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  di Carlo Cenciarelli:

INSONNIA ALIENA…(TA)   I MISTERI DI "ORLAC&" E DI  "ANCAR6"    IL VECCHIO E IL VIOLINO   IL BALCONE DELLA CUCINA   CONSIDERAZIONI AMARE   POESIE
   

T U N N E L

1

Non capivo dove mi trovavo, pensai di sognare. Chiusi gli occhi preoccupato.
Quando li riaprii mi resi conto che non stavo per niente sognando.

Mi trovavo all'interno di un ascensore, quelli di metallo in uso negli ospedali.
Scartai subito quell'ipotesi vedendolo tutto imbrattato di simboli osceni, di parolacce e tappezzato anche sul soffitto di manifestini con figure orrende.
L'ascensore stava salendo e non sapevo a che piano si sarebbe fermato.
Io non dovevo essere in quell'ascensore. Avrei dovuto essere a casa mia a letto con mia moglie, magari a sognare quell'ascensore, non potevo essere lì.
Io mi chiamo ROBERTO CONTI, sono impiegato di una ditta di Computer, sulla Via Laurentina, sono uscito dall'ufficio alle ore 20,30 e in macchina sono ritornato a casa.
Ho mangiato della frutta come il solito, sì perché da anni faccio un pasto solo, quello di pranzo, e ceno solo quando andiamo fuori con gli amici o se gli amici li abbiamo invitati a cena in casa.
Ho visto la televisione con mia moglie e poi siamo andati a dormire.
Questo succede tutte le sere, quando siamo soli in casa.
Mentre l'ascensore continuava a salire, facendo dei rumori poco rassicuranti sulla sua stabilità, ero in piena angoscia. Non riuscivo a ricordare niente che potesse spiegarmi com'ero arrivato in quest'ascensore a quest'ora di notte (sono le 2.30), e da chi stavo andando.
Facendo uno strano rumore l'ascensore si fermò.
Mi trovai su di un pianerottolo buio e riuscii a fatica ad individuare tre porte con le targhette del campanello che riportavano i numeri 34 - 35 - 36 e un'altra porta che dava su un altro pianerottolo a specchio con l'altro, un ascensore con le stesse caratteristiche dell'altro e di nuovo tre porte con i numeri 34 - 35 - 36.
Non sapevo cosa fare. Avrei voluto riprendere l'ascensore e tornare indietro; contemporaneamente ero attratto dalla voglia di capire perché mi trovavo in quel luogo.
Cominciai a fare alcuni calcoli: "se ogni piano si compone di tre appartamenti dovrei essere grosso modo al 12° piano". Quest'analisi mi lasciò ancora più perplesso, perché ero sicuro di non conoscere nessuno che abitasse così in alto.
Mentre riflettevo, l'ascensore si chiuse e cominciò a ridiscendere. Decisi di prendere l'altro per tornare indietro, ma anche quello si chiuse e ridiscese.
Ebbi paura che avrebbero potuto prendermi per un ladro; così cercai le scale per andarmene al più presto. Stranamente sembrava che quel palazzo non fosse provvisto di scale, perché non riuscivo a trovarle.
La paura cominciò a prendere il sopravvento al punto che mi misi a tremare tutto. Sentivo i denti che battevano come nei momenti di freddo intenso, in cui si ha la febbre molto alta, e non riuscivo a frenarmi.
Mi venne in mente di leggere i nomi sulle porte per vedere se mi aiutassero a ricordare qualcosa.
Quella di fronte all'ascensore, la numero 35, aveva un nome scritto a penna che solo alla fiamma dell'accendino riuscii a decifrare:

Dottor F. Diacono.

Quella a sinistra, la numero 36, aveva un nome stampato a caratteri inglesi, che si vedeva era stato ritagliato da un biglietto da visita, e recitava:

Prof. Sergio Costantini.

L'ultima, quella a destra, la numero 34, non aveva il nome nel riquadro del campanello, ma aveva una targa sotto lo spioncino. Questa targa ovale, tutta bianca, con la scritta maiuscola in nero riportava:

DOTTOR LUCIANO SPERATI
CHIRURGO.

Nessuno di quei nomi mi aiutò a capire quanto mi stava accadendo.
Andai a vedere sulle porte dell'altro pianerottolo, che era abbastanza illuminato. Senza difficoltà riscontrai che non vi erano nomi che indicassero chi ci abitava. Vi spiccavano invece queste scritte:

Porta n. 34 "CURIOSI"

Porta n. 35 "ESTINTI"

Porta n. 36 "VEGETALI".


Quelle scritte, anziché aiutarmi, rafforzarono in me la voglia di scappare da quel luogo.
Spinsi il tasto di chiamata dell'ascensore e subito mi ricordai che erano stati entrambi richiamati e non avevo percepito nessun rumore di risalita ad un qualsiasi piano. La lucetta del tasto si accese, ma dopo alcuni secondi si spense senza che succedesse niente. Riprovai ancora diverse volte con lo stesso risultato, allora provai con l'altro ascensore. Il risultato fu il medesimo.
Non avevo alternative, avrei dovuto per forza suonare ad una di quelle porte; non potevo più sopportare la tensione che si era accumulata in me. Fra poco avrei cominciato ad urlare.
Mi avvicinai alla porta n. 35, quella con il nome Dottor F. Diacono scritta a mano, senza tener conto che ormai si erano fatte le 3,25. Suonai.
Il suono che né usci in quel silenzio mi penetrò nelle ossa e mi fece sobbalzare, ma passato un minuto senza che succedesse niente ci riprovai, stavolta premendo più a lungo.
Il risultato fu lo stesso.
Decisi allora di provare alla porta n. 36, quella col nome Prof. Sergio Costantini stampato in caratteri inglesi. Appena premuto il campanello sentii un click, poi una voce stridula di ragazza che mi arrivava da una piccola grata a mezzo metro dal campanello, di cui non avevo notato l'esistenza.
La voce diceva: "Il Prof. Costantini è momentaneamente assente per una chiamata urgente. Si prega di attendere. Il professore si scusa per il contrattempo". Click.
La comunicazione terminò lasciandomi ancora più perplesso. "Che razza d'attività esercita questo Prof. Costantini - pensai - che si aspetta visite a quest'ora di notte e chi sono i suoi clienti?". Non cercai di approfondire oltre.
A quel punto restava solo la porta n. 34, quella con la targa ovale bianca del DOTTOR LUCIANO SPERATI - CHIRURGO, alla quale mi avvicinai con molta soggezione. Facendomi coraggio - quel poco che mi era rimasto - schiacciai il campanello, aspettandomi di udire un suono agghiacciante.
Sento invece un dolce suono di campane che intonano un ritornello familiare, che però non riesco a identificare. Finito il ritornello, la porta si apre e mi sento apostrofare da una voce di donna, di cui non riesco sul momento a vederle il volto, perché era in controluce.
L'interno della stanza era talmente illuminato che solo dopo diversi secondi riuscii ad abituarmici.
La ragazza non mi sembrava italiana, a giudicare oltre che dalla pronuncia anche dal fatto che era di colore. Non mi chiese il nome e neppure cosa volessi.
Mi fece strada facendomi accomodare su una poltrona di pelle bianca in una stanza senza finestre, ma con tanta luce che proveniva dal soffitto. Non era il solito lampadario che ti aspetti in una normale stanza. Mi fece venire in mente quel gran quadrato di luci che si trova normalmente nelle sale operatorie, non potrei descriverlo altrimenti.
Dopo che la ragazza mi ebbe lasciato dicendomi di attendere, cominciai a riflettere su come mi sarei dovuto comportare in quella situazione così anomala.
Non feci in tempo a decidere che mi raggiunse un signore distinto in camice bianco, alto più di me - io sono alto 1,75 circa - con capelli brizzolati, un paio d'occhialini tondi con montatura in oro, occhi celeste chiaro, che mi fissavano con tanta intensità da mettermi a disagio, una barbetta a pizzo, anch'essa brizzolata.
Si avvicinò e con gesto garbato mi porse la mano presentandosi come il Dottor Sperati; io quasi balbettando risposi con il mio nome, che sicuramente neanche capì.
Subito dopo cominciò ad illustrarmi il programma stabilito per risolvere il mio problema. Lo dovetti interrompere bruscamente, mentre stava parlando di tre possibilità che mi sarebbero state offerte, e fra le quali avrei dovuto scegliere. Appena riuscii a fermare quel fiume di parole gli feci presente che io non ero un suo paziente e che non avevo altri problemi da risolvere se non quello di trovarmi in quel luogo e di non riuscire a tornarmene a casa.
Lo vidi sorridere con la sola bocca, mentre gli occhi erano sempre intensamente fissi su di me.
Prendendomi sotto braccio mi condusse vicino ad un gran tavolo rettangolare, proprio sotto quello strano lampadario, e con voce suadente mi disse: "Il tuo problema, per risolvere il quale abbiamo già programmato le tre diverse possibilità di soluzione, è proprio legato al fatto che ti trovi qui. Noi vogliamo cercare di risolverlo nel modo che tu desideri".
"Quindi Lei mi aspettava -gli chiesi- Sapevate che io sarei venuto oggi".
Com'è possibile, pensai tra me, se io ancora adesso non so dove mi trovo e come ci sono arrivato.
 

 

2

"Forse c'è un errore di persona", gli dissi.
E lui, sempre con quel sorriso privo d'occhi, mi mostrò una scheda:
"Qui c'è scritto ROBERTO CONTI - nato a Roma il 27-10-1943, è il vostro nome?" mi chiese.
Sbalordito balbettai di sì e non seppi più cosa dire. Una tremenda paura cominciò a salirmi su, su fino alla gola facendomi quasi soffocare, ma la curiosità e la voglia di sapere la verità fu più forte.
A quel punto, rassegnato, chiesi al Dottor Sperati di raccontarmi quello che sapeva, di parlarmi cioè di quel programma. Il dottore si mostrò subito più sbrigativo e, con fare molto professionale, mi disse di sedermi perché mi avrebbe fatto delle domande al fine di stabilire con precisione in quale programma sarei stato più contento di essere inserito, per la soluzione del mio problema, poiché ormai - diceva il dottore - rimaneva poco tempo per intervenire.
Mi mise sul tavolo diverse fotografie con scene orrende. Corpi mutilati, persone deformi e altre ancora con corpi lacerati e tanto sangue dappertutto. Poi, guardandomi con quei suoi occhi penetranti, chiese cosa mi trasmettessero quelle immagini: orrore, forse paura o altre sensazioni?
Urtato da quella richiesta che ritenevo non pertinente con la soluzione che io cercavo, gli dissi, in tono risentito, che non ero in condizione di giocare con lui al film dell'orrore.
Ce ne sono per tutti i gusti ormai nelle sale cinematografiche, e in televisione li propongono continuamente; anzi, in televisione, spesso ci mostrano immagini reali d'orrore.Perciò quelle sue non mi facevano provare niente, tanto meno la paura; lo pregai perciò d'essere più serio perché io aspettavo delle risposte da lui.
Anche se era rimasto male per il tono sgarbato con il quale lo avevo apostrofato, il Dottor Sperati non lo diede a vedere.
Accantonò tutte quelle foto e da un cassetto trasse un grosso libro con la copertina rossa decorata in oro, del quale non riuscii a leggere il titolo. Sfogliandolo con noncuranza mise il dito sopra una pagina e mi chiese:
"Cosa mi risponde alla domanda - Quanto è giusto vivere?".
D'istinto avrei voluto mandarlo a quel paese. Mi frenai perché dal tono della domanda e dalla serietà con la quale ora si comportava, ritenni doveroso accontentarlo.
Gli risposi che nella battaglia che la vita combatte da miliardi d'anni, ed in ogni attimo per continuare ad esserci e ad evolversi, ognuno di noi rappresenta un successo. Siamo il risultato sia di un atto d'amore che di una meravigliosa, ma crudele rincorsa di miliardi e miliardi di spermatozoi, nella quale IO, TU, LEI, LUI, abbiamo vinto e siamo venuti al mondo.
Questa vittoria, in onore di quelli che hanno perso, dobbiamo farla durare il più a lungo possibile.
Per questo è giusto vivere, fino in fondo. A questa mia risposta non replicò, ma dal suo modo di guardarmi capii che la risposta lo aveva soddisfatto.
"Ed ora -disse- ecco l'ultima domanda.
Se tu fossi costretto ad esprimerti con pochissime parole sulle cose che ritieni importanti nella vita, quale useresti?".
Anche adesso mi sentii in dovere di rispondere e d'istinto dissi.

"AMORE - AMICIZIA - FAMIGLIA
FIGLI - LIBERTA' - LAVORO. . . . . .
CHI - COSA - COME - QUANDO- DOVE - PERCHÉ"


Quando ebbi finito di parlare mi aspettai che avrebbe detto qualcosa che non mi sarebbe piaciuta.
Si alzò e senza dire niente, mi prese di nuovo il braccio e con una leggera pressione mi guidò verso la porta. Uscimmo, sempre in silenzio, nel pianerottolo che ora sembrava ancora più buio, dopo tutta quella luce.
Mi condusse nell'altro pianerottolo e si fermò di fronte alla porta n. 34, la cui targhetta recava la scritta

"CURIOSI".

Prese una chiave dorata da una catenella dalla quale ne pendevano altre due, una molto scura e una più chiara, sicuramente delle altre due porte.
Appena girò la chiave ed aprì la porta dovetti coprirmi gli occhi con le mani: la stanza sembrava contenere il sole.
Il Dottor Sperati mi disse, con voce bassa ma chiara: "Entra, non aver paura, fai tre passi e aspetta".
Fatti i tre passi sentii la porta richiudersi alle mie spalle.
Ricordo di aver sentito un forte sibilo e subito dopo gli orecchi stapparsi, come fossero due piccole bottiglie di spumante, quando salta il tappo.
Mi sentivo tutto intorpidito, come succede dopo essere stati tante ore in una posizione scomoda.
Non sapevo dove mi trovavo.
Sentivo delle fitte tremende sulle tempie. Provai a sollevare la mano sinistra per massaggiarmi la testa ma non ci riuscii: era collegata con un tubicino ad un flacone per flebo. Con la destra non ebbi difficoltà nei movimenti, così scoprii di avere la testa fasciata. Da questo a capire che mi trovavo in una stanza di un ospedale o di una clinica non ci misi molto.
La cosa più bella che mi potevo aspettare, la vidi alla mia destra. Mia moglie Katia con gli occhi socchiusi che stringeva sul petto il ritratto di Padre Pio, quello che di solito si trova sul suo comodino in camera.
Katia è molto devota a Padre Pio.
La chiamai con dolcezza, per non farle paura, ma la voce non volle uscire.
Cosa mi era successo?
Io ricordavo che il Dottor Sperati, dopo avermi condotto nella stanza n. 34 - quella piena di luce - era andato via richiudendo la porta.
Mi mancava il ricordo di tutto il periodo fino al mio risveglio in quella stanza.
Certamente Katia mi avrebbe aiutato a ricordare, ma non volevo chiamarla di nuovo per paura di scoprire che avevo perso la voce. Con enorme sforzo allungai la mano riuscendo a toccarle la guancia, con una leggera carezza. Aprì gli occhi di scatto e, rendendosi conto che era la mia mano quella che l'aveva sfiorata, la prese con forza.
Successe allora una cosa strana che mi commosse: cominciò a baciarmi in continuazione la mano, mentre piangeva con grandi singhiozzi; contemporaneamente il suo volto si distese e acquistò quella luminosità che solo in occasione della nascita delle nostre figlie avevo visto identica.

Anch'io ero rinato.

Mi fece venire alla mente l'immagine dell'arcobaleno che si staglia nel cielo, assieme al sole e alla pioggia che continua a venir giù, e al rombo dei tuoni in lontananza.
Katia si alzò dalla sedia e mi abbracciò ripetendo con affetto il mio nome, quindi senza dire una parola si mise il dito sulla bocca per indicarmi di tacere.
Uscì dalla stanza per ritornare poco dopo con un dottore. Quando fu vicino, prima ancora di vederlo, ne riconobbi la voce, poi quel viso con gli occhialini tondi, gli occhi celesti che ora mi apparivano dolci e felici e quella barbetta col pizzo brizzolato, come i capelli.
"Finalmente", disse in tono allegro. "Ti sei deciso a tornare tra noi. Sei rimasto dieci giorni a curiosare per conto tuo chi sa dove, tanto che cominciavamo a pensare che non volessi tornare. Tua moglie è stata sempre qui sin dal primo minuto, ad attendere il tuo risveglio. Sapeva che saresti tornato".
Sembrerà strano, ma da quel giorno non ho avuto un attimo di riposo, è stato un via vai continuo.
Mia moglie non mi ha lasciato un momento, neanche la notte.
Tutti i giorni venivano Marisa e Giulia, le mie figlie, e tutti i parenti.
Sarà un controsenso, ma io ero stanco di gioia.
Trascorse un mese prima che mi riportassero a casa. In quel mese seppi in maniera dettagliata quello che era successo e quello che mi avevano fatto.
Quella triste sera, tornando a casa in macchina dall'ufficio, avevo avuto un incidente. Per l'altro conducente, tutto si era risolto con alcuni danni alla macchina, per me, purtroppo, avendo battuto la testa, il fatto si era volto quasi in tragedia.
Sono stato operato alla testa e sono rimasto dieci giorni in coma.
Sembrava proprio che non potessi farcela.
Fortunatamente ora tutto è finito e, non avendo subito danni, resterà la cicatrice come ricordo.
Col passare del tempo mi sono tornati alla mente tutti quei fatti che ho creduto di vivere, mentre in realtà ero in coma. La maggior parte di quei fatti sono riuscito a collegarli con le cose che mi circondavano e mi accadevano in quella clinica; ad esempio la stanza che occupavo in clinica era la stanza n. 34. D'alcuni elementi non riesco però a trovare una spiegazione.
Fortunatamente ho ancora tanto tempo a disposizione per cercare le risposte che mancano.
La vita è piena di misteri e d'avvenimenti che provocano domande alle quali sarebbe interessante trovare le risposte.
Vedremo, fra le tante, a quali riuscirò a dare una risposta.
Ma ponendosi le domande già abbiamo risposto al bisogno di conoscere che ci rende esseri umani.