Antonio Carla Elena Francesco Filippo Franco Giancarlo Giovanni Grazia
e
Giovanni Marcello Massimiliano Patrizia Sergio
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Minime, morali (1990)
Giocare,
nello spasimo
d'una terrestre
vocazione
Per non sentirsi ancora,
con pesantezza, Inutili.
Una battaglia
per il tempo perso.
Cantavo debolmente
con l'anima deforme:
"Ego me absolvo"
dopo aspri conflitti
assetati padroni del corpo
e geni della specie.
Solo allora - condizione imposta
dai colonnelli istinti -
scoprivo di parlare a me stesso
Tiranno Siracusano. |
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Separazione
II (1997)
Ma certe mattine
separato è niente, piangere è niente
Me da per me,
qui
tot
Sangue, suicidi, cugini
cellule nella liquida mancanza
nella macchina del tempo
Che poi
un eroe le vede,
le cose
ma lui al dis gnient,
l'eroe non prega:
mangia, beve, solleva libbre.
Mè
so' gnient di nascita:
orecchia e balbuzie
non ho dialetto, ho
il mio
da fare, io
con i sottili e le luci
Chiedo forza,
intonazione:
respiri,
gravità saline dei pianti,
materia
o cumuli di gesta. |
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Separazione
III (1997)
Sante mattine, bei
pomeriggi
quando ricordo:
Cotone, voce bianca estiva
sole e riposi
a ritmi di gioco,
Quanta acqua versiamo
alzata agli dei, rispettosi.
Sì, separati
è niente:
Giuseppe si ferma al ciglio,
Davide e il sasso si spegne in gloria
Abramo s'arrende
Mi vesto, davanti
uno specchio,
provo gli eroi della giornata
Spartaco,
voce di blues
mano curata,
eleganza dei neri,
Rame sbalzato, catene blu,
Vasi e rovesci di temporale
denti d'oro, carovane e coperte.
Incrocio le domande
milioni di volte:
Elevi?
spezzi?
Dividi?
A parlare
poco e basso,
non è la mia voce. |
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Rifredo di Mugello
Sorella morte
composta nel ventre,
a singhiozzo, pura
nel canto dell'alba
crescente
Appennino cavo, intenso
freddo
Torrente animato che sgombra
i duelli del sé giudicante
e fiacca i cerchi più stretti di creta dura,
ripete le mosse in volute dantesche
la Val dell'Inferno, Toscana.
Paura torse i volti
montani,
al solo tremare nei boschi
paura del danno, del vuoto creato.
Non resta un ricordo
nel bere: scomparsa letizia.
Tristezza: stai sugli
angoli
alle bocche un dolore
cervicale un petto curvo
Un respiro serrato di ora,
di oggi
Fatica, sottile ritrarsi
dentro spazi minuti,
all'occasione dettata
in forma di veglia,
in forma di stagno
in madido confine di pelle
Straripante forza
di cento boati
antiche contrade
atterrite riverse
E bestie che siamo:
passiamo nell'ambra solare
con buoi nelle stalle.
Le stelle la roccia
Ma Ganga frantuma
graniti ed umani miraggi
Miliardi di luoghi ogni dove.
Cos'altro in eterno,
Parola che viene da urlo?
da voce commossa?
Parola sterile o feconda?
Nel senso più storto
nel fatto di carne, nel fatto che resti.
Che puoi penare
del gioco a sparire, del caso
la somma d'azioni è contabilità
Saremo mai ricchi?
saremo mai tutti raccolti?
Maria, che ci cogli
su rupi
scoscese e burrasche
tradotte in alito di voce:
Cos'era a principio?
Letizia e suono espanso
letizia e luce calda
rettangolo dei meditanti
Vibrata letizia apertura
le braccia son leve leggere
le dita stringono
lenzuoli materassi fascine
i pollici versi, modello Homo sapiens
artigli e fenomeni
per tempi esistititi
Sistema e cemento,
conoscitore d'oggi:
non porre questioni sul filo.
Sorella ventura, se arride:
io passo a dissolvermi
protetto da terre tremanti
esposte alla furia di
sette elementi feroci. |
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Rwanda
(1998/9)
Sacro suolo africano
cosparso di cenere, e fosse,
che vola e che molto
trascina di canto
per voi, sottili bambini
che sgambate
biciclette sgangherate
e pizzicate chitarre di latta,
accompagnati al vento
in continente, migranti
Diecimila braccia levate giù in chiesa,
in Rwanda, cinquemila
gole acute in preghiera
e ore incerte,
in parti divise a macello:
era sacro laggiù
ogni grano di sabbia
impastata col sangue
di cinquemila emorragie,
salive e squarci
In chiesa:
è tradizione.
E il tempo?
Non oso contare
minuti secondi
per cento fucili a mitraglia:
che appelli
supremi
per l'orco malvagio
del siamo le parti.
Ridicole pose di morti
scannati,
dal genitore al nonno
al bimbo attaccato alle vesti,
dolore colmo
che spezza
e coglie il fondo
del tropico incollato:
fin qui giungete
per dirmi eternamente:
genero, e fiorisco.
Uno a uno
cinquemila in schiera
e in me vi assolvo
E questo:
sento, non parlo che a fatica. |
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Alcolismo (1991)
La fiasca di chianti
ben presente nel nostro orizzonte:
Campana mancato,
dove batte il cuore e
la pressione si fa lenta.
Accovacciato russo.
Chissà chi
disturba, oltre me,
la mia benedetta irruenza? |
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A Mariangela
e Cesare (1996)
Liturgia del mattino
vivace,
per una preghiera
a voce alta, da non disturbare
Sollevo i palmi callosi:
"Arretra i nomi, solleva i sé:
Radice
Respiro
Silenzio".
Resisterò a
questa vena eroica?
Non morire nello spazio
d'un macello,
mattina con sole,
Gentile balia del vizio nebuloso
Un tempo era un battere
saggio e felice
giorni di scuola, una bella maestra:
un uomo selvatico, eretto:
purificò le sale col riso,
purificò dove accade.
Io sto nella legge
del bar, e li guardo
i fratelli bevoni, i loro grassi vociare
Tu laggiù racconti
una barzelletta,
del buco nero, e della notte di Mario
che è andato da un dottore.
Sto appeso a chi morì
di cancro,
rasento ciascuno nei suoi momenti bui
Sto dentro a tutti
i no
che non sono, non voglio:
Coraggio da leone.
Sto per fare -ci sono
quasi-,
per candidare
la prima parola che viene
È solo un accenno
una voce lontana
ma canta e pulisce le scale
dell'inquilino mondo
La gola, dimora dell'essere,
non parla
Ringrazio lo stesso
di cuore,
son qui per finire il dettato
Morirò
una morte ufficiale:
Mi segue un esercito di mondi,
la ghisa,
un brevetto d'asfalto,
diretti al cimitero. |
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Del dono che
portasti agli attenti (1998)
Sole del nascere, appeso a
levante, ferma su di noi la
trasparenza delle parole accese:
Aria solenne profondata
nel basso di campagne,
fiamma delle anime lievi:
Severità magistrale d'elemento,
che spingi allo sbando solitario
e vagante, diagonale e vuoto
Scirocco estivo che muovi la macchia
al calore, più oltre sospingi la voce,
rimanda la gente a guardare la costa
ove noi bussavamo a una porta ospitale,
la veranda illuminata dall'incandescenza
nuda, non mancavano il vino ed aromi.
Apparivi stanca ed estiva,
la veste semplice a grembiule
un fazzoletto in testa, le mani
e le parole rade: Apparivi
com'eri benedetta sul ciglio
a piedi nudi e nuotatrice.
L'invito era al silenzio, un mondiale
silenzio: nulla dal corso che non
resti, ciascuno a rifarsi un sipario
una frangia, una scia da cometa:
che poi lontano appare
l'ossatura e la pelle sottile, venata
perché ti sbrigassi a tornare, dicevi,
e scopre i nervi e le bellezze
sui cali e sugli acuti, per magico
stupore, costruzione di libero
impianto, di sangue romagnolo,
dei circhi e dei monelli,
dei bimbi e dei vecchiacci.
L'azzurro dei sali ci diceva
allora che sacro era il mondo
se tu non parlavi che poco.
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Solitario in
cammino (1998)
Dentro giorni di venatura
stretta
comincerò:
dal piccolo dormire
dalla pedagogia del secco
nei sud
sempre che dio non sieda là
conciato e ribaldo,
principe orale del muro,
fissità sul fenomeno
Oh rotondo e nascosto,
Io animella gentile
con tenue tentazione d'interrotto
Non vedo che metodo: ho male
per chi stringe
e mi stringo a dolori di fiato
a rendimento variabile del suono
blu avvolto flesso,
appunto solitario a spezzare sintassi:
Conigliera ammorbata dal grido di Nulla
No,
nessuno ci lodi per metriche astrali
che un'onda vibrata non è spazio
attraversa solitaria
Nessuno
e ci siano solenni risate
e frutta a nutrire
e specie ogni dove
la danza respira
nel Vuoto a domandare. |
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Moi que je brùle
I
Moi, que je brûle,
brucio e non bevo
carsico di lingua spessa
vedo solenne
e non so,
non fermo
occhi acquosi
fonde occhiate,
nel blu degli alti
Brucio
non bevo
come respiro brucio
e non bevo
alla modesta ampiezza
e al non tacere brucio
e mi svendo solenne
alla puzza mercantile
dei viali in città.
II
Mio nonno ad Algeri,
scolpiva figure e cavalli,
ad Algeri
modeste mie gioie
modeste
state
staccate,
sassi,
per far sù casette,
per la via dei fossi,
nei sali e nei pulviscoli
di nutrimenti
di lei
la mia stringa
la linea scolpita
III
povertà
di campo sportivo con buche
gambe secche di trenta bambini
affannati e i grandi dietro,
fra tante carriole
ero anch'io,
che bruciavo
e rintanavo
al riparo da tiranni
due spanne più grandi
le vipere che non
vedevo
i frustoni e i cavalli e
gli schioppi arcani
del nonno e degli zii suicidi,
e i porcini e prataioli
e gallinacci
stringhe
che brucio
che penso e rido male
E miglia
e boschi
e numeri
e favole
e stelle
e san lorenzo
rificolone
e battista e mercurio
Ora, mai più |
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