Uno scotoma italiano

Appunti sulla storia del comportamentismo

Di Rattus Norvegicus


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Mr. Behaviorism

John Broadus Watson: gossip, trionfi e disastro finale

Thorndike ebbe un ruolo importante nello sviluppo delle teorie dell'apprendimento e nell'elaborazione dei test mentali, mentre il suo interesse nei confronti della psicologia animale andò progressivamente scemando negli anni successivi al periodo della tesi. L'erede piu' diretto della legge dell'effetto fu senz'altro John Watson considerato all'unanimità il padre storico del comportamentismo. Autore del famoso articolo considerato il "manifesto" del movimento comportamentista1, Watson, ancora molto giovane, divenne celebre nell'ambiente universitario della psicologia americana per l'abilità con cui era capace di allestire situazioni sperimentali orientatate allo studio del comportamento animale. La diffusione del ratto albino nei laboratori, per fare solo un esempio, si deve soprattutto a lui. Questo talento sperimentale, unito ad una personalità vivace, gli consentì di ottenere, grazie all'intercessione di Mark Baldwin, un posto alla Johns Hopkins University di Baltimora. Nei racconti di sapore agiografico che circolarono copiosamente negli Stati Uniti intorno alla figura di Watson, il rapporto tra lui e Baldwin veniva spesso colorato di note piccanti. Baldwin si allontanò misteriosamente da Baltimora nel 1908 per ragioni che rimasero ignote per un lungo periodo. A quel che pare egli venne arrestato nel corso di una retata della polizia in un bordello. Considerando il rigido clima puritano che vigeva nella cittadina del Maryland che ospitava la Johns Hopkins questo fu un motivo più che sufficiente perché Baldwin venisse definitivamente allontanato dall' università. Mark Baldwin, dotato di straordinarie risorse speculative, fu una delle figure più interessanti della psicologia statunitense dell'epoca. Watson si trovò d'un colpo a ricoprire la maggior parte degli incarichi di Baldwin, fra questi, quello di direttore responsabile della Psychological Review, l'autorevole rivista di psicologia fondata da Baldwin e Cattel nel 1894. Non si può escludere che la decisione di Baldwin di assegnare a Watson il prestigioso incarico fosse in parte mossa da un sottile spirito di rivalsa nei confronti della cultura sessuofobica e moralista che lo aveva brutalmente escluso dal mondo della ricerca. Watson, sebbene di tradizioni familiari metodiste, non faceva mistero di una certa disinvoltura nei costumi e di una buona dose di insofferenza nei confronti dei consistenti tabù diffusi all'epoca anche tra gli psicologi americani. Forse, non fu soltanto ironia della sorte se quegli stessi pregiudizi moralisti che avevano determinato la fuga di Baldwin e agevolato la rapida ascesa di Watson si volsero, qualche anno dopo, contro il giovane e brillante sperimentalista.

Una vicenda sentimentale con una studentessa appartenente all'alta società di Baltimora venne scoperta dalla moglie di Watson che ottenne il divorzio e una serie di cospicui risarcimenti. La vicenda, vista la celebrità di Watson, non mancò di suscitare gossip che attraversarono in lungo e in largo le università degli Stati Uniti. Lettere inviate da Watson alla ragazza (che diventerà la sua seconda moglie) vennero pubblicate sui giornali e gli valsero l'appellativo di sex machine. Una diceva testualmente: «Tutte le cellule che possiedo ti appartengono, individualmente e collettivamente. Io potrò essere ancora più tuo se un'operazione chirurgica ci rendera una cosa sola. Vorrei andare con te al polo nord dove la notte e il giorno durano sei mesi». Anche in questo caso la condanna sociale per immoralità fu inevitabile e inevitabili giunsero le dimissioni di Watson dalla Johns Hopkins University (1920).
Come vedremo Watson non fu propriamente un libertino. Al contrario, fu vittima di ossessionanti fobie igieniste, avversò con tutto se stesso l'omossessualità ed elaborò contorte teorie educative per impedire alle madri di abbracciare e baciare i propri figli. L'ipersessualità di Watson fu probabilmente una sorta di contraltare a queste singolari nevrosi che, ad un giudizio storico neanche troppo disinvolto, paiono visibilmente intrecciate alle sue elucubrazioni teoriche.
Nel 1928 uscì «The Psychological Care of the Infant and Child» un autentico bestseller negli U.S.A., con cui Watson riuscì a influenzare pesantemente i modelli educativi nordamericani. Un manuale fitto di precetti ed orari, tra cui spiccava la sua determinazione nel voler convincere le famiglie a limitare i contatti fisici tra madri e figli alle prime tre o quattro settimane di vita, onde evitare l'instaurarsi di una "dipendenza" del bambino nei confronti della madre.
Sotto il profilo storico l'incidente nella carriera alla Johns Hopkins ebbe delle conseguenze importanti, in particolare per quello che riguarda la storia della pubblicità.

Watson, allora quarantaduenne, si ritrovò sul lastrico. Fu un suo amico, il sociologo William Thomas, a presentarlo ad una nota agenzia pubblicitaria, la J. Walter Thompson advertising agency .Ma non si trattò di un fatto del tutto accidentale: Watson aveva tenuto anni prima, presso la Johns Hopkins, una serie di corsi sulla Psychology of Advertising, ed era stato incaricato di valutare gli effetti di una campagna sociale contro la diffusione delle malattie veneree. Né il rapporto tra psicologia sperimentale e pubblicità aveva in Watson il suo unico profeta: Walter Dill Scott, amico e collaboratore di Watson, aveva già pubblicato una serie di libri sulla psicologia della pubblicità. Il tema principale delle argomentazioni di Scott, sostanzialmente condiviso e ripreso da Watson, era quello che le scelte di consumo venivano guidate principalmente dal corpo, dalle emozioni e dai sensi, e assai meno dalla razionalità del consumatore. L'orientamento di Mr. Comportamentismo nel nuovo lavoro pubblicitario fu estremamente coerente con queste prospettive teoriche e di ricerca: il consumatore, per le agenzie di pubblicità, sarebbe stato, nelle sue parole: come il rospo verde per lo psicologo. E' opportuno specificare che il rospo era considerato, nell'ambito della psicologia comparata dell'epoca, una sorta di automa dai comportamenti puramente reattivi.
Non a caso gli studiosi di scienze della comunicazione definiranno il comportamentismo pubblicitario come una bullet theory paragonando lo stimolo pubblicitario ad un proiettile magico, che, una volta "sparato" sul consumatore, non mancherà di scatenare la reazione voluta.
Tra le campagne pubblicitarie di successo di Watson vale ricordare il borotalco Jhonsons', la Ponds Cold Cream, l'Odorono e il dentifricio Pebeco. Una delle prime indagini che Watson svolse per l'agenzia pubblicitaria lo persuase che i consumatori non erano in grado di percepire differenze sostanziali tra i vari prodotti. Effettuò una serie di esperimenti sui fumatori dai quali ricavò il dato, per l'epoca sconcertante, che ben pochi di loro erano in grado di riconoscere, una volta bendati, le loro sigarette preferite dall'aroma o dalle inspirazioni di fumo. Di qui la sua crescente attenzione nei confronti del brand. Dopo aver preso atto di questa insipienza del consumatore, ne dedusse che le campagne dovevano essere rivolte principalmente all'immagine del prodotto e dell'azienda che lo promuove. Il concetto di lealtà nei confronti del brand si deve in gran parte a lui.
Fu anche uno dei principali sostenitori dell'uso dei testimonial nelle campagne pubblicitarie. L'idea di proporre la regina di Spagna come testimonial della Pond's Cold Cream fu sua. Ed egli stesso, avvalendosi della fama e della considerazione di cui godeva, condusse una serie di trasmissioni radiofoniche in cui illustrava la fisiologia della bocca, con particolare riferimento alle ghiandole salivari e al loro ruolo (del tutto presunto) nella protezione dei denti dalla carie. All'ascoltatore che avesse telefonato per avere ulteriori delucidazioni o consigli sarebbe stata suggerita la pasta dentifricia Pebeco che, si sosteneva, stimola in modo ottimale la salivazione ghiandolare.
Quali che siano le interpretazioni nel merito dell'applicazione delle sue teorie in ambito pubblicitario egli divenne, nell'arco di tre anni, vicepresidente della Walter Thompson (1924) e finì la carriera presso l'agenzia percependo, in piena depressione economica, un compenso annuo di 70.000 dollari. La sua celebre affermazione secondo cui: «Guardare come cresce una curva di vendita può essere altrettanto eccitante quanto osservare le curve di apprendimento di animali o esseri umani» è perfettamente coerente con le sue ipotesi nell'ambito della psicologia del comportamento. In una maniera che rimane per molti versi misteriosa la sua teoria di una sostanziale identità tra comportamento umano e comportamento animale troverà nel mercato una singolare conferma. E' abbastanza sorprendente che la fulminante carriera di John Watson come pubblicitario non venga quasi mai menzionata nei testi di storia delle teorie pubblicitarie. La spiegazione più consueta è che il comportamentismo ha avuto un'incidenza marginale, se non inesistente, nell'ambito delle teorie sulla pubblicità. Come dicevamo sopra, la teoria comportamentista della pubblicità viene solitamente identificata dagli esperti di scienze della comunicazione con un misterioso fenomeno di costume che di solito essi definiscono Bullet Theory (o teoria dell'ago ipodermico). Alcuni studiosi si sono spinti a sostenere che la "Bullet Theory" è stata essenzialmente una fantasia dei posteri:
«Si è posto l'accento, anche recentemente, sull'assenza di una formulazione di tale teoria, sull'impossibilità di riferirla a concreti risultati di ricerca o, addirittura, sull'opportunità di negare la sua stessa esistenza.» 2
Questi singolari tentativi di rimozione del comportamentismo dalla storia delle teorie delle comunicazioni di massa necessitano di qualche spiegazione. Una è quella che il determinismo di Watson favoriva una visione che oggi si direbbe orwelliana precludendo qualsiasi accesso al dogma morale della libera scelta e della responsabilità individuale. Un'altra è che la teoria dei massmedia, particolarmente in Italia, è stata un ambito di studi privilegiato da letterati e sociologi, ben attenti a mantenere una "distanza di sicurezza" dalle teorie di impostazione (pseudo)scientifica o naturalistica. Deve spiegarsi in questo modo l'affermazione di Lang e Lang, secondo la quale, nelle parole di Mauro Wolf: «nessun serio scienziato nel periodo precedente la seconda guerra mondiale ha mai lavorato con quello che successivamente venne descritto come modello dell'ago ipodermico.»3
La teoria dell'ago ipodermico viene solitamente presentata dai manuali di scienze della comunicazione, alternativamente, o come una deprecabile esclusiva dei regimi dittatoriali e dei loro teorici (di solito con ampie citazioni tratte dai diari di Goebbels), o come un ingenuo sentimento popolare che si era diffuso con l'avvento della comunicazione radiofonica. Ma c'è margine per sospettare che la stessa scelta di un termine ironico come "teoria dell'ago ipodermico" e la conseguente delimitazione e storicizzazione della teoria, siano scaturite dal desiderio di affrancare le comunicazioni di massa dalle imbarazzanti eredità comportamentistiche. Eredità che però, come vedremo in seguito, emergono chiaramente anche ad un'analisi del tutto affrettata e superficiale del contesto accademico nordamericano.
Non stupisce dunque che due studiosi della Temple University abbiano recentemente scritto che Watson: «Anticipò molte delle nostre idee contemporanee portando la ricerca scientifica oltre il laboratorio ed estendendo i suoi scopi al mondo del lavoro.»4
Indubbiamente Watson fu anche uno degli ispiratori di quel culto del management facilmente reperibile in certa manualistica da bancarella, a tutt'oggi molto diffusa anche in Italia, centrata sulle modifiche da apportare al proprio comportamento per trasformarsi in buoni venditori. Un suo articolo, uscito sul New Yorker, era significativamente intitolato «If you're a failure change your personality». Non è un caso se molte delle "pratiche" suggerite da innumeri e più o meno cialtronesche sette, come ad esempio Scientology, abbiano attinto ampiamente dalla letteratura comportamentista. In termini foucaultiani si potrebbe parlare di tecnologie del sé. Ma con una sostanziale differenza: mentre per Foucault le tecnologie del sé:
«Permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l'aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima - dai pensieri al comportamento, al modo di essere - e di realizzare in tal modo una trasformazione di sé stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità.»5

Per Watson contava solo il comportamento e la sua produttività. Non c'erano stati interni e non c'erano coscienza o pensiero. Solo il flusso comportamentale inesausto di una linea di produzione incarnata. Il tramonto di Watson è emblematico. Morì nel 1958, tra gli onori accademici, per una cirrosi epatica conseguente ad alcoolismo. Alcuni dei suoi numerosi figli, educati secondo il modello comportamentista, si uccisero, altri tentatarono ripetutamente il suicidio senza successo. La nipote, l'attrice Mariette Hartley, ha scritto un libro intitolato Breaking the Silence6 severamente critico nei confronti del nonno e delle sue teorie sull'educazione.
Al di là di queste veloci note biografiche, indispensabili per capire qualcosa del personaggio, conviene soffermarsi ancora su Watson ed entrare in qualche dettaglio negli aspetti rilevanti del suo lavoro teorico.

Note

  1. La traduzione italiana integrale del "Manifesto", pubblicato sulla Psychological Review nel 1913, si trova nel volume: Nino Dazzi, Luciano Mecacci, «Storia Antologica della Psicologia», Giunti Barbera, 1982
  2. Gianni Losito, «Il potere dei media», NIS, 1994
  3. Mauro Wolf, «Gli effetti sociali dei media», Bompiani, 1992.
  4. Vedi l'articolo di Di Clemente e Haltuna John Broadus Watson, I-O Psychologist
  5. AA. VV., «Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault», Bollati Boringhieri, 1988.
  6. Vedi la pagina web dedicata al libro dell'attrice, attualmente direttrice onoraria della American Suicide Foundation,: Breaking the Silence