Profili: DAN PETERSON


Big Nano

di Gianfranco Civolani - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni" - Ed. Tempi Stretti, 1996

 

Improvvisamente Gigi Porelli annuncia urbi et orbi che il signor coach sarà targato Usa, punto e basta. Coro unanime: ottimo e abbondante, ma come si chiama e chi è? Si chiama Peterson, sì, pare proprio Peterson, viene dal Cile e lui in persona vi spiegherà se stesso. In effetti era accaduto che il Dux non ne voleva più sapere dell'italianissimo Nico Messina e si era rivolto là, molto aldilà. Gli avevano subito proposto Rollie Massimino, un paisà molto accattivante e intrigante. Ma poi quel Massimino aveva tirato indietro il sederino e allora ecco Daniele Lowell Pedersen che in Illinois avevano trasformato in Daniele Peterson detto Dan. Ma il Cile, cosa poteva mai entrarci la Cordigliera delle Ande con il sapore e il sapere yankee? Bene, arriva Daniele e io subito ci faccio una battutina un po' scontata, Daniele nella fossa dei leoni. Andiamo avanti e vediamo chi è il Carneade. Terrificante, un omarino microscopico che si presenta acchittato come Timberjack. Terrificanti i capelli lunghissimi a paggio, terrificanti le bragacce a quadracci, terrificati le camicie e le scarpe e i concetti, ma sì, quella rivoluzione annunciata sulla pelle dei lasagnoni che magari avrebbero presto fatto la forca al Little Dan. Ecco, l'omarino racconta e si racconta. E lasciatelo un po' lavorare, voi brutta gente, tuona il Dux. E Little Dan racconta di essere nato a Evanston, periferia di Chicago, e di avere accettato un bel dì di essere spedito in missione per spezzare il pane della sua piccola scienza a Santiago del Cile. Poi da quelle bande ne erano successe di tutti i colori, molto meglio tagliar l'angolo in tempo, sai mai. E l'omarino parla correttamente in buon castigliano e dice che presto e bene imparerà tutto dei nostri usi e costumi e ci invita a verificare come lui lavora, due volte al giorno e lavoro duro, quando mai si è visto un professionista che lavora tenero? Il resto è storia, ma vorrei anch'io raccontare un po'. L'omarino viene portato per mano da Porelli il quale gli insegna a vivere, e siccome l'omarino è di intelligenza sveglia e ha una straordinaria capacità di assimilazione, subito il risultato è stupefacente. Diventiamo tutti quanti amiconì e in sostanza lui allena la squadra e la stampa e i tifosi e quella larga fetta di Bologna che spasima per la Virtus. Ma da tempo immemore la Virtus non batte più un chiodo e insomma si gradirebbe un altro tricolore, una volta o l'altra. Il resto è storia, dicevo. Nell'anno di grazia settantatré Little Dan approda su queste zolle, ci mette un attimo per prendere le misure e poi regala al popolo l'agognato scudetto, per la cronaca e per la storia il settimo. Poi arriva il momento del commiato, Little Dan rimpiazzato da un suo giocatore e cioè dal cerebrale Terry Driscoll. E io che modestamente cerco di piazzare Little Dan al Gira Fernet vengo zittito da una telefonata che suona pressapoco così: per favore, fatti gli affari tuoi. Io al Gira non ci vado e scommettiamo che trovo di meglio? Non scommettiamo, ma veramente trova di meglio a Milano-Olimpia e là vince e rivince e stravince e diventa cittadino del mondo perché Porelii gli aveva sempre detto che Bologna è stupenda, ma Milano è l'ombelico, oh yes. Little Dan ieri e oggi. Comincio dall'oggi. Ha quasi sessant'anni, ha smesso da un pezzo di allenare, fa con eccellentissimi esiti il telecronista e lo scrittore, veste come un damerino, altro che il Timber Jack che conoscemmo al primo impatto. Mi dicono sia ricco e che soprattutto raramente spenda anche solo un diecimila. È molto cambiato, non è più lui per noi che continuiamo a vivere in questa nostra magica palude. Ci tiene un po' a distanza, chiaramente ha voluto tirare una riga sulle scampagnate che facevamo in collina, lui, me, Giorgino, Peppino e qualche volta anche l'orso bosniaco Nikolic, con Dan che intonava struggenti nenie country e con l'orso che gorgheggiava immondi coracci bosniaci. Dan ieri. Disponibilissimo a valori di scambio squisitamente culturali, disponibilissimo ad attraversare tutte le più variegate realtà, fossero uomini o femmine, gli uomini per conoscere meglio la città che lo ospitava e le femmine per conoscere meglio, beh, ci siamo capiti. Io non mi sono mai mosso di qui, lui ha volato, ha trasvolato e non si è ancora posato. E rispettato e osannato e strapagato com'è giusto che sia. Prima era un paraculissimo senza pudori, e oggi lo è con stile, mai facendo apparire o trasparire. Ti incontra e - incredibile per un omarino piccolo piccolo - riesce a guardare più in alto della tua testa, ti trapassa e non ti fila. Stavo per andare a Seattle, lo incrociavo e gli chiedevo che città fosse e lui: «Rain City, la città della pioggia» e via di corsa, sempre la stessa risposta così gentilmente stereotipata. E si racconta che dopo una notte un po' brava con una fanciulla più o meno in fiore - racconto una cosetta degli anni Settanta - la mattina Little Dan congeda la fanciulla che è senza macchina e deve andare a lavorare un po' distante da casa Peterson. My dear, pren-di un taxi, fa lui. My dear, come facciamo a chiamarlo, dice lei. My dear, avrai duecento lire per un gettone, fa lui. My dear, le duecento ce le ho, ma la cabina dov'è? My dear, scendi giù che non è nemmeno tanto freddo. Stupendissimo Big Nano. Fu grande subito, ci fece marameo e ci fece capire che lui non era mica dell'Illinois o di Santiago o di Bologna o di Roccasecca, lui era di là, di sopra, molto di sopra. Ogni tanto lo vedo, una buona stretta di mano. Io sono rimasto al paese, lui naviga nella galassia. Una sera l'ho sentito in telecronaca. Prima della partita mi ha fatto l'onore di citarmi. Grazie Nano, qui in paese sappiamo che ogni tanto hai un soprassalto di bolognesità, thank you Nano, e don't forget tordellini.

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