Profili: JIM McMILLIAN


Il duca nero

di Valeria Vacchetti e Gianfranco Civolani - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni"
- Ed. Tempi Stretti, 1996

 

Cominciai a frequentare il palazzo alla fine degli anni Settanta e la Virtus aveva appena conquistato il suo ottavo scudetto. Era la Virtus Sinudyne del Driscoll allenatore con i vari Cosic, Villalta, Caglieris e Bertolotti. Fu cambiato solo un giocatore: Jim McMillian al posto di Wells. Allora non sapevo nulla di McMillian, ma piano piano, partita dopo partita, nacque dentro di me una fortissima ammirazione che mi portava ad osservarlo continuamente per il campo. I miei occhi erano completamente rapiti dalla sua arte cestistica, e così il gioco della squadra scivolava in secondo piano e mi incantavo a seguire Jim nei movimenti senza palla, nei suoi smarcamenti dietro ai blocchi, nel suo morbido tiro rigorosamente con i piedi per terra oppure nel suo delicato sottomano. La sua difesa era impenetrabile: Jim riusciva a miscelare nella giusta dose tecnica e durezza fisica. Era sempre lui che annullava le ali avversarie più pericolose: nella semifinale per lo scudetto contro Varese gli chiesero di fermare un certo Bob Morse e lui - come dire - usò tutto il suo mestiere, voglio dire una «sistemata» così scientifica e provvidenziale. Ricordo il suo primo derby contro l'allora I&B Fortitudo, il palazzo era una vera bolgia e anche Jim sentiva particolarmente la gara, addirittura schiacciò in riscaldamento (cosa per lui rarissima). Al termine fece 40 punti. La mia predilezione si trasformò quasi in una ossessione, tanto che me ne andavo in via Lame 116, dove McMillian viveva con la famiglia, a guardare il suo campanello. Una volta chiesi a un mio compagno di scuola di accompagnarmi a casa sua: suonammo alla porta, ma nessuno ci rispose. Speravo sempre di incontrarlo per la strada in modo da vederlo ben bene nelle sue forme umane; in fondo per me proveniva da un altro pianeta. Era riservato, umile e schivo, lasciava trasparire pochissimo le sue emozioni. A Cantù però dopo la conquista dello scudetto manifestò tutta la sua grandissima gioia come un eroe così vitale e mortale. Immediatamente tutti lo battezzarono il Duca nero per la sua grazia e nobiltà. Non è mai stato spettacolare in senso specifico, era spettacolare però in tutta la sua semplicità di esecuzione. Arrivò in Italia piuttosto logorato fisicamente con qualche problema soprattutto alla schiena e a una caviglia; tra l'altro dovette rinunciare alla finale di Coppa dei Campioni a Strasburgo contro il Maccabi Tel Aviv. Azzardo pensare che se McMillian avesse giocato, forse la Virtus quella partita non la perdeva proprio. Dieci stagioni Nba e non da comprimario, ma da primo della classe. Jim proveniva da Brooklyn e giocava nella Columbia Universitv, fu prima scelta nel 1970 dei Los Angeles Lakers, con i quali due anni dopo vinse il titolo Nba. I suoi compagni erano Wilt Chamberlain, Elgin Baylor, Jerry West ed anche Pat Riley. Dopo qualche anno con i Buffalo Braves si trasferì nei New York Knickerbockers di Frazier e Monroe. Oh Jim, sei rimasto appena due anni, sempre lo scudetto sulla maglia, sempre i polsini bianconeri, e a dispetto di quel sederone così pieno e così basso, quanta classe riuscivi ad esprimere. Oh Jim, quanti sogni mi hai fatto fare e quanto maledetto freddo mi hai fatto prendere su e giù per via Lame per riuscire a vederti da lontano e poi andare via. Oh Jim, ma dove diavolo sei poi finito?

(Valeria Vacchetti)  

 

Aron Mc Millian abita in North Carolina. Misura due metri e otto, ha studiato e ha giocato a Greensboro e adesso è matricola nel college di Wake Forrest, quello stesso che ha consegnato all'NBA la prima scelta Tim Duncan. Bene, il promettentissimo Aron è il figliolone di Jim detto Jimmone, il mitico Duca Nero della storia virtussina. Jimmone aveva vinto l'anello a Los Angeles, ma era arrivato da noi con una cavigliona che lo faceva sempre soffrire ed in effetti dopo ogni allenamento Jimmone veniva puntualmente rifornito di bacinella con tanto ghiaccio dentro e così si compiva il rituale per consentire a Jimmone di tirare avanti benone un altro po'. Jimmone e Creso, che incomparabile coppia che mi sono visto negli anni in cui la Virtus di Peterson e poi di Driscoll spolverava la concorrenza. E la Virtus perse la finalissima di Coppa Campioni all'alba degli anni ottanta solo perché Jimmone si era appena operato e poi perse anche uno scudetto (a Cantù perché Jimmone era sempre fermo e si era pure fermato per un maledetto infortunio anche il brasiliano Marquinho). Jimmone era il basket, pardon il superbasket. E quando la condizione fisica glielo consentiva, dispensava tesori. Eppure procedeva a rilento con quell’immenso culone che si portava dietro, ma che intuizioni e che cerebralissima difesa e insomma che inimitabile classe purissima. Credo di aver visto ormai tutti i più grandi stranieri che hanno giocato a Bologna. Si, grandissimi: l'universale Cosic e il torrenziale Danilovic, ma proprio sul piano dello squisita abilità manuale posso paragonore a Jimmone soltanto quel mattocchio di Sugar Richardson e basta. Ho rivisto qualche anno fa Marquinho a San Paolo e rividi Cosic in America poco prima che il male lo aggredisse. E invece non ho più avuto il bene di rivedere Jimmone, atleta e uomo esemplare, sempre così pronto a offrirsi al prossimo con un sorrisone schietto e sincero. E dunque sono ben lieto di aver ritrovato il figliolone d'arte. Adesso so che Jimmone vive sempre in North Carolina e che si diverte o seguire il rampollone. E chissà che fra un paio d'anni Aron non faccia il gran salto fra i pro e magari io sarò là e mi rivedrò il Duca Nero e ricorderemo insieme quella Virtus da favola.

(Gianfranco Civolani)

 

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