colline, per quanto spettacolari, si potrebbero fare
con una Panda 750, e quindi simili performances
non hanno nulla di memorabile.
E forse si intende
perché i tour operators insistano tanto nel
dire che un giro della Namibia si può fare anche
con una macchina normale. Meno fuoristrada in giro, meno
gente che fa danni a destra e manca, e che magari riesce pure a perdersi
nel deserto. Con la macchina normale uno non può che rimanere sulle
strade principali, e male che vada viene soccorso
dai passanti. Insomma: se il governo namibiano
vietasse tout court il noleggio di fuoristrada a stranieri
non saprei cosa obiettare. Dato però che i lettori di queste note sono tutte
persone pacate e rispettose dell'ambiente (in
caso contrario vengo io personalmente a sgonfiarvi le gomme), il mio consiglio
è nettissimo: 4x4. L'affermazione secondo cui tutte le mete turistiche namibiane sono raggiungibili con due ruote motrici sarebbe quasi esatta: l'unica località celebre
che richiede assolutamente la 4x4 è l'oasi di Sossusvlei. Il problema è però
che larghissima parte delle strade namibiane
sono sterrate, e molte hanno come fondo la
leggendaria tôle ondulée africana, che vi
regala vibrazioni memorabili sino ai 70/80 km/h: per viaggiare tranquilli
bisogna trottare verso i 90 ed oltre. Ma a 90/100 km/h una buca, un toccatina al "cordolo" sabbioso che delimita la pista,
una sempre possibile incertezza di guida, l’investimento di un’antilope,
sono certamente più preoccupanti se si è
alla guida di una vetturetta da 900kg anziché di un solido pickup 4x4 da due tonnellate. Ci sono ovviamente strade
peggiori (pare che nel nordovest ci siano percorsi molto impegnativi) e migliori:
una significativa parte è asfaltata, ma soprattutto
la leggendaria strada di sale che percorre la Skeleton
Coast, in molti tratti è incredibilmente
liscia. E per chi trova ancora un poco di piacere nella
guida, davvero difficile negarsi una piccola licenza, una tantum, e far
salire un poco il tachimetro.
Avevamo prenotato un Toyota Hilux, ma secondo
le imperiture regole dell'autonoleggio (modello X od equivalente) all'aeroporto
abbiamo trovato ad attenderci un Nissan Hardbody 2400. Il
tizio di Europcar sosteneva
che il Nissan è persino preferibile in quanto
più morbido sul retrotreno, specie quando il
veicolo, come nel nostro caso, è destinato a viaggiare quasi scarico: 250/300
kg tra passeggeri e bagaglio a fronte dei 1200 di portata massima. L'affermazione
era certamente interessata, ma abbiamo potuto constatare
che in effetti il posteriore del Nissan non trasmette
nessuna fastidiosa sensazione di saltellamento; la guidabilità, nel complesso,
non lascia nulla a desiderare. Il motore è elastico, non molto potente, ma
date le condizioni di scarso carico più che sufficiente. Quattro persone
con relativi bagagli potrebbero trovare preferibile la versione 3300, ma
per noi il 2400 è andato benissimo: non è certo
una Porsche Cayenne
ma nell'impiego namibiano è stato del tutto
soddisfacente. L'unico errore è stato prenotare un pick up "single cabin", cioè a due
soli posti: i sedili sono comodi, ma anche una semplice borsa foto costituisce
un problema. Si aggiunga poi che il cassone, anche se coperto da un tetto
in vetroresina, ha il portello senza guarnizioni: il risultato è che i bagagli
si impolverano con una velocità spaventosa.
Insomma, se avete una ben accessoriata reflex,
pensateci bene prima di scegliere un "single cabin":
davanti ingombra e dietro si copre di polvere da far pietà.
Occhio alla quattro
ruote motrici: lo Hardbody ha il sistema
all'antica, quello dei mozzi da bloccare manualmente. Lo conoscevo bene,
in teoria, ma era troppo tempo che non guidavo
una macchina così equipaggiata (l’ultima era stata una Jeep CJ5, se ben ricordo),
e non mi ero accorto della cosa. La mia disattenzione stava per costarci
piuttosto cara: di fronte ad un passaggio sabbioso, su una strada secondaria,
ho valutato che con le quattro ruote motrici saremmo passati senza problemi.
Non mi sbagliavo (sempre in teoria, che come avrete notato è il mio forte)
ma coi mozzi anteriori in folle la leva del 4x4
inserita, e la relativa spia accesa, non volevano dir nulla. Ed infatti ci siamo insabbiati alla grande. Colpa mia,
si capisce, ma anche il tizio del noleggio ci ha
messo del suo: mi ha intrattenuto un quarto d'ora a spiegarmi i vari comandi,
tergicristallo compreso, e non ha riservato un istante ai fatidici mozzi.
Ho apprezzato per la prima volta (eravamo
in viaggio di nozze) cosa volesse dire il prete
quando parlava di buona e cattiva sorte: nel senso che Monica si è messa
a scavare insieme a me meglio di una talpa, siamo andati a raccogliere la
corteccia caduta da un gruppo di vicine acacie, abbiamo spinto, poi scavato,
poi di nuovo spinto, sino a che gli stramaledetti mozzi anteriori non hanno
ingranato ed a quel punto, voila, la Nissan è uscita dalla sabbia come un tappo di champagne
dalla bottiglia.
Asfaltate o non asfaltate, le strade
namibiane sono molto affidabili; la segnaletica,
poi, è semplicemente perfetta; il traffico, praticamente
inesistente; i distributori non danno problemi. Non oso neppure usare
l'espressione "pista"; in effetti, quelle namibiane
sono autostrade di seta e velluto, se comparate ai micidiali percorsi sahariani
(chi ha presente, per esempio, la mitica Bidon
V, sa di cosa parlo). Il paese appare poi sicuro e disciplinato, e mai abbiamo
avuto occasione di preoccuparci della nostra sicurezza.
Certo: viaggiare (e guidare) in altri
paesi africani trasmette tutt'altra sensazione
d'avventura. Non pretendo di essere insensibile
a tale richiamo, anzi: certi percorsi libici, senza guida locale, senza GPS
(allora) e col solo supporto di una mappa stampata a Beirut (l'unica reperibile
all'epoca) e di alcuni cartelli in solo arabo, resteranno tra i ricordi
più emozionanti della mia vita. Però, a ben vedere:
chi ha detto che per essere davvero in Africa si debba avere il cuore in
gola ad ogni chilometro? A ben vedere, è un approccio
dal fastidioso retrogusto coloniale, come se gli africani non avessero diritto
a costruirsi qualche infrastruttura decente, ogni tanto, o se l'Africa divenisse
meno Africa per questo.
In Namibia
le tracce della colonizzazione tedesca offrono
spesso choc culturali di segno diametralmente opposto. Avete viaggiato per
quattrocento chilometri nel deserto, avete visto struzzi e zebre, arrivate
a destinazione e scoprite che il vostro albergo è il pulitissimo ed asettico
Frankfurter Haus;
scendete a cena e vi sentite proporre goulaschsuppe, wienerschnitzel e sachertorte.
Il mio consiglio è: non opponete resistenza. A Swakopmund, in uno sconsigliabilissimo
ristorante che si chiama Eric, ho passato alla
lista al microscopio per trovare un piatto che suonasse
plausibilmente africano, optando alla fine per uno stufato piccante di
vitello. Pessimo e neanche piccante. Insomma: se goulaschsuppe
deve essere, che goulaschsuppe sia, anche all'ombra dell'acacia: è pur sempre
un'esperienza. Anche perché i piatti austrotedeschi e la birra prodotta in Namibia (rigorosamente attenendosi al Reinheitsgebot, l'antico decreto di purezza) sono più
che apprezzabili. Le birre più diffuse sono due, la Windhoek, fabbricata nella capitale, e la Tafel, che viene da Swakopmund, entrambe buone (preferisco
di stretta misura la Tafel, ma è materia opinabile).
L'eredità tedesca resta poi visibilissima
nell’edilizia di certe località, specie a Swakopmund, dove si trova anche
l’ospedale Bismarck: dedica peraltro appropriata,
visto che il Cancelliere è spesso riconosciuto come l’iniziatore del moderno
welfare state. Troppo facile riconoscere
nella colonizzazione tedesca l’origine di un certo senso di Ordnung und Disziplin che si respira in Namibia,
specie al confronto con altri Paesi africani. Ne
abbiamo fatto esperienza in occasione di un piccolo guasto
alla vettura; segnalatolo intorno alle sei del pomeriggio alla compagnia,
alle sette il meccanico è già all’albergo per valutare il danno e citofona
in stanza: lasciatemi stasera le chiavi alla reception; vengo a prendere la macchina domattina
alle sette e per le nove e mezza ve la restituisco. Accogliamo la promessa
con un rilassato beneficio d’inventario e scendiamo con tutta calma a far
colazione verso le nove e un quarto: alle 9.29, puntuale come la morte,
dalle vetrate dell’albergo vediamo il meccanico tornare con la macchina
in perfetto ordine.
La copertura FM e GSM è circoscritta
a poche decine di chilometri intorno ai centri abitati; vale però la pena
di approfittare di quei momenti, oltre che per chiamare la mamma, per ascoltare
un po’ di radio locale. Tra le stazioni più presenti la NBC (Namibian Broadcasting Corporation)
che vanta uno slogan del tipo Only one station / all
along the nation
(rima evidentemente irresistibile a tutte le latitudini), ma il sound comparativamente
migliore è sembrato, almeno alle nostre orecchie, quello di Radio Kudu http://www.radiokudu.com.na/:
potete provarlo anche da qui col live stream
disponibile sul sito. Nel complesso l’esperienza sonora
è davvero curiosa: poca musica nera; tanto pop, per lo più austrotedesco di serie B (imitazione Abba); una buona dose di sound tirolese (stile seggiovia
dell’Arlberg). I testi in inglese, gli
unici che riesca a capire con una certa continuità,
mi fanno pensare che l’Africa Australe abbia urgente bisogno di un Mogol
locale: a suo modo memorabile il ritornello, su una base musicale impagabilmente
solenne, and I see the African sunrise / in
this second
Paradise (il mirabile autore dovrebbe
essere tal Peter Koelewijn).
A proposito: l’inglese è in Namibia lingua nazionale, mentre resta molto compreso
ovunque il tedesco; interessanti le lingue locali, specie quelle del sud,
che fanno largo uso di particolari rumori, detti clic, provocati schioccando
la lingua sul palato ed in altro modo.
Anche se della
costa namibiana si è sentito parlare infinite
volte, resta una vera sorpresa. La fredda corrente del Benguela, incontrandosi col caldo del deserto, dà
origine ad un ambiente stranamente nebbioso, almeno per alcuni chilometri
dalla riva. Le dune lambiscono un mare che ospita foche, pinguini, fenicotteri
(ed anche discrete ostriche; provare a Walvis
Bay). Lo spettacolo delle otarie a Cape Cross,
in particolare, è davvero impressionante. Si arriva a pochi metri da una incredibile ammasso di animali, evidentemente attirati
da una specialissima concentrazione di pesce nelle acque antistanti. Gruppetti
di sciacalli passano letteralmente tra le gambe dei visitatori per andare
a cibarsi di cuccioli di otaria; data la
lentezza, le madri possono poco o nulla. Verrebbe quasi voglia di intervenire
per mettere in fuga il predatore, ma la natura (ed i parchi naturali) hanno le loro regole.
La varietà di panorami che l’interno
della Namibia offre è certamente considerevole
ma, se debbo essere onesto, non trovo sia la vera
attrattiva del Paese. Le famose dune di Sossusvlei, l’haut lieu touristique par excellence,
sono certamente spettacolari, la celeberrima
Dune45 sarà anche il luogo più fotografato d’Africa, non discuto, ma non
ho visto nulla che faccia ombra ai fantastici panorami dell’Erg algerino.
In quanto a deserti, quel che ho visto del
Kalahari e del Namib
è certamente affascinante, ma il Sahara resta un’altra cosa.
A rendere difficilmente battibile l’incanto
di una vacanza namibiana è un altro ingrediente:
la fauna. A cominciare dai babbuini che vi daranno il benvenuto dai bordi
della strada che unisce l’aeroporto alla capitale, la quantità e qualità
della fauna che si ha modo di incontrare lascia senza fiato. Tanto che alla
fine del viaggio antilopi, struzzi, facoceri (simpaticissimi cinghialini), kudu, zebre,
giraffe e tante altre bestie che in Namibia si
vedono un po’ dappertutto, non fanno più né caldo né freddo, anzi: la meraviglia
dei primi giorni lascia progressivamente il posto alla preoccupazione di
trovarne un esemplare dietro una curva. Splendidi anche i rapaci.
Non ha bisogno di presentazioni il
parco di Etosha.
La visita può occupare diversi giorni, dato che
il parco ha un estensione paragonabile a quella della Slovenia (o, se preferite,
del New Jersey). Si può viaggiare con la propria vettura ma non ci si può
allontanare dalle strade segnate: gli avvistamenti sono quindi legati alla
casualità degli spostamenti degli animali. Anche se l’alloggio può non essere
confortevole come nei lodges appena fuori dal parco, vale la pena di soggiornare nei villaggi
recintati all’interno. Raccomanderei lo storico avamposto di Namutoni, che comprende una fortezza già teatro, il
28 gennaio del 1904, di uno storico scontro che
vide quattrocento guerrieri Ovambo massacrare
la minuscola guarnigione germanica.
A differenza degli jellatissimi soldati tedeschi, abbiamo avuto i nostri
piccoli colpi di fortuna ad Etosha. Un rinoceronte
ci è passato tranquillo tranquillo ad una quindicina di metri, ed una leonessa
ha ucciso una zebra a pochi metri da una strada: i cuccioli, giocando, sono
arrivati ad un paio di metri dal nostro fuoristrada. Mai avrei immaginato,
fotografando in campo aperto, di non riuscire a far stare due leoncini nell’inquadratura
di un 85mm.
A proposito di
attrezzatura fotografica, mia moglie Monica aveva una fotocamera digitale Olympus
provvista di un zoom lungo (la focale massima è equivalente ad un 250mm,
più o meno) e nonostante la mia ferma opposizione a macchine digitali e zoom,
debbo onestamente riconoscere che i risultati sono stati buoni. Non rinuncerei
assolutamente ad una focale almeno di quella lunghezza. Personalmente ho
usato le mie classiche reflex col mio corredo
base (20/35/85/180) eccezionalmente integrato da un 500 catadiottrico acquistato per l’occasione per pochissimi
dollari su Ebay; fatto curioso, il venditore
era un italoamericano che sta a Beverly Hills. Il 500 era montato sul monopiede rapido della
Adorama, il Podmatic (imitazione del Linhof
Monomatic). Come pellicola ho usato diapositive Fuji,
Provia 400F RHPIII per il 500mm e le basse
luci, Velvia negli altri casi. Non ho riportato
a casa capolavori, ma non è stata colpa dell’attrezzatura, che mi è parsa
equilibrata; quello che è mancato (oltre ad un manico migliore) è stato
il tempo per i lunghi appostamenti, principale ricetta di successo in caso
di foto di animali.
Tradizionalmente i circuiti namibiani, come in genere in Africa, si appoggiano
alla consistente rete di lodges. La qualità di
quelli che abbiamo incontrato è stata mediamente
molto buona. Due meritano un cenno.
Il Kulala
Tented Camp, presso Sossusvlei, è una piccola
struttura molto recente, a bassissimo impatto ambientale: non c’è distribuzione
dell’energia elettrica (ogni tenda, sono una decina in tutto, ha i suoi
pannelli) e persino i sentieri che conducono dall’unità centrale alle tende
sono naturali, in terra. Si parla di tende per modo di dire, naturalmente:
anche se il tetto è di tessuto, si tratta di ambienti
confortevolissimi, con uno stupendo panorama
sul deserto. L’accoglienza è stata (come peraltro quasi ovunque) professionale
e cordiale ad un tempo, certo molto agevolata dal fatto che gli ospiti sono
pochi (una ventina) e, soprattutto, che gli addetti sono molti di più.
Curiosa la liberatoria che si deve firmare all'arrivo, in cui si dà atto
di sapere che nel deserto abitano animali pericolosi come gli scorpioni.
Di impronta prettamente coloniale (ma mica
male, siamo onesti) l’inserviente che, visto a distanza il polverone sollevato
dalla vostra vettura nel deserto, si fa trovare dinanzi alla porta del lodge con un vassoio di asciugamani di spugna inzuppati
nell’acqua ghiacciata.
Dato il ridotto numero di ospiti, al Kulala Tented Camp si cena in un’unica tavolata, insieme al
direttore, che in occasione della nostra visita (hanno una rotazione trimestrale,
a quanto ho capito) era un namibiano di puro
sangue tedesco, che ci ha regalato, insieme alla moglie, l’esperienza di quello
che credo possa definirsi un tipico discorso da bar australe. D’accordo
il potere ai neri però… beh sì gli israeliani sono aggressivi però… dicono
che adesso in Namibia ed in Sudafrica c’è la
democrazia però... Gli stava andando anche discretamente bene, data la
voglia di relax degli astanti; forse troppo incoraggiato dalla mancanza d’obiezioni
ha però commesso il grave errore di sottovalutare la popolarità globale di Nelson Mandela.
Quando si è lanciato in un Mandela
dice dice ma in fondo è un terrorista anche lui,
qualche argomentazione ben a segno (di un francese la migliore: ma
quel Begin che tanto ammira non metteva
le bombe per l’Irgun?) come per incanto
lo ha convinto a concentrarsi sulla descrizione delle attrattive turistiche
dei dintorni.
Il lodge
in assoluto più bello che abbiamo incontrato è quello di Okonjima. La località
ospita due campi, a qualche chilometro l’uno dall’altro; noi (per puro caso)
siamo finiti al Luxury Bush
Camp. Il nome, indubbiamente piuttosto stupido, è l’unico punto debole che
sia dato riscontrare. I bungalows sono una favola: molto grandi e distanti
tra loro, di forma circolare, hanno un’area notte, un salottino, un grande bagno ed un’area armadio ricavati con grande
sapienza da un architetto dalla mano felicissima. I vari ambienti sono delimitati
da muri di forma irregolare ma che non si alzano oltre i due metri, lasciando
ben visibile per intero l'imponente tetto di paglia conico di fattura tradizionale.
Ma il vero spettacolo è un altro: il bungalow
non ha pareti; sul perimetro vi sono semplici fascioni
di tessuto, che si possono sollevare ed arrotolare. Dal letto, che è un poco
sopraelevato, non si ha più la percezione di essere in un bungalow, ma l’incredibile
sensazione di riposare direttamente immersi nella savana. Al tramonto antilopi
ed altri erbivori passano a pochi metri diretti all’abbeverata; se avete
avuto cura di prelevare dal frigobar quella bottiglia di spumante sudafricano
non poi così male l’effetto è completo. Purtroppo, guardando bene, ci si
accorge che il laghetto dove le bestie vanno a bere è stato creato
ad hoc; in più ogni bungalow ha un suo piccolo
abbeveratoio (peraltro mascherato benissimo, sembra una pozza naturale) intorno
alla quale saltellano uccellini di tutti i colori. Suvvia, peccato veniale.
Anche perché il curriculum ambientalista di Okonjima è assolutamente ineccepibile: è anzi sede
della Africat Foundation,
che si occupa della cura e della reimmissione
in natura dei grandi felini feriti, ammalati o detenuti in condizioni inidonee.
Per ottenere questo (non facile) risultato,
alla Africat
usano una strategia basata sulla gradualità. Il felino viene prima di tutto
curato in un’apposita clinica e rimesso in sesto
fisicamente. Che ci crediate o no, in questa fase il gattone, proprio come i suoi cuginetti europei, viene alimentato con i bocconcini della IAMS, uno degli
sponsor della struttura. Li hanno in sacchi grossi come quelli del cemento,
ma i bocconcini sono gli stessi, ci hanno detto. Dopodiché, ogniqualvolta
possibile, segue la rieducazione alla vita selvaggia mediante l’introduzione
in recinti progressivamente sempre più grandi, sino alle dimensioni di diversi
chilometri quadrati, ove possono imparare (o reimparare)
le tecniche di caccia, ed anche confrontarsi con la competizione di altri predatori progressivamente più grandi.
Ad Okonjima si ha tra l’altro l’occasione di seguire gli addetti quando
si recano a cibare i ghepardi che ancora dipendono dall’alimentazione fornita
dall’uomo. Si viaggia in una Land Rover completamente
aperta; i felini saltano sulla vettura per prendere il cibo dal ciotolone strategicamente situato nel cavo della ruota
di scorta, che è piazzata stile safari classico, in orizzontale sul cofano
motore. L’animale arriva quindi ad un metro o due dai visitatori, senza neppure
un parabrezza in mezzo. Nessun pericolo, dato che
si tratta di animali abituati al contatto con l’uomo, ma si comprende come
mai la visita sia vietata ai minori di 14 anni; un gesto inconsulto può
costare relativamente caro, anche se i rangers
sono armati.
I ghepardi che si trovano in una fase
successiva del loro addestramento non vengono
invece avvicinati, proprio per disabituarli al contatto con l’uomo; ne abbiamo
visto in distanza un gruppetto col naso schiacciato contro la recinzione,
che guardavano verso di noi con l’aria di gattini abbandonati. Un’altra tappa
d’obbligo ad Okonjima è l’escursione alla ricerca
del leopardo; non mi pare ci sia molto di genuino, ma nel suo genere vale
la pena. Si va in un’area ove sono introdotti alcuni leopardi che vivono
della loro caccia ma hanno ancora un radiocollare.
Il ranger sale in piedi sul cofano della Land Rover,
nel nostro caso uno splendido esemplare anni 70
color sabbia, brandendo con gesti molto studiati (deve essersi allenato sui
film di Harrison Ford)
un’antenna direzionale e scambiandosi informazioni via radio con un collega
sull’altra vettura, sempre sfoggiando modi molto cinematografici (presente
Air Force One?). Ci ha tenuto in ballo un’oretta avanti e indietro
nella savana, poi ci ha detto che alle 19 avremmo dovuto comunque rientrare per via del buio, ha alimentato
l’attesa, e guarda caso alle 18.55 l’avvistamento. Siamo arrivati davvero
vicinissimi al leopardo che non pareva per nulla preoccupato.
La ristorazione offerta nei lodges non è male, anche se la capitale offre, ovviamente,
qualche soddisfazione in più dal punto di vista gastronomico. Siamo stati
in un paio di ristoranti degni di nota. Al Joe's Beer House, un famoso
locale molto casual, con ampi spazi all’aperto e frequentato anche da molti
locali, abbiamo trovato notevoli grigliate di carne di zebra e di kudu. Più elegante l’Homestead, ove abbiamo cenato splendidamente con un
eccellente carpaccio di struzzo selvatico (niente a che vedere con quello
d’allevamento che si trova da noi) e una memorabile bourguignonne di selvaggina (antilope, coccodrillo e zebra. I più
attenti avranno intuito che non siamo vegetariani). La scelta di buoni vini
sudafricani è sempre più soddisfacente; sorprendente l’incontro, in un lodge in piena savana, con i prodotti della Count Agusta, una casa
sudafricana rilevata negli anni Novanta dal noto personaggio delle cronache
mondane nostrane. La fauna selvatica domina anche il campo dei souvenirs, con begli articoli di pelle di kudu e struzzo; si trovano anche molti articoli d’artigianato,
ma vengono per lo più dallo Zimbabwe. Si potrebbe
considerare la circostanza non molto rilevante, ma a voler essere pignoli
è più o meno come riportare un coltellino
svizzero da una vacanza nel Chianti.
Un punto debole di questo genere di
viaggi è certamente la scarsità di contatti con la realtà indigena, a meno
che qualcuno non si accontenti di considerare
tali i canti e le danze che nei lodges vengono
imbastiti per i turisti. Ad Okonjima, ad esempio,
cuochi e camerieri, prima di iniziare il servizio serale, si esibiscono in
un piccolo repertorio. Immagino che un vero estimatore di quel tipo di musica
troverebbe la performance deprimente, e per altri motivi anch’io, ma alla mie orecchie il risultato puramente sonoro non
è poi male. In verità, la mia principale preoccupazione è che la moda si diffonda:
non vorrei vedere il pizzaiolo della fida Pizzeria Portello, sotto casa nostra
a Genova, costretto a cantare O sole mio tra un calzone ed una
quattrostagioni per qualche comitiva di
pensionati dell’Alabama.
Per cercare di colmare la lacuna, abbiamo
dedicato l’ultimo giorno ad una visita della township
nera di Katutura, alle porte della capitale
Windhoek. Ci siamo fatti accompagnare da
un tizio che abita nella bidonville, ed il cui numero
di telefono si trova sulla guida Lonely Planet. E’ arrivato puntualissimo all’albergo con un
amico alla guida di una scassatissima Toyota marrone d’epoca incerta, mentre noi ci siamo
prodotti in una gaffe, a suo modo perfettamente in tema: lo aspettavamo davanti
alla porta dell’albergo senza considerare che mai gli avrebbero fatto varcare
il cancello del nostro quattro stelle, almeno
con la sua auto. Katutura venne creata a metà del Novecento dal governo razzista
sudafricano, con l’espulsione della popolazione nera da Windhoek propriamente detta. L’insediamento è molto
vivace, con mercatini in grande attività, animazione
ovunque ed anche (era domenica) una gran varietà di luoghi di culto tutti
molto frequentati, anche quando il sacro edificio si limita ad una tettoia
di metallo ondulato. E’ in qualche modo percepibile lo sforzo delle nuove
autorità namibiane di migliorare la situazione,
specie igienico sanitaria, di Katutura; alcuni
quartieri hanno poi assunto un aspetto pienamente cittadino, e la vox populi (tutto il mondo è paese) vuole che là risiedano
i nuovi leaders neri della politica namibiana, che non hanno abbandonato (anche per ovvi
motivi di immagine) la loro antica roccaforte,
solo rendendola per loro, diciamo così, meno spiacevole. La visita è andata
via liscia, anche nei luoghi più difficili, ove essere turisti è in qualche
modo motivo di imbarazzo; in conclusione del nostro
giro abbiamo visitato Penduka, una comunità di
donne prevalentemente disabili che vendono loro prodotti d’artigianato. Abbiamo
comperato tra l’altro una tovaglia scura
ricamata con figurine colorate; contrariamente a quanto accade alla maggior
parte dei souvenirs, sembra molto più bella
sulla nostra tavola di quanto non fosse lì. Gaffe finale al momento dell’acquisto:
essendo l’ultimo giorno non avevamo molto contante ed ho timidamente proposto
di pagare in dollari. L’africana, disabile o non disabile, mi ha guardato
con un po’ di compatimento e mi ha additato un adesivo
ocra, bianco e blu cui non avevo fatto caso: Don’t you
have a credit card, sir?
Desta certamente perplessità constatare come la maggior parte della popolazione nera,
ad anni di distanza dalla caduta del regime dell’apartheid, viva ancora in
bidonvilles, o comunque in condizioni difficili,
mentre la minoranza bianca approfitta di tutte le comodità di una città
moderna come Windhoek. La spiegazione, a quando
ci è stato dato capire, risiede in una saggia
decisione politica della leadership nera, che ha preferito non rendere la
vita difficile alla classe dirigente bianca, con espropriazioni od altro,
per non provocarne la diaspora: l’esperienza contraria è stata compiuta in
paesi vicini con risultati, a quanto pare, disastrosi per l’economia locale.
La Namibia, cui non mancano
(per gli standards africani) cospicue risorse
economiche (diamanti e turismo in prima linea) conta sulla difesa del proprio
ambiente, su uno sviluppo a lungo termine e sulla formazione di un classe
dirigente nera di qualità. La sfida è di quelle da far tremare i polsi, ma
i leaders namibiani
sembrano sapere quel che vogliono.
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