I partiti

Si può dire che i partiti siano l’ultima delle certezze ottocentesche a crollare: ricostituitisi in Italia a partire dal 1943, essi occupano un posto fondamentale nella politica del dopoguerra per quasi cinquant’anni.

In questo periodo il legame tra i cittadini e i partiti si stabilisce prevalentemente su di un piano ideologico, e forte è la fiducia degli elettori in coloro che ritengono degni rappresentanti all’interno delle istituzioni. Tuttavia, nel corso dei decenni, questo rapporto viene gradualmente modificandosi; esso si fa sempre più fragile e riceve un colpo mortale agli inizi degli anni Novanta.

Già dalla fine degli anni Settanta i partiti si rivelano "sempre più espressione di una gestione politica e amministrativa legata a una diffusa inefficienza e al mantenimento di rapporti clientelari" 4. Di fronte alle esigenze di rinnovamento manifestate da parte dell’opinione pubblica e rese indispensabili dai notevoli cambiamenti sociali, i partiti si mostrano sempre più legati al sistema della partitocrazia, non intendono cioè abbandonare il pieno controllo sulla struttura amministrativa, economica, sociale e culturale del Paese. Il clima generale di insofferenza si manifesta con una crescente astensione dalle consultazioni elettorali.

È questo un fenomeno nuovo per la politica italiana, caratterizzata fino agli anni Novanta da un’affluenza alle urne e da una partecipazione alla vita politica che aveva pochi paragoni nelle democrazie occidentali. Il radicarsi del partito del non voto ha diverse ragioni, non ultima quella del passaggio, sia pure parziale, dal sistema proporzionale a quello maggioritario 5. Questo sistema, infatti, affievolisce il profilo ideologico a vantaggio di quello programmatico ed esalta la funzione di mediazione (o di compromesso) della politica. In un corpo elettorale, che aveva nella contrapposizione ideale una sua peculiare caratteristica culturale, prima ancora che politica, ciò ha prodotto una reazione di rigetto.

Quella dei partiti italiani è stata in definitiva una vera e propria crisi d’identità, ancor più grave perché maturata in situazioni drammatiche. Nel 1992, infatti, parte dalla Procura di Milano una lunga serie di indagini (esemplare il lavoro svolto dal pool milanese, cosiddetto di Mani Pulite) che portano a smascherare un sistema di corruzione della politica italiana, fondato sulle tangenti e perciò detto Tangentopoli, che coinvolge amministratori pubblici, segretari di partito, uomini politici, imprenditori e finanzieri in un giro di denaro stimato di circa 10mila miliardi di lire l’anno. Lo scandalo di Tangentopoli conduce alla disgregazione del Pentapartito (un’alleanza fra DC, PSI, PSDI, PLI, PRI), alla scomparsa o alla scissione di numerosi partiti tradizionali fra cui la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista.

Dal terremoto che si abbatte sulla politica italiana trae vantaggio il Movimento Sociale Italiano che, forte di una sostanziale estraneità a Tangentopoli, e, per molti aspetti, allo stesso sistema dei partiti italiani, tutti fondati sulla discriminante antifascista, raccoglie gran parte del voto di protesta. Per accreditarsi poi dinanzi all’elettorato conservatore come alternativa praticabile alla sinistra, il segretario, Gianfranco Fini, porta avanti il processo di rinnovamento che trasforma il M.S.I. in Alleanza Nazionale. In realtà, accanto a significativi cambiamenti, permangono forti ambiguità nell’identità del nuovo soggetto politico, tant’è vero che, nonostante l’accentuata caratterizzazione dei militanti missini, le reazioni interne rimangono alquanto circoscritte e solo una sparuta minoranza rompe con Fini.

A sdoganare Alleanza Nazionale contribuisce però, più di ogni altro fatto, la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi. L’imprenditore milanese il 26 gennaio del 1994 dà vita ad un suo partito, Forza Italia, che nelle elezioni di marzo diviene di colpo il primo partito italiano, con il 21% dei voti. È Berlusconi a promuovere quello schieramento di centro destra che porta di colpo Fini e il suo partito al governo della Repubblica italiana nata dalla Resistenza al nazifascismo.

Le conseguenze dell’iniziativa politica di Berlusconi sono travolgenti rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto allo stesso modo d’essere della politica e ai meccanismi di creazione del consenso.

Silvio Berlusconi costruisce il suo rapido successo politico sull’uso massiccio dei tre principali network televisivi privati di sua proprietà, sbaragliando in questo modo macchine elettorali perfettamente organizzate e a lungo collaudate.

È un segnale dell’importanza assunta dal sistema televisivo nel nostro paese e allo stesso tempo è la dimostrazione che il partito, non più fondato sui riferimenti ideali, può divenire una merce da vendere e la politica un’operazione di marketing.

L’impoverimento che ne deriva e tanto forte da mettere in difficoltà lo stesso sistema democratico e da giustificare, se ce ne fosse bisogno, la richiesta di un improrogabile rilancio delle motivazioni ideali.

Nel vuoto che si è venuto a creare si sviluppano anche iniziative dirette a sostituire i grandi ideali di un tempo con quelli, purtroppo sempre latenti, della xenofobia, del razzismo e degli egoismi locali, che hanno originato e alimentato il movimento separatista della Lega Nord. Questa forza ha saputo radicarsi nelle aree più industrializzate del Paese, sfruttando la crisi dei partiti tradizionali.

Crisi da cui si salva con una revisione ideologica e col cambio di nome e simbolo il Partito Comunista Italiano. Il passaggio da PCI a PDS, di cui è protagonista Achille Occhetto, allora segretario del partito, non è solo un’operazione dettata dal calcolo politico: è lo specchio di una mutata situazione internazionale e italiana, di un cambio del pensiero e della mentalità non solo di intellettuali e uomini di partito, ma anche della base.

Per comprendere a fondo la storia del PCI, bisogna innanzitutto analizzare ciò che costituiva la sua base culturale: il marxismo.

 

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