di Emilio Marrese - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni" - Ed. Tempi Stretti, 1996
Alla Virtus arrivò nell'83 dopo
aver già vinto una coppa Korac nell'80 a Rieti, la città che lo
ha dato al basket, e un oro agli europei di Nantes con la
nazionale. Al primo colpo conquistò lo scudetto della stella con
Alberto Bucci, al quale è sempre rimasto fortemente legato.
Di questo spoletino schivo e modesto fino al nichilismo tutta l'Italia
ha sempre rispettato e applaudito il modo di essere campione:
corretto, serio, umile, mai sbruffone, mai odioso. Partita dopo
partita, alla sua figura è stato riconosciuto un valore quasi
istituzionale per la pallacanestro, come quei pochi grandi uomini
politici nelle cui doti umane s'identifica tutto il Parlamento
superando barriere di idee e di colore. Ma in campo Roberto non
ha mai fatto il monumento di se stesso, guadagnandosi il rispetto
di amici e nemici sempre e solo per quello che poteva fare con il
prossimo pallone, e mai per quei milioni di palloni già giocati.
Non ha mai vissuto di rendita, non s'è mai fatto portare in
processione.
La sua parabola bianconera è stata un arcobaleno dolce e
luminoso. Nel suo interminabile autunno ha scrollato sul parquet,
come foglie d'antica quercia, canestri importanti, momenti di
basket decisivi e mai anonimi. E sempre stata una presenza e mai
un illustre comparsa, come quei grandi attori a fine carriera.
Così come sono spariti pian piano i suoi riccioloni, le armi
tecniche, quelle che nei suoi primi anni virtussini erano il
ritmo e le entrate a canestro, col passare delle stagioni sono
diventate l'esperienza, il tiro da fuori, il passaggio, il saper
fare la cosa giusta al momento giusto. Ma il Capitano non s'è
limitato mai a dispensare saggezza spray: al contrario di quanto
si potrebbe immaginare, gara dopo gara il suo basket è diventato
anche più aggressivo, rabbioso, grintoso, quasi cattivo, sempre
in senso sportivo. Difesa, palloni recuperati, mischie a muso
duro. La sua irruzione in partita era un segnale, uno squillo,
per i suoi e per gli avversari. L'orgoglio lo ha reso sempre più
combattivo, come se volesse dimostrare in ogni azione di essere
ancora un soldato da battaglia e non un generale stratega, magari
un po rimbambito. Questo spirito di sacrificio e di abnegazione
ne ha fatto un esempio straordinario: non ha mai accettato le
celebrazioni e fino all'ultimo si sentiva arrostire in panchina,
quando capitava che per lui non ci fosse abbastanza partita da
sfamarsi.
A forza di ripetere che tanto di occasioni così ne avrebbe avute
ancora poche, che tanto di partite così ne avrebbe giocate
ancora poche, negli ultimi anni di carriera non ha fatto che
accumulare scudetti, play-off e derby uno sull'altro. Sempre
animato da questa forza micidiale, quella di giocare ogni pallone
come se fosse l'ultimo della sua vita, ha continuato a stupire
partita dopo partita, con quel suo modo di giocare angosciante ed
esaltante insieme, come una tragedia lirica: come se ad ogni
scatto dovesse esalare l'ultimo respiro, come se su ogni palla
recuperata in tuffo dovesse sbriciolarsi sul parquet una volta
per tutte, accasciarsi sul campo di battaglia e raccogliere l'ultima
grande ovazione mentre cala il sipario. "Sembra il miracolo
di San Gennaro - disse una volta Valerio Bianchini con sarcastica
ammirazione -: ogni volta si scioglie il sangue, ogni volta si
rinnova puntualmente il prodigio". Poi usò un'altra
immagine, di altrettanta irriverente efficacia: "Roberto
sembra la Mimì della Boheme quando protende la gelida
manina su ogni pallone". Prendendolo.
Se c'è un rammarico col quale dovrà lasciare, è quello di non
aver vinto abbastanza in campo internazionale, in rapporto alla
sua grandezza tecnica: solo una Coppa delle Coppe con la Virtus
nel '90. Medaglie azzurre nel cassetto ne ha diverse, ma sono
poche rispetto a quelle che avrebbe voluto conquistare da leader:
dopo l'argento alle Olimpiadi di Mosca '80, l'oro agli europei
francesi dell'83 e il bronzo agli europei di Stoccarda dell'85,
ha vinto come regista titolare un argento continentale a Roma nel
'91. Soddisfazioni ne ha avute, meno di quelle che avrebbe
meritato e voluto: negli anni migliori non era lui il primo play
(finiti Caglieris e Marzorati, dovette subire l'inutile
convocazione di D'Antoni come oriundo); quando finalmente ha
avuto la cattedra lui, l'Italia era entrata in profonda crisi
generazionale di talenti. Pur giocando ben 255 partite, la sua
carriera azzurra è stata infida: prima era troppo presto, poi
troppo tardi. Così decide di lasciare spazio ai giovani e di
abbandonare, nonostante i tentativi di richiamano come un Franco
Baresi dei canestri. Pazienza. Non per questo noi ci sentiremo
meno fortunati per averlo visto giocare e soprattutto per aver l'onore
di raccontarlo.