Il grande grido



A don Primo Mazzolari

che la morte ha liberato

dai piccoli burocrati di Dio

 

 

Cosi finalmente ti hanno portato via,
tra selve di bandiere e una muta pietà,
come gli argini lunghi portano a sepoltura
l'acqua gonfia del fiume,
le rade nebbie mattutine, il verde.
Cosi finalmente ti hanno portato via,
un ingombro di meno, un testimone
messo a tacere con la terra in bocca.
Ma nei tuoi occhi chiusi,
sul grano della tua bara,
sulla tua bocca umiliata dal silenzio,
festoso ardeva, solitario e mite,
un mazzo di papaveri scarlatti.

La macina del grano dava sangue
sulle spalle dei muti portatori,
ma nell'aria d'aprile dove fa nido la Pasqua,
nell'aria ove solitamente inquieta stride
messaggera la rondine furtiva,
ardevano festive lingue di fuoco,
davano un'altra voce, un altro accento
anche ai cupi rintocchi delle tue sacre campane.
E dai balconi gremiti,
dal brulicante fermento del cielo
piovevano sulla tua bara
i miti, rosei fuochi dei gerani.
Nel brusio della folla come un fiume
non un dio transitava con rossi baldacchini
un dio dell'acqua o, dell'aria
ma le tue vecchie scarpe immobili nella morte,:
le tue scarpe col fango delle prode
i fili d'erba, tutta la polvere muta
degli anni clandestini. Le tue e scarpe
di vecchio prete, contadino e testardo,
con la polvere di tutte le nostre illusioni,
dei sentieri più veri e minacciati
dove fiorisce il bosco sacro dell'uomo.

Chi bussa ancora alla tua porta? Chi ama?
Chi inseguito nella notte dalla muta
dei cani trova ancora rifugio nell'ombra della tua chiesa,
nelle nicchie dei santi, sotto le vecchie travi
del campanile? Chi bussa ancora
alla tua porta? Chi ama?
Il dialogo è finito, la morte, la paura
la cupidigia il tedio l'impostura
protendono i fiori neri,
i grassi fiori con fibbie d'argento
sui sepolcri imbiancati tra muschi di velluto.

E così finalmente ti hanno portato via.
Tu te ne vai in silenzio,
il grido fermo nella gola, il grande
grido che non sfuggì, trattenuto nel cuore
da uno strazio improvviso, da un orgoglio
sempre più fioco e inerte, dalla morte.
Ora è passato negli alberi che stormiscono in silenzio
nelle acque del fiume che scorrono sotto la luna
nei germogli segreti della terra
che rompono ovunque la dura corteccia
e fanno primavera dentro gli umili cuori.
Perché la morte, l'angelo nero
dalle ali di fuoco, l'angelo misterioso,
astuto e paziente, è giunta prima, prima
dei piccoli burocrati di Dio
e ha sigillato con mani ferme e pietose
la tua sacra, ostinata fedeltà.
E ha raccolto quel grido,
l'ha liberato come uno sparviero
a cui da questi squallidi sobborghi
leviamo gli occhi offesi dalla luce.

Da "I chiodi e i dadi" La Locusta, Vicenza, 1961