Profili: VITTORIO TRACUZZI


Il Moro

di Gianfranco Civolani - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni" - Ed. Tempi Stretti, 1996

 

Siamo nei primi anni Quaranta, alla palestra romana di Montesacro si presenta uno strano tipo tutto nero e peloso. Dice che viene dalla Sicilia, precisamente da Messina, e ha una valigetta tutta sgangherata e una divisina da avanguardista che gli tira da tutte le parti. Vittorio Gassman - sì, proprio lui, l'attore - stava allenandosi lì con la nazionale giovanile, tira la manica il grande Stefanini e gli fa: "Ma chi è 'sta macchietta?".
Morissimo e pelosissimo, sei anni dopo lo strano tipo debutta in nazionale A e più tardi diventa giocatore-allenatore di rispetto e di successo. Si chiamava Vittorio Tracuzzi, poi ribattezzato il moro di Messina. Le sue parole erano leggere come pietre aguzze, il suo carattere era dolce e levigato come la carta vetrata. Gli affidano per un po' anche i patrii destini, lui baruffa un po' con tutti, poi va a spezzare il pane della sua conclamata scienza a Varese e a metà degli anni Cinquanta arriva a Bologna dove la Virtus langue fra mille tremori e sospiri perché da qualche stagione lo scudetto se lo pappano gli altri e oltretutto in città c'è la concorrenza di un altro club - il novello Gira - che dà veramente sulle scatole.
Alla Virtus il Moro pensano di pagarlo il giusto, gli danno settantamila al mese, ma il Moro può campare benino solo continuando ad insegnare a scuola insieme alla moglie. Intanto la Virtus si rianima e il Moro con i suo modacci fonda una specie di accademia, spolvera una zona 1-3-1 che sarà poi rinverdita vent'anni più tardi da Peterson a Milano e vince alla grande due titoli di seguito, vince anche giocando e berciando, vince sfruttando con mirabili giochi il gigantone Calebotta e il micidiale contropiede del duo Canna-Alesini e la ferrigna difesa di Germano Gambini e insomma il Moro si radica qui in città e sultaneggia al punto che riesce difficile anche solo accostarlo o abbeverarsi ai suoi calici.
Il Moro ha un inarrivabile fascino, in campo e fuori. È sposatissimo, ma non disdegna svicolare. Donne venite a me, fa sapere in giro, e le donne vanno e ritornano discretamente satolle, si sussurrava negli anfratti del basket. Ma stiamo a quel che accade in campo e lì don Vittorio è davvero un pozzo inesauribile. Anticipa i colleghi su tutti i fronti e al secondo alloro si ferma anche perché non sarebbe Tracuzzi se non facesse le proverbiali tracuzzate. Per esempio un pomeriggio sta schiantando i tradizionali rivali di Milano e anch'io in tribuna esulto e faccio una specie di ola ante litteram. E su un vantaggio di più di quindici che fa il diabolico Moro? Toglie tutto il quintetto per irridere maestro Cesarone Rubini il quale non gradisce per niente e rimonta e chiude il match in parità e vince poi ai supplementari con il popolo virtussino che questa al Moro non gliela perdona proprio.
Poi negli anni il Moro si perde e si disperde, pronuncia qualche sentenza che fa morire dal ridere ("Il campionissimo domani sarà Lesa" e quel Lesa beato mai chi più lo vide), ma era chiaro che il caratteraccio era riuscito a prevalere sull'intelletto perché un bel po' d'anni dopo Vittorio torna ad officiare per la Virtus Norda e a me personalmente fa una confidenza mica da niente, questa: "Ho visto in giro un esercito di ragazzini, segnati i nomi di Binelli e Bosa, vedrai se mi sbaglio".
La rimpatriata bolognese non fu fortunata. Quella Virtus ansimava forte e quel Tracuzzi non era più quello di prima. Sempre un po’ nero e peloso, ma meno. E sempre un po' cattedratico, ma capace di dialogare come raramente aveva fatto in vita sua. Poi la Federazione gli affidò anche il settore femminile e io presidente di Lega restai molto sul perplesso perché non era il suo campo, non era il suo contesto, insomma non era roba per lui. E infatti furono più le amarezze delle gioie e un brutto giorno imparammo che il Moraccio era venuto ad operarsi a Bologna e due giorni dopo giunse notizia che don Vittorio ci aveva lasciato la pelle.
Ecco, figuratevi quante volte noi della stampa avremmo voluto incenerirlo. Ma più tardi io e altri imparammo a conoscerlo meglio. Era un uomo coltissimo e anche sensibile, un uomo che aveva avuto una adolescenza molto difficile in terra di Trinacria. Ed era un signor coach sicuramente geniale e portato alle sperimentazioni più azzardate. Studiava basket, sapeva andare poi sul concreto, non adoperava ancora la lavagna, ma dava sulla voce e sapeva farsi obbedire dai suoi fantaccini e fantaccioni. E io qui racconto il mio primo e il mio ultimo impatto. Il primo: avevo vent’anni, scribacchiavo qualcosa su un settimanale un po’ pettegolo e andai in sede per un accredito. "Lei è del Guerino? – mi incrociò lui – e allora si vergogni di scrivere per un giornale che è un cesso". E l’ultimo. Veniamo a sapere a tarda sera che la Virtus Norda (Presidente Gandolfi) ha appena esonerato Don Vittorio. Che facciamo, saliamo un attimo da lui per registrare uno straccio di dichiarazione? Don Vittorio abitava in Via Calori. Saliamo pure, ma sai mai che ci fosse qualche sottana in dolce amplesso. Suono io e gli dico forse un po’ troppo forte: "Vittorio, se lì c’è una mignotta non aprirci e basta". E invece ci apre subito, ci indica la moglie che sospira con lui davanti alla tv. Poi commenta l’esonero e accompagnandomi alla porta mi fa: "Come testa di minchia, a te non ti batte nessuno".

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