Profili: ALBERTO BUCCI


Albertone

di Gianfranco Civolani - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni" - Ed. Tempi Stretti, 1996

 

Ufficialmente quel decimo scudetto per me nasce quando telefono a Gigi Porelli e lui mi chiede se io al posto suo confermerei o meno Mauro Di Vincenzo. Ma sì, dico io, perché no. Io invece credo proprio di no, dice lui, e chiamami stasera che ti faccio sapere. Richiamo e ancora lui mi interroga: insomma confermeresti Mauro o no? Ma Gigi, non mettermi in imbarazzo. Guarda che dall'imbarazzo ti tolgo subito perché prendo Bucci, anzi l'ho già preso. Questa telefonata è datata millenovecentottantatré e così Alberto Bucci rientra dalla porta principale nella sua Bologna, rientra in pompa magna dopo esserne uscito non proprio gloriosamente e sull'altra sponda. E qui mi scuso con l'interessato se una volta ancora cito un certo episodio e sono anche costretto a ricordare una cosa che Alberto si porta dietro fin da quando è bambino. Dunque in Fortitudo officia Dido Guerrieri e il suo assistente è quel fanciullo prodigio, un biondino che claudica per via di una dolorosa malattia infantile, un biondino prodigio perché da qualche anno mi raccontavano che in una qualche società minore Albertino era stato così bravissimo. Bene, in Fortitudo i nuovi capi (l'editore Luciano Conti e il suo grande amicone Paolo Moruzzi) decidono di cacciare il Dido e la patata torrida tocca proprio al suo vice. Sfiga massima, all'ultima partita (decisiva per la salvezza) tale Paolo Rossi (che non ha niente a che vedere con Paolino Pablito) scaglia un siluro da metà campo e condanna la Effe. Uno sfigato, l'Albertino, pensiamo e scriviamo. E naturalmente non gli rinnovano il contratto e lui deve ricominciare da capo. Ma fa in un baleno a rifarsi una verginità. Rimini e Fabriano sono i suoi nuovi trampolini, un successo e una promozione via l'altra e appunto Gigi Porelli prende a pretesto un suo insanabile contrasto con Di Vincenzo per convocare a corte l'Albertino nel frattempo diventato semplicemente Bucci tout court. Il resto è storia, anzi leggenda. Nell'ottantaquattro il decimo scudetto, quello finora più memorabile, quello della stella, quello confezionato da Brunamonti e Van Breda Kolff dietro e poi da Villalta, Bonamico, Binelli e Rolle e da altri assi e tre di briscola. Ma l'anno dopo una serie inenarrabile di contrattempi si abbatte sulla Virtus neoscudettata e il rapporto fra Bucci e il Dux prima si incrina e poi irreversibilmente si sfilaccia. D'accordo, mica si può restare separati in casa quando è così facile dividersi. Bucci va a Verona e poi a Pesaro. Torna a vincere qualcosa e supponiamo che a Bologna un giorno o l'altro ci tornerà di sicuro, perché per esempio la Fortitudo una buona volta avrà pur soldi e filosofie vincenti. E invece Albertone torna in Virtus, perché il novello alfiere della V nera è Alfredo Cazzola, un uomo che da ragazzino giocava in cortile o giù di lì con Albertino, Alfredo Cazzola di un paio d'anni più giovane, ma targato Bolognina come il biondino. Com'è Alberto Bucci alle soglie dei cinquant’anni? E un coach molto speciale. Non gradisce circonfondersi, voglio dire che rifugge la ridicola prosopopea tanto cara a certi suoi colleghi. E un uomo che in squadra vuole uomini e che soprattutto adora parlare agli uomini. Non gli interessa fare il padre-padrone o il tiranno o il sergentaccio o cose di questo genere. Chiede stima e amicizia, esige un rapporto diretto e leale, vuole in squadra gente cristallina e parla chiaro a tutti coloro che gli vivono vicino. E buon cattolico, adora la famiglia (la moglie è romagnola di Rimini), ha un buon e meritato conto in banca e raramente esce dai gangheri anche se in campo è molto reattivo e spesso incazzereccio. Gli piace anche vestire un po' fuori dalle righe, leggi giacche fosforescenti e cravattone multiuso. Ha rapporti buonissimi e vivibilissimi con la stampa locale e di fuorivia, odia parlare sotto metafora, non rifiuta le responsabilità, dichiara di voler sempre vincere, ma porta anche avanti la cosiddetta cultura della sconfitta perché - afferma giustamente - guai a dimenticare che in campo ci stanno pure gli altri. È anche uno di quegli individui che sotto le feste di Natale ti incrociano e ti fanno mille auguri, a te e alla famiglia, e il contrasto stride con coloro che sono pulviscoli e credono di essere dei colossi ed è già tanto se ti salutano o ti allungano distrattamente la mano sinistra. Io Albertone Bucci lo voglio immortalare avvolto in una polvere di stella. Porellone era morso dalla tarantola, altri piangevano di gioia, Albertone disse: ringrazio chi ci ha voluto bene, chi ci ha lasciato lavorare e chi ha diviso con me questa splendida stagione. Albertino-Albertone è un coach fallibile come tanti. Ma se sbaglia, io faccio finta di non accorgermene perché con lui non si può e non si deve. E poi basta con quelle storie sulle sue disgrazie infantili. Per me Albertino-Albertone cammina veloce come il vento, anzi vola.  

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