CESARE SERMENGHI

PROFILO BIOGRAFICO e riferimenti bibliografici essenziali.

     

 

Figlio di un maresciallo maggiore dei Carabinieri di origini bolognesi e di madre bivonese, Cesare Sermenghi nacque a Terralba ( CA ) il 25 ottobre 1918.

Visse i primi anni della sua infanzia in Emilia da lui sempre considerata la sua terra elettiva.

All’età di sette anni si trasferì con la famiglia a Bivona (AG) dove trascorse gran parte della sua vita.

Il suo arrivo in Sicilia non fu privo di traumi, infatti aveva dovuto lasciare gli affetti e i luoghi della sua infanzia per lui tanto rassicuranti ed inserirsi in un nuovo ambiente in cui veniva considerato dai suoi coetanei come il bambino snob, altero e ritroso che voleva mantenere le distanze. Tale infatti appariva sia per la sua timidezza, ma anche perché vestiva in modo curato o ancor di più perché parlava in un corrente italiano, in un paesino dell’entroterra siciliano dove a quell’epoca ancora molti bambini andavano scalzi e comunicavano rigorosamente in un dialetto locale.

Superate le prime difficoltà d’inserimento, entrò ben presto anche lui a far parte del gruppo dei pari e con loro divise i giochi  e ne accettò le regole seppur mantenendo un atteggiamento il più delle volte misurato.

Fin d’allora cominciò a manifestare il suo interesse per l’arte frequentando, in paese, egli ancora bambino, la bottega di uno scultore di tradizione neoclassica, Carmelo Cardinale, che avevea iniziato i suoi studi presso l’Accademia d’Arte dei Salesiani di Torino dove però non li ebbe a completare per motivi economici. In quella bottega avvertì le prime emozioni, prodromi delle sue esperienze artistiche, nell’osservare rapito l’opera d’arte che via via assumeva forma dalla materia grezza e  preso da un forte spirito d’emulazione, realizzò la sua prima scultura in argilla raffigurante un S. Antonio. Così Cesare rivive quei momenti in una delle sue pagine autobiografiche più palpitanti:  «Intorno agli anni Ventisette o Ventotto, ancora bambino, venni condotto a bottega dallo scultore Carmelo Cardinale, in un vicolo da corporazione medievale per maestri conciaiuoli, odorante di cuoio per via delle conche dove, in un guazzo di calce e di sommacco, si tenevano a macerare le pelli a turni d'un mese. Pelli di capra, di montone dal vello lungo e pure di vacca; per terra, agli angoli della strada, o stese ai muri ad asciugare dalla broda. E poi, mani al lavoro. Mani lunghe e nervose, agguantate a spatole da macello per raschiar via i peli; o nere di tannino, di uomini antichi, presi a battere come su tamburi flosci, il sale dai velli fiutati dai cani per il carniccio ancora fresco di sangue. E gli uomini, ad urlare il linguaggio d'assalto sugli sfiancati annusatori, vagliando di tanto in tanto gli spaghi attorno alla vita e alle gambe per non perdere gli sbrindelli delle stuoie di sacco, ove erano imbracati, umidi e pluviosi per l'acquitrino.

In quella atmosfera goiesca, impoverita peraltro dai primi freddi invernali, venni introdotto, ammantato e timoroso, con un mezzo saluto, dallo scultore, che in un vano di piano terra plasmava la creta per l'effige di un santo monaco con in braccio Gesù Bambino seduto su di un libro, che gli faceva da seggiola. In mezzo alla stanza, mucchi di creta. Odore di cuoio, anche là; odore di terra bagnata. L'artista mi diede una foglia di vite da studiare, chiedendomi con fare gentile se io conoscessi il disegno. Balbettai qualcosa. Poi mi avvicinò una matita e un foglio di carta, ove cominciai ad abbozzare la foglia. Mi scusai un pò. Lo scultore comprese: l'emozione mi aveva bloccato. Volli provare con la creta: altro esame da non credere. Ed io, che pur da bambino, ritenevo di saper disegnare, mortificato, mi misi a seguire il maestro nell'opera di ritocco, che egli aveva intanto ripreso sull’ argilla umida, attorno al Gesù, con tagli rapidi e certi.

In quei movimenti, da me vagliati anche per grazia del luogo che mi ospitava, il mio studio infantile, che pur recava in sè una certa misura di equilibrio, trovò subito la risposta di riposo, meravigliato che si potesse verificare la creazione dal limo per mano d'un uomo, con mio immenso stupore, nella confidenza di un gesto con un tocco di pollice o di spatola. Niente veniva reso al caso, fermato alla parte che nega l'evento.

Ciò che non era, avveniva, nel punto chiave di ogni accadimento, per divenire, occhio, mano, brano straordinario di una vita incorporata nel mio intimo paesaggio di piccolo sognatore.

Rubai presto il mestiere. Perchè dopo un anno, di tirocinio, pur continuando a seguire la scuola. mi misi a plasmare santi di creta per i ragazzi. Nascevo ad una nuova stagione, che dal giuoco infantile mi portava a riempire quaderni di schizzi fino a tarda notte: immagini affollate di putti, o di monaci tonsurati come principi tartari, inquadrati in ovali, che certo ancor oggi mi portano all'euritmia facciale di un S. Antonio, o di un S. Francesco, sorpreso che anche io potessi creare dal mio nimbo acerbo tante santificate presenze, vigili poeticamente per una forza capace di avviare l'argilla al mana del feticcio, così consacrato.»

Da adolescente il suo carattere critico di spirito libero e la sua vivacità sia fisica che d’ingegno, lo misero in conflitto con i sistemi pedagogici della scuola di allora, che si fondavano su schemi rigidi di trasmissione del sapere e non tenevano conto della personalità dell’alunno, allora inteso non come soggetto da educare (educare dal latino educere: tirar fuori, in questo caso le sue potenzialità), ma come contenitore entro cui calare ex cathedra un’enorme mole di contenuti.

A quel tempo era questa la scuola, temprante per i più, ma altamente frustrante per un’intelligenza certamente superiore e fortemente critica.

Tuttavia lo stupore deluso di chi insegue i sogni a dispetto di una morale corrente, la scontentezza e la voglia repressa di ribellione, si tradussero ben presto in lui in un’immagine: il libro, prima come mezzo per un riscatto nei confronti di se stesso, della famiglia, degli amici, in seguito, nell’età matura, come puro godimento intellettuale a cui attingere preso sempre da un’enorme sete di conoscenza.

Con uno studio intensivo di pochi mesi e un esame suppletivo riuscì a superare brillantemente e da solo gli insuccessi scolastici, tanto da meritare l’encomio solenne dell’allora capo d’istituto.

Nell’anno scolastico 1936-37 conseguì a Palermo l’Abilitazione Magistrale, un anno dopo , partito per il servizio di leva, frequentò a L’Aquila il corso per allievi ufficiali e quasi contemporaneamente sostenne con esito favorevole il concorso come cancelliere.

Ma i sogni, le aspirazioni e le attese dei suoi vent’anni ben presto dovettero fare i conti con l’evento più tragico in assoluto: la guerra, che oltre a lui vedeva interessati gli altri tre fratelli : Salvatore, Silver e Umberto, in un precipitare di chiamate alle armi e partenze dolorose; l’unico fratello a non partire per il fronte fu Emilio, perché ancora troppo giovane.

L’11 giugno del 1940 venne inviato con il grado di sottotenente e successivamente in qualità di tenente  a combattere con il 33° Reggimento Fanteria Divisione “Livorno”, prima lungo la frontiera Alpino-Occidentale, poi dal 42 al 43 nello scacchiere del Mediterraneo. Con lo sbarco degli Americani fu fatto prigioniero nei pressi di Gela, ma riuscì fortunosamente a scappare e fra bombardamenti, distruzioni e incendi nell’autunno del 43 raggiunse il suo Reggimento a Cuneo.

Dopo l’8 settembre, senza più sapere da chi o da che cosa dipendesse ormai il suo destino, lui come tanti Italiani, visse sulla propria pelle oltre che lo sbando dell’esercito, anche lo sbigottimento di un popolo che, ormai dilaniato e spaccato in due dalla guerra civile, era alla ricerca di un’identità nazionale.

Decise di farsi assegnare al Tribunale Militare di Bologna dove si ricongiunse con la famiglia paterna di origine e con i fratelli che combattevano a nord della linea gotica.

Nella terra della sua infanzia maturò tutti i motivi per il riscatto morale e civile da lui autenticamente cercato, operando nella Formazione Partigiana 66° Brigata di Bologna fino a conclusione della guerra, con la stessa passione degli uomini di punta della sua generazione (uno fra i tanti: Sandro Pertini).

Il non volere ricordare questi anni caratterizzò il suo tempo futuro perché troppo profonde erano le ferite: “e avevo bisogno di bagnare ricami di ferite con tutta la pena della pioggia sull’ala dell’angelo caduto. Oh dagli occhi dei compagni uccisi che angoscia di cristallo! Il tempo usciva dalle case di rifugio senza smarrire addii neri, nemmeno uno che fosse almeno un sogno!”. ( “Aprile 1944” da “Ragion d’essere” Cesare Sermenghi editrice Guanda, Milano).

Per tale motivo negli anni successivi accolse con totale indifferenza i vari riconoscimenti ufficiali quali il Conferimento della Croce di guerra a firma del Gen. Massaioli, o l’Attestato al Patriota a firma del Comandante Supremo Alleato Gen. Alexander, o ancora la promozione a Primo Capitano ……etc.

Alti fregi, quali testimonianze di un passato eroico, ma al tempo stesso simulacri della grande disfatta del suo animo costretto a fare i conti con ciò che aveva sapore di morte e distruzione e come tali da lasciare ingiallire in un cassetto per essere dimenticati.

 

    

                   

Visse a Como gli anni del dopoguerra, in una città provata dai bombardamenti, portandosi dietro il sapore acre dei ricordi “Andavo dove erano i muri diroccati per sentirmi esistere fino all’ultima maceria, le strade avevano ancora alberi schiacciati dai cingoli d’acciaio e c’era un lungo pianto nell’occhio aperto del girasole. Sentivo, talvolta, le pietre solitarie, vibrare di nascite metalliche di rose di cristallo, questa lentezza nell’essere immanenza che segna l’animo a punta di diamante per la sua vita transitoria” (“Tanti salici nel vento” Cesare Sermenghi da “Ragion d’essere”, editrice Guanda Milano).

Ma finalmente arrivò per lui il tempo del cuore e dei grandi affetti: sposò Maria, la donna di cui era innamorato fin dagli anni dell’adolescenza e da lei dopo qualche anno ebbe due figlie: Anna e Valeria da lui sempre amate, cresciute con tenerezza infinita ed educate fin da piccole ad un’estrema sensibilità poetica nel credere ai sogni senza per altro venir meno a tutti gli stimoli della ragione necessari per un giusto equilibrio sull’analisi degli accadimenti nelle loro peculiarità.

Trasferitosi da Como in Sicilia ebbe modo di dedicarsi ad un lavoro sottile, attento e silenzioso di crescita politica e culturale studiando, scrivendo, confrontandosi con il folto gruppo d’amici che amava incontrare nei numerosi incontri conviviali.

Pensatore senza tessera e senza guinzaglio, condivise l’ideologia marxista non rinunciando mai alla tutela gelosa della propria individualità, ma ne divenne, in tempi ancora non sospetti,un critico irriducibile definendola una dei più grandi bluff della storia.

Amava vivere appartato, per ritagliarsi il tempo del pensare, ma sapeva ugualmente godere del contatto con la gente verso cui non cessava di dimostrare la propria attenzione e la propria estrema disponibilità, sia che si trattasse della persona semplice, che caduta nelle intricate maglie della giustizia gli chiedeva un consiglio, sia dell’amico a cui apriva il suo animo e che amava frequentare anche solo per parlare piacevolmente.

Coltivava con tenerezza i suoi grandi affetti a partire dalla moglie, alle figlie, agli animali che popolavano la sua casa, alla maniera di Konrad Lorenz. Faceva il cancelliere in Pretura per rispondere ad un bisogno di vita, ma si definiva un “cavallo da corsa” costretto a fare la bestia da soma in quanto il lavoro lo allontanava per il maggior tempo della giornata dai suoi veri interessi culturali.

Personalità forte, intrisa di solarità e misticismo, passione inquieta e sensibilità profonda, non amava parlare di sè tranne che in una visione prospettica del sè quale veicolo per cercarsi e cercare l’altro. Fu sempre proteso, egli nuovo Diogene, verso l’uomo del suo tempo, con lo stupore melanconico, quasi rassegnato, di chi cerca di leggere nel mistero del mondo la sua ragion d’essere in un eterno monologo dell’io, ma che al tempo stesso è costretto a piegarsi disilluso, come sotto un enorme macigno, alla solitudine del suo presente storico.

Insofferente verso la mediocrità e i falsi perbenismi della sbiadita borghesia gattopardesca, seppe essere aspro e tagliente nell’attaccarla con veemenza verbale ironica e spietata.

Amava i giovani verso cui proiettava tutto il suo entusiasmo; con loro parlava di arte, di poesia, di accadimenti sociali, di religione. Li stimolava a vivificare e ad approfondire i loro interessi e le loro potenzialità di tipo umanistico o etico caricandoli di tutto l’entusiasmo necessario per uscire dall’appiattimento del quotidiano. E fu proprio con il folto gruppo di giovani sia dei diversi Comuni dell’agrigentino sia del trapanese, ma anche di Gela, Caltanissetta, Enna e i molti intellettuali tra cui il sociologo Danilo Dolci o il poeta Mario Gori, che iniziò un fecondo dialogo artistico letterario, che, alla fine degli anni sessanta, preparò il terreno per la nascita a Bivona de “Il Pegaso”, centro culturale di cui fu fondatore e animatore.

Convinto che la cultura di un’epoca debba far parte del patrimonio della coscienza collettiva, egli cercò sempre di portare l’arte anche fra gli uomini dal sorriso aspro e dalla fronte alta, nati per portare il basto, contadini, operai o marinai che fossero, uomini dalla scorza punica, ma che sanno essere sinceri e di portarla nei vicoli dove il muschio testimoniava la porta chiusa per chi era costretto a disertare per ciò che altri gli avevano negato.

Con “Il Pegaso” Cesare riuscì ad organizzare concerti con l’intero corpo d’orchestra del Teatro Massimo di Palermo, ad inaugurare le prime manifestazioni teatrali con Dario Fo e la messa in scena a Bivona del “Mistero buffo”. Diede vita a collettivi di artisti sia pittori che scultori che poeti di cui promosse e presentò, da buon mecenate, innumerevoli opere. Organizzò recital di poesie e rappresentazioni teatrali, ma divenne anche punto d’incontro di un folto numero di scrittori siciliani del Sindacato Nazionale Scrittori di cui anche lui faceva parte, quali : Antonino Cremona, Marco Bonavia, Federico Hoefer, Santo Calì, Nat Scammacca…. Ebbe fecondi rapporti d’amicizia anche con Leonardo Sciascia, Ignazio Buttitta, Renato Guttuso, Ugo Attardi, Rafael Alberti, Maria Teresa Leon, Davide Maria Turoldo… interlocutori tutti di una larga fetta della cultura italiana del nostro tempo.

“Uomo dai molteplici interessi e poeta con una capacità di essere dentro le cose e alle persone drammaticamente partecipe di esse e dei loro mutamenti, attento a scrutare le vie dove passano le gazze sul monte de Sicani, dove ad ogni pioggia salgono monete di simbolo fenicio” ( presentazione di Guanda Editore da “Ragion d’essere” pag. 7).

 

 

 POETA:

Per Guanda Editore di Milano, nel 1972, pubblicò il volume dal titolo “Ragion d’essere” (prefazione di Maria Teresa Leon e lirica di presentazione di Rafael Alberti), una edizione speciale della stessa opera con litografia di Ugo Attardi, nonché una sua prima silloge presso la Cooperativa Editoriale del Sindacato Nazionale Scrittori, Di Maria Editore, Catania.

E’ presente in numerose antologie poetiche:

Antologia dei poeti siciliani, Edizione Il Vertice Libri, Palermo;

Presenza nella poesia degli anni Ottanta, Rosso Fenice, Collettivo dei poeti, ediz. Il Vertice Libri, Palermo;

“Il Messaggio”, a cura di Federico Hoefer, dell’Anic di Gela;

Antologia Poetica, Guaraldi Editore;

Bottega del Cronion, Sciacca.

·         Le sue poesie sono state tradotte in inglese per “Selected passages from international authors”.

 

 

 COMMEDIOGRAFO

Fu autore delle seguenti opere teatrali:

“Viaggio nell’anima”;

 “Contestazione”;

“Clio”;

riduzione musicale di “Ierma” di F.G. Lorca

 

ANIMATORE DI MOVIMENTI LETTERARI:

“Impegno 70” a Mazara Del Vallo;

“Antigruppo 73” a Catania;

“Il Pegaso” a Bivona del quale fu fondatore;

curò la rubrica archeologica sulla rivista “Nuovo Sud”.

 

SCRITTORE D’ARTE

Promosse le inclinazioni artistiche di numerosissmi pittori e scultori ( pittore e scultore egli medesimo) allestendo cataloghi e depliant di presentazione nonché prefazioni di opere poetiche e letterarie.

 

SCRITTORE SAGGISTA

Trattò sulle seguenti opere:

Il dramma dell’incomunicabilità e della crisi semantica, intorno al “Malinteso”di Albert Camus;

Pedagogia e auxologia.

Nel 1981 pubblicò per il Vertice Libri Editrice di Palermo un primo volume di studi di archeologia dal titolo “Mondi Minori Scomparsi” riflettente l’analisi archeologica e storiografica delle antiche sedi che diedero origine ai Comuni di Alessandria della Rocca, S.Angelo Muxaro, Bivona, Santo Stefano Quisquina, Prizzi, Castronovo e Palazzo Adriano.

Nel 1989 pubblicò per conto dell’Assessorato ai beni culturali del Comune di Bivona un secondo saggio di archeologia dal titolo “Il passato e le sue risposte” Sarcuto Editrice AG.

A Bergamo, città in cui visse gli ultimi anni della sua vita concluse il suo lungo percorso di ricerca interiore con la pubblicazione nel 1995 del volume “Dio ed Io”. Il testo inteso come metafora e risonanza di sé irrisolta, segna l’approdo del lungo cammino riflessivo del suo animo, attraverso interrogativi e risposte, certezze e dubbi, paradossi e misteri, riconducendo alla perenne domanda: “Chi Dio? Chi io?” in un continuo dialogo tra l’uomo e il Tutto.

Ha come figura centrale Cristo con il suo sacrificio già prestabilito dal volere Divino e si snoda attraverso un angolo visuale di controparte ebraica o romana, mai prima considerato se non sotto l’aspetto puramente canonico dei Vangeli. Il tutto in uno stile letterario fortemente poetico ed estremamente colto da scrupoloso ricercatore.

Sempre preso da una vivacità vulcanica nell’indagare su tutti i campi, aveva iniziato un nuovo progetto filologico sulla genesi e la struttura dei numerosi vocaboli di origine araba presenti nella lingua italiana o più precisamente nel dialetto siciliano, ma ormai provato da una lunga e insidiosa malattia, non riuscì a portare a termine il lavoro già iniziato.

Morì nella sua ultima dimora di Verdello (BG) il 13 Luglio 1997.

 

Profilo biografico a  cura delle figlie  Anna  e Valeria