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Il nonno di Vito Zita

di Vito Zita

Questi sono i racconti di mio nonno bersagliere in Africa nel 1940.
Ho solo questi perché degli altri non ho mai pensato di scriverli, ero troppo piccolo (dagli 8 ai 13 anni).
Racconti che vivevo come le favole, erano storie di battaglie di spari, di pericoli quelli di guerra.
Racconti di lotta per la sopravvivenza, di dolore e di tristezza quelli sulla prigionia.
Solo dopo, quando sono diventato più grande le storie raccontate all'infinito hanno avuto un significato diverso ed hanno attirato la mia attenzione di appassionato di cose militari, svanendo definitivamente da quella aurea di favola nella quale per molti anni li avevo confinati.
Mio nonno, caporale dei bersaglieri, decorato due volte al valore militare e una per le ferite riportate (schegge di granata), è stato in Italia nel 1936, nel 1938, nel 1940 e nel 1945. Le occasioni in cui ha generato 4 figli su cinque. L'ultimo è del 1954.
Durante gli anni di guerra (1935-36; 1936-39; 1940-41) è sempre stato in combattimento. Campagna d'Etiopia, campagna di Spagna, campagna d'Etiopia. Nel 1941 con la resa dei territori dell'Impero, fu fatto prigioniero e dopo un anno di internamento in Etiopia fu trasferito per un campo di prigionia in India dal quale ritornò in patria alla fine del 1944.

La situazione è sempre stata a nostro sfavore. Avevamo poco da mangiare, poco da vestirci e poco per combattere. Ricordati che io come bersagliere mi muovevo in bicicletta e su quelle strade, se c'erano, ti rompevi la schiena ad andarci oltre a qualcos'altro. In combattimento avevamo solo armi leggere e ci trovavamo di fronte ai loro carri armati. La paura di morire schiacciati era più forte delle pallottole, eravamo giovani e terrorizzati. E correvamo come il vento per trovare un riparo sempre migliore. La parte peggiore erano i combattimenti sulle alture, noi all'inizio dovevamo attaccare e ci trovavamo in stato di inferiorità. Io avevo il moschetto e loro erano al riparo e ci colpivano come piccioni. Alla fine sempre sulle alture fummo noi a difenderci. Io avevo sempre il moschetto e loro ci assaltavano a colpi di cannone e mortaio. E ci massacravano. Sono state tante le azioni alle quali ho partecipato. Avevamo in dotazione moschetto e 20 colpi a testa, una volta finiti bisognava che ci portassero i rifornimenti. Ma così era anche per il rancio, per i feriti, per gli altri materiali. Ci doveva essere sempre qualcuno che ti doveva venire a portare qualcosa, perché non avevamo nemmeno il minimo indispensabile. Era raro avere un collegamento radio con i vari posti avanzati (dove mi trovavo io), gli ordini venivano scritti a mano e mandati con messaggeri. Quattro volte su cinque venivano uccisi e noi eravamo isolati. Non eseguivamo gli ordini, cercavamo di salvare la pelle. Tanti miei commilitoni sono morti non per compiere atti eroici, ma per cercare di uscire dalla situazione insostenibile del fuoco nemico e ci scagliavamo su di loro per riuscire a fuggire, non per vincerli. Non eravamo coraggiosi che attaccavano il nemico, eravamo in preda al terrore di morire. E sono stati tanti gli amici a morire. Soprattutto per mano dei sudafricani e degli indiani. Gente dura e cattiva, che non faceva prigionieri. Ti sgozzava e ti mutilava senza che nessuno dicesse niente. E niente è stato detto dopo. Da nessuno.
Gli anni della prigionia sono stati terribili. Non avevamo niente da mangiare se non l'immondizia degli inglesi e ci uccidevamo fra di noi per una buccia di patata o per una scorza d'anguria. Io me la sono cavata perché sapevo fare il falegname (a cinque anni ha cominciato come garzone di bottega da un falegname al suo paese) e gli inglesi avevano bisogno di quelli come me per costruire tutto. Ma la cosa finiva li. Per mangiare bisognava sempre lottare. Non esistevano più né amici né commilitoni.
Ho lasciato l'Italia dove tutti erano fascisti. Chi per necessità chi per convinzione. Quando sono rientrato da civile e non da militare (nel 1944 alla fine della prigionia) anche se avevo ancora la divisa, o quel poco che ne rimaneva, ho trovato tutto cambiato. Gli unici fascisti eravamo noi reduci di guerra, tutti gli altri erano diventati all'improvviso amici dei vecchi nemici. L'unica cosa che non cambiò è che queste persone lo facevano sempre o per necessità o per convenienza. La convinzione era di pochi. Anche se avevo vissuto quasi quattro anni con gli inglesi ed avevo imparato ad accettare la nuova realtà, mi ha fatto male vedere quelle scene o sentirmi accusare di colpe ingiuste. Io ho deciso di fare il militare volontario perché era l'unico modo di avere una paga migliore, la povertà è sempre stata di casa nella mia famiglia. I grandi cambiamenti del fascismo da noi si vedevano poco o per niente in termini di maggiori soldi. Si hanno costruito le strade, le fogne, i ponti. Hanno fatto le bonifiche e costruito case. Ma mio padre (il padre di mio nonno) continuava a guadagnare trenta lire al mese. Io come garzone di bottega avevo tre soldi al giorno (si tratta di tre centesimi di lira) ed avevo già 11 anni. Alla fine decisi di arruolarmi come volontario. La paga era buona, avevo da mangiare e riuscii anche a sposarmi.

Questo è un breve condensato dei suoi ricordi, senza un filo logico conduttore né ordinati in ordine cronologico. Sono state più o meno le ultime sue parole quando io a 18 anni invece che stare solo ad ascoltare, come quando ero bambino, cominciavo a fare domande su domande. Da piccolo mi prendeva sulle sue ginocchia per raccontare le sue storie, io le vivevo davvero come favole, lui magari si divertiva a raccontarle. Dopo no. Quando cominciavo a fare domande, era visibile la sofferenza sul suo volto e all'improvviso i suoi racconti si sono interrotti.

Nonostante tutto, sono storie che io ricordo ancora a memoria, che non potranno più uscire dalla mia mente. Che sono servite anche a darmi alcune certezze e la consapevolezza che non tutti sono stati cattivi. C'era bontà e umanità anche in chi aveva deciso di avere un moschetto fra le mani invece di una zappa o una falce. Racconti che mi accompagneranno per sempre.