La parola, il silenzio


La parola è il luogo in cui l'io svela a se stesso l'immagine del mondo. Nulla esiste se non nella parola, attraverso la parola. Tutto emerge nel quadro della conoscenza dentro il lampo della parola. Essa nomina tutti gli esseri, a uno a uno, e li fa esistere.
Li fa esistere? Certo, per me, e in quel preciso momento in cui li nomina. Ma essi esistono anche prima: esistevano prima ancora di Adamo. Non sta forse scritto che Dio fece sfilare davanti a lui tutti gli animali ed egli diede loro un nome, a uno a uno?
Il linguaggio, l'arte combinatoria delle parole, è il luogo in cui si articola il pensiero. Non solo il mio pensiero, ma anche quello inconscio della tribù.
Il linguaggio serve per descrivere la favola del mondo e cogliere la verità. Purtroppo viene usato molto spesso per occultare il mondo e inventare la menzogna, quella foglia di fico dietro cui nascondiamo le nostre vergogne.
Il dialogo è il luogo dell'incontro.
Attraverso il dialogo scopriamo gli altri, la complessità del mondo, la diversità delle opinioni: il timbro dei vari colori, l'arcobaleno dei suoni, l'accordo e il disaccordo, la polifonia, la musica. Ma anche la dissonanza. Quella dissonanza radicale che è l'assurdo.
Il silenzio è il luogo in cui convergono tutte le diverse opinioni e si placano nel consenso. Si placano,
ma non si cancellano. Restano sospese nell'aria come le vibrazioni di una musica mentale che si riflette nello specchio dell'anima e si fa contemplazione della diversità nell'essere umano.




La vasca dei girini


Sono passato in macchina vicino a un luogo caro alla mia infanzia, ma non mi sono fermato. Rifuggo dalle inutili nostalgie. So che ogni impronta del fanciullo che fui è stata cancellata. I muri della casa sono stati rifatti e ridipinti, il grande noce frondoso sulla piccola aia è morto e non c'è più, le viti della vigna sono state levate e ripiantate più volte. L'erba sul dosso è nata e rinata a ogni primavera.
Eppure, in un angolo del muro a secco, ho rivisto in un lampo, coperta di muschi e nascosta tra le erbacce, la vasca dei girini. Dire che l'ho rivista non è del tutto esatto. Dovrei dire che l'ho cercata. La mia memoria sembrava morbosamente attaccata a quell'angolo in cui resisteva ancora qualcosa di me. Rivederla era stata una lieta sorpresa, una gioia così intensa da sfumare nella sofferenza. Ho rallentato bruscamente la corsa e per un attimo il cuore ha arrestato i suoi battiti. Poi ho premuto l'acceleratore, ma i ricordi mi hanno inseguito come uno sciame.
La casa sorgeva subito dopo il dosso, seminascosta dietro uno sperone di roccia. La strada che si inerpicava sulla montagna faceva in quel luogo una stretta giravolta e da essa, subito dopo, si staccava il sentiero in salita che portava sull'aia della casa. Mi sembra ancora di vedere mio padre che spingeva a mano la bicicletta su per il sentiero e la zia Fiora che lo salutava dall'aia e gli correva incontro a braccia levate.
Si era agli inizi dell'estate e mio padre mi aveva condotto per la prima volta dalla zia, per trascorrere le vacanze in campagna. Più che campagna era mezza collina, su quei dossi di un verde tenero e lustro che circondano la sponda orientale del lago d'Iseo, e da cui si levano pittoresche montagne. Mio padre mi aveva portato da Brescia sin qui sulla canna della bicicletta (una trentina di chilometri) e poi aveva attaccato la strada in salita che conduce a Zone, un paesetto da cui si scorgono in basso le caratteristiche piramidi .
Mio padre era uno stupendo arrampicatore. Piccolo, magro, ma con nervi saldissimi, pigiava sui pedali e trovava ancora il fiato per parlarmi.
- Guarda su in alto - mi diceva. - Di qui non si vede ancora, ma in mezzo a quei costoni c'è il santuario della Madóna 'la Ròta (la Madonna della Grotta). Io sono nato nella cascina vicino al santuario.
Io guardavo in alto ma non vedevo che boschi di castagni, di querce, di lecci, canaloni scoscesi tagliati tra le rocce, cespugli e macchie d'un verde mosso e variegato. Il santuario era nascosto e dalla strada non lo si poteva vedere.
Intanto mio padre, con il fiato sempre più grosso, riprendeva a raccontare. Il povero nonno, per battezzarlo, lo aveva messo dentro il cestello dei formaggi e lo aveva portato giù in parrocchia. Che avete, Tóne Teribel, in quel cesto? gli aveva chiesto il parroco. Un caprettino che chiede di farsi cristiano , aveva risposto il nonno. E aveva sollevato il lenzuolino che copriva il cestello.
Il caprettino, poi, era cresciuto tra quei boschi e quelle montagne. Giovanissimo, era stato mandato a fare la guerra sul C arso, dove per poco non era impazzito in quell'inferno d'orrore, di rabbia e di stupidità. Il patriottismo , diceva mio padre, era il pane degli imboscati e dello Stato Maggiore . Dalla trincea, immerso nel fango e con la morte negli occhi, egli scriveva ogni giorno a sua madre per salvarsi l'anima. Ora, sulla canna della bicicletta, portava il suo caprettino in vacanza, in quel luogo bellissimo in cui lui era nato e dove anch'io vorrei essere stato battezzato dentro il cesto dei formaggi.
Passate alcune frazioncine, sempre su quella strada in salita, eravamo giunti sotto il dosso. Qui mio padre si era fermato.
- Smonta. Siamo arrivati.
Era tutto sudato. Spingeva a mano la bicicletta, ansando. Aveva imboccato il sentiero e oltre il cancello aveva chiamato sua sorella, zia Fiora.
Dietro la zia erano spuntati subito anche i cuginetti, che mi si erano fatti incontro curiosi e guardinghi. Poi mi avevano preso per mano.
- Vieni - mi avevano detto. - Andiamo a vedere la vasca dei girini.





L'utopia del gratuito


Non ho lo spirito del gregario.
Non ho neppure lo spirito carismatico del capo, perché il capo altro non è che un gregario con un forte istinto di sopraffare gli altri e di eccellere. Una sorta di gregario eccellente.
Sono piuttosto un solitario, ma non per natura. Che per natura, senza essere gregario, sono portato alla socievolezza, ho bisogno di calore umano, di comunicazione. Non sul piano vischioso della realtà pratica (che è il regno proprio del gregarismo) ma su quello di una realtà ideale, di quel pensare e di quel sentire che non si sa bene dove stiano di casa (e che sono anzi la fonte di ogni radicale estraniamento) ma che stanno sicuramente un rigo più su (più fuori ?) di quello che non senza superbia chiamiamo banalità quotidiana .
Ecco, la parola giusta è forse superbia. Ma c'è, alla sua radice, un trauma particolare che potrebbe risalire molto lontano. Deve essere successo qualcosa che mi ha mostrato (o in cui ho creduto di scorgere) la grettezza e la stupidità degli uomini, la grettezza e la stupidità delle istituzioni. Di qui la mia diffidenza, il mio prendere le distanze, persino la mia incapacità al comando sull'uomo, che è sempre un sopruso, anche se necessario alla vita delle istituzioni. E allora non è giusto neppure parlare di superbia, ma, se mai, di una timidezza che cerca un rifugio dietro l'orgoglio di una ferita mai rimarginata e che teme si riapra a ogni istante.
Di qui ancora lo stupore e la gioia dell'amicizia, che è consonanza di sentimenti e di idee, rimargina le ferite, nulla chiede ma si esprime nel dono. Che è oltre le leggi della convivenza banale e gregaria e rivela l'utopia del gratuito.