Profili: ROBERTO BRUNAMONTI


Il Capitano

di Emilio Marrese - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni" - Ed. Tempi Stretti, 1996

 

Alla Virtus arrivò nell'83 dopo aver già vinto una coppa Korac nell'80 a Rieti, la città che lo ha dato al basket, e un oro agli europei di Nantes con la nazionale. Al primo colpo conquistò lo scudetto della stella con Alberto Bucci, al quale è sempre rimasto fortemente legato.
Di questo spoletino schivo e modesto fino al nichilismo tutta l'Italia ha sempre rispettato e applaudito il modo di essere campione: corretto, serio, umile, mai sbruffone, mai odioso. Partita dopo partita, alla sua figura è stato riconosciuto un valore quasi istituzionale per la pallacanestro, come quei pochi grandi uomini politici nelle cui doti umane s'identifica tutto il Parlamento superando barriere di idee e di colore. Ma in campo Roberto non ha mai fatto il monumento di se stesso, guadagnandosi il rispetto di amici e nemici sempre e solo per quello che poteva fare con il prossimo pallone, e mai per quei milioni di palloni già giocati. Non ha mai vissuto di rendita, non s'è mai fatto portare in processione.
La sua parabola bianconera è stata un arcobaleno dolce e luminoso. Nel suo interminabile autunno ha scrollato sul parquet, come foglie d'antica quercia, canestri importanti, momenti di basket decisivi e mai anonimi. E sempre stata una presenza e mai un illustre comparsa, come quei grandi attori a fine carriera.
Così come sono spariti pian piano i suoi riccioloni, le armi tecniche, quelle che nei suoi primi anni virtussini erano il ritmo e le entrate a canestro, col passare delle stagioni sono diventate l'esperienza, il tiro da fuori, il passaggio, il saper fare la cosa giusta al momento giusto. Ma il Capitano non s'è limitato mai a dispensare saggezza spray: al contrario di quanto si potrebbe immaginare, gara dopo gara il suo basket è diventato anche più aggressivo, rabbioso, grintoso, quasi cattivo, sempre in senso sportivo. Difesa, palloni recuperati, mischie a muso duro. La sua irruzione in partita era un segnale, uno squillo, per i suoi e per gli avversari. L'orgoglio lo ha reso sempre più combattivo, come se volesse dimostrare in ogni azione di essere ancora un soldato da battaglia e non un generale stratega, magari un po rimbambito. Questo spirito di sacrificio e di abnegazione ne ha fatto un esempio straordinario: non ha mai accettato le celebrazioni e fino all'ultimo si sentiva arrostire in panchina, quando capitava che per lui non ci fosse abbastanza partita da sfamarsi.
A forza di ripetere che tanto di occasioni così ne avrebbe avute ancora poche, che tanto di partite così ne avrebbe giocate ancora poche, negli ultimi anni di carriera non ha fatto che accumulare scudetti, play-off e derby uno sull'altro. Sempre animato da questa forza micidiale, quella di giocare ogni pallone come se fosse l'ultimo della sua vita, ha continuato a stupire partita dopo partita, con quel suo modo di giocare angosciante ed esaltante insieme, come una tragedia lirica: come se ad ogni scatto dovesse esalare l'ultimo respiro, come se su ogni palla recuperata in tuffo dovesse sbriciolarsi sul parquet una volta per tutte, accasciarsi sul campo di battaglia e raccogliere l'ultima grande ovazione mentre cala il sipario. "Sembra il miracolo di San Gennaro - disse una volta Valerio Bianchini con sarcastica ammirazione -: ogni volta si scioglie il sangue, ogni volta si rinnova puntualmente il prodigio". Poi usò un'altra immagine, di altrettanta irriverente efficacia: "Roberto sembra la Mimì della Boheme quando protende la gelida manina su ogni pallone". Prendendolo.
Se c'è un rammarico col quale dovrà lasciare, è quello di non aver vinto abbastanza in campo internazionale, in rapporto alla sua grandezza tecnica: solo una Coppa delle Coppe con la Virtus nel '90. Medaglie azzurre nel cassetto ne ha diverse, ma sono poche rispetto a quelle che avrebbe voluto conquistare da leader: dopo l'argento alle Olimpiadi di Mosca '80, l'oro agli europei francesi dell'83 e il bronzo agli europei di Stoccarda dell'85, ha vinto come regista titolare un argento continentale a Roma nel '91. Soddisfazioni ne ha avute, meno di quelle che avrebbe meritato e voluto: negli anni migliori non era lui il primo play (finiti Caglieris e Marzorati, dovette subire l'inutile convocazione di D'Antoni come oriundo); quando finalmente ha avuto la cattedra lui, l'Italia era entrata in profonda crisi generazionale di talenti. Pur giocando ben 255 partite, la sua carriera azzurra è stata infida: prima era troppo presto, poi troppo tardi. Così decide di lasciare spazio ai giovani e di abbandonare, nonostante i tentativi di richiamano come un Franco Baresi dei canestri. Pazienza. Non per questo noi ci sentiremo meno fortunati per averlo visto giocare e soprattutto per aver l'onore di raccontarlo.

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