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Marcello Fallaci

 

   
Chi è, Marcello?
Quanto sei fallace, Oriana!! 
   

Miscellanea


--> Gabriele, addio!
Lo schiaffo
Preghiera

Giorno luminoso
   
   

dda
"L"Anima DI LEGNO"
pensieri frantumati
in versi
(1989 - 1990)
Ossa e pelle
Capo! Vuoi comprare?
Voltando le spalle
Tien An Men
Figli dei cavoli
15-09-1989: Francesca
Blocco di granito
Poesia murale
Ponzio Pilato
Tutto fu polvere
Triangolo di ragnatela
   

 da
"Esistere malgrado
se stessi
poesie e ..."
(1984 - 1976)
Su una tomba abbandonata in montagna
Nebbia di alcool 
   

da
"Il signore del giardino"
()
Signore del giardino
Si dilata lo spazio
La mia stagione
   
 da
"Caratteri di stampa umani"
poesie proletarie
(1982 - 1984)
Lanose macchie
Disoccupato
Bruciato con l'estate
Operai a tre mesi
   
 www.fallaci.it

 

 

Gabriele, addio!


"Lasciali! Su andiamo! metti in moto

voglio arrivare presto alla partita."

Pensando alla sua Lazio lui invita

a accendere il motore. poi. il vuoto.

 

Alla nuca ahi! quale rovente chiodo

un colpo penetra e tronca la vita.

Non stringerà Gabriele più le dita

intorno a un microfono ben noto.

 

O Morte, cruda Morte chi sei mai?

tu vieni a togliere il respiro a chi

con la sua voce fa scordare i guai

 

a mille e più giovani in discoteca.

Vieni improvvisa a strappare così

un'esistenza colpendo alla cieca.

 

 

 

 

 


 

 

Chi è Marcello
[da Caratteri di stampa umani]

Chi è Marcello Fallaci?
È il cugino suo malgrado di Oriana. Marcello avrebbe voluto esserle cugino prossimo, prossimo come vicinanza fisica, ma la sorte e il diverso impegno sociale e culturale li ha separati. Un baratro profondo e assai largo teneva l'uno lontano dall'altra, negli ultimi anni quel baratro è stato scavalcato in poche tristi occasioni, al funerale di un comune parente.
In quelle occasioni Marcello e Oriana si scambiavano i saluti e chiedevano reciprocamente: Come va?
La risposta di entrambi era quella che ci si scambia fra persone civili: cortese ed evasiva.
Ogni Fallaci fa storia a sè e vive la sua vita.
Solo se un componente la Famiglia si sottopone all'altro, a quello che ha avuto maggior fortuna in questa società, allora due Fallaci possono vivere insieme.
Marcello non ha voluto sottomettersi a nessuno, neppure al fratello e ha fatto la sua vita di artigiano del legno prima, del disoccupato e dell' operaio poi. Ha potuto affrontare le traversie della vita perché ha avuto la soddisfazione di sapersi poeta. La prima poesia fu composta a sedici anni, nel 48. E' quella che ha dato inizio a una traduzione umana e artistica sviluppatasi in sette raccolte di poesie.
 


 

 

Quanto sei fallace, Oriana!!


Quanto sei falsa con te stessa! O forse ti si è atrofizzata la memoria?

Tuo padre, lo zio Edoardo, fu dirigente del Partito d'Azione, mio padre Mario fu il basista della G.A.P. (Gioventù Armata Partigiana) qui a Firenze. Nella cantina della sua bottega artigiana in San Frediano erano nascoste armi e materiale di propaganda per tutto il tempo della Resistenza.

Mio padre come il tuo sono stati antifascisti e si sono impegnati in prima persona per liberare la nostra Firenze e l'Italia. E tu cosa fai oggi nel 2002? Paragoni alle orde nazi-fasciste che hanno distrutto e vilipeso le strade italiane, paragoni a quelle orde le centinaia di migliaia di partecipanti al Social Forum. Ti sei bevuta il cervello, oppure.....

Tu non hai paura che venga violentata la nostra città, tu hai paura di te stessa, del tempo che trascorre e che ti sta deturpando il tuo bel volto di gioventù.

Fa male guardarsi allo specchio e sapere di appartenere a una famiglia longeva. Quale sarà il nostro aspetto fra dieci anni? E fra venti? lo ne sto facendo l'esperienza: ho solo due anni meno di te. Ma io, al contrario di te, vivo nella realtà del presente, vivo e sono vissuto in mezzo a quella moltitudine di giovani che vogliono costruirsi un futuro migliore. lo fino a ieri mi sono mosso nelle manifestazioni, negli scioperi, nei cortei di una umanità viva che non invecchierà mai, che invece si rinnoverà di generazione in generazione.

Di conseguenza la mia generazione non è la tua. Io vivo nelle strade della nostra Firenze, tu vivi isolata in una sfera di cristallo, in un grattacielo di New York da dove spedisci le tue invettive contro i cittadini del tuo Paese, della tua città con la pretesa di illuminarli della tua saggezza.

Ti devo confessare che se la tua saggezza è poca, il tuo nome è tanto, almeno fra le persone di una certa età. Fra i giovani che io frequento il tuo nome è meno conosciuto, talvolta ignorato.
Pochi giorni fa comunque mi è capitato un caso sorprendente. Un giovane che fa il secondo anno di lettere, dopo avermi conosciuto, ha esclamato rimanendo a bocca aperta: " Davvero? Tu sei il cugino di Oriana Fallaci? Cugino, cugino?? " A quel cugino, cugino io mi sono sentito gonfiare il petto, alzarmi di spalle, crescere... crescere... fino a battere la testa nel soffitto della stanza. Ci pensi Oriana? lo esistevo, avevo la soddisfazione di esistere, secondo quel giovane, solo perché ero tuo cugino. Ci pensi, Oriana? lo, a questa quasi veneranda età, stavo accanto a lui, chiuso in quella stanza, in mezzo a gente comune, per discutere la situazione attuale della scuola. lo, proprio io, il cugino di Oriana Fallaci. Cosa da non credere. Scommetto che quel giovane studente, una volta arrivato a casa, ha dato la lieta notizia ai familiari : "Ho conosciuto Il cugino dl Oriana Fallaci!" ... "Davvero! Racconta... racconta..."

Ma quel giovane non ha nulla da raccontare della nostra conversazione, perché io ho tagliato corto su di te. E su di me lui non conosce niente, fuorché il nome e il cognome. Non sa che le mie dita hanno stretto una penna per più di cinquanta anni ed hanno composto versi, poesie, addirittura un.....
           ... ma, perché ti parlo di me? A te cosa importa? ... Voglio solo che tu sappia che tuo cugino, il figlio di tuo zio Mario, è sempre rimasto dalla parte degli ultimi (come ha scritto tua sorella Neera) si è messo in mezzo a loro. Per loro ha scritto poesia su carta da pacchi che è stata attaccata alle pareti delle Case del Popolo. Per loro, e specialmente per gli immigrati senegalesi, ha letto poesia al megafono durante lo sciopero della fame portato avanti per vari giorni in Piazza del Duomo.
Neera, la compianta tua sorella, ha scritto:
Don Milani - Dalla parte degli ultimi.
Spero che tu un giorno non arrivi a scrivere:
Berlusconi - Dalla parte dei primi.

Fallaci Marcello    
cugino suo malgrado

 sabato 9 novembre 2002

 


 

 

lo schiaffo

La porta si chiuse alle spalle dell'uomo:
« Mamma! ! Perché il babbo mi ha dato uno schiaffo? ... Cosa ho fatto di male? »
Il bambino si rifugia tra le braccia della mamma che gli accarezza i capelli.
« Su! Su! Non piangere... non è nulla... Tu cosa gli hai detto per farlo reagire in quel modo? »
« Io? Cosa gli ho detto? ... Gli ho chiesto se a Natale mi comprava la bicicletta.... Tutti i miei amici ce l'hanno. Io ho la pagella più bella della classe: me la merito. »
« E invece ti sei meritato uno schiaffo. Eh! Così va il mondo! Se fosse veramente Babbo Natale a portare i doni, tu avresti la bicicletta più bella di tutta la scuola, non solo della classe. »
La donna tace e si china a baciare il fanciullo che si stringe alle ginocchia della madre. Allora questa si siede e prende in collo il figlio:
« Perché? ... Perché mamma, non esiste veramente Babbo Natale? ... Lui non mi avrebbe mai tirato uno schiaffo. »
« Neppure tuo padre te lo avrebbe tirato se non attraversasse un periodo buio, di piena crisi... »
Il ragazzo guarda la mamma con occhi di stupore, a lui scolaro della quarta elementare nessuno ha spiegato cos'è una crisi.
« Crisi... - La donna ha un profondo sospiro e scuote la testa. - Crisi... è quando si rompe l'armonia sul luogo di lavoro e vieni licenziato... Tuo padre è senza lavoro e non sa come mantenere la famiglia. E' per questo motivo che il babbo è nervoso e ti ha dato uno schiaffo. Gli hai rammentato una spesa che lui non può sostenere e si è sentito offeso, quindi si è sfogato su di te che non hai alcuna colpa della sua situazione. »
Alberto salta giù dalle gambe della mamma e, illuminato da un'idea più grande di lui, esclama:
« Mamma! Mamma! Perché non ci troviamo un lavoro noi due? »
« Bambino mio tu vuoi scherzare! Tu devi andare a scuola: finire le elementari e poi fare le medie. Io... io lo vorrei tanto aiutare, ma... non ricordi che aspetto una sorellina per te?
Volevi un fratellino per giocare insieme e invece avrai una sorellina. »
« Una sorellina... Lo ricordo. »
Il bambino si interrompe pensieroso, infine continua:
« Se era un fratellino ci giocavo più volentieri e poi, gli potevo dare i miei vestiti quando non mi stavano più. »
La donna si alza dalla sedia e va in cucina con la scusa di preparare la cena, ma la vera ragione è che non vuole farsi vedere piangere dal figlio. Si è commossa quando si è accorta che il figlio cominciava ad afferrare il concetto di crisi e quindi di miseria.
Alberto si preoccupava di non poter lasciare ì suoi abiti al fratellino. Infatti nascendo una bambina sorgeva il problema di doverle comprare tutto il corredo, dal primo vestitino alle scarpine, non dimenticandosi di un cappottino.
Gisella si asciuga gli occhi col fazzoletto e con lo stesso poi si soffia il naso. Deve assumere un contegno che non turbi il piccolo Alberto. Per fortuna questi non l'ha seguita in cucina ed è rimasto nel soggiorno, vicino al tavolo dove stava facendo la lezione di scuola, prima di ricevere lo schiaffo dal padre.
Quanto sarebbe stato meglio che si fosse interessato allo studio e alla scuola, piuttosto che alla bicicletta e alla richiesta di questa al genitore!
La donna si soffia di nuovo il naso rimanendo con il fazzoletto alla bocca, dalla quale esce un secco colpo di tosse che le permette di avere un atteggiamento sereno e aperto nel dire:
« Alberto, le hai finite le lezioni per domani? »
« Le ho finite mamma, per ultimo ho fatto il tema. Adesso sto preparando la cartella per domani. »
« Bravo. Qual era il titolo del tema? »
« Descrivete la vostra casa. »
Gisella ha un sussulto e si mette in allarme:
« Come!? Descrivete la vostra casa? ... Cioè descrivete le stanze, l'arredamento, come è situata la casa? Oppure descrivete chi ci abita dentro? »
« Vuoi dire: descrivete i genitori? quel tema lo abbiamo già fatto in classe qualche settimana fa. »
La donna ha un sospiro di sollievo. Alberto ha appreso della disoccupazione del padre soltanto oggi, dopo avere ricevuto quello schiaffo. Un sorriso amaro viene a imprimersi sulle labbra di Gisella: eh! Un bambino deve pure vergognarsi di avere il padre disoccupato.
Alberto raggiunge in cucina la mamma che sta mettendo la pentola sul fuoco.
« Mamma, nel tema sui genitori ho scritto che stai aspettando una bambina e che io sono tanto felice di avere una sorellina. »
« Veramente! - chiede sospettosa la donna - non hai scritto che avresti preferito un fratellino? »
« No! No! Mamma, te lo giuro. »
« Va bene. Ci credo... Dimmi una cosa: se tu dovessi scrivere di tuo padre in un prossimo tema, dirai che ti ha tirato uno schiaffo perché gli hai chiesto in regalo una bicicletta quando lui era disoccupato? »
Il bambino spalanca la bocca dubbioso:
« Che dici mamma, posso scriverlo? »
« lo penso di no. Se proprio vuoi dire la verità, devi scrivere che hai chiesto la bicicletta e che papà in questo momento non può comprartela. Non parlare né che è disoccupato, né che ti ha dato uno schiaffo... Sarà una verità non abbastanza vera, ma è sempre una verità. »
Mamma e figlio stanno già cenando, quando entra in casa Sergio, il padre di Alberto.
Poco dopo è in cucina cupo come una notte di tempesta. Mormorato un "buon appetito" a denti stretti, si siede a tavola e affonda il cucchiaio nella minestra.
Rimane lì il cucchiaio sommerso da quel liquido di verdura, si è fatto improvvisamente pesante.
Inspiegabile quel peso... no! niente affatto: è lo stesso peso che lo fa rimanere immobile davanti alla scodella.
Infine l'uomo alza lo sguardo verso il figlio e:
« Scusami per lo schiaffo che ti ho dato. »
Non dice altro, e si rivolge al piatto di minestra da dove solleva con facilità il cucchiaio che va ad impedirgli di profferire verbo alcuno.
Un largo sorriso si disegna sul volto del bambino e gli occhi si illuminano di gioia mentre cercano lo sguardo della mamma. Gisella sorride al figlio e scotendo la testa gli fa capire di non alzarsi da tavola e di non disturbare il babbo.
La cena è consumata nel massimo silenzio.
Quando Sergio si alza da tavola, un tuffo al cuore viene a emozionare il piccolo Alberto che si aspetta che il padre si avvicini per dirgli una parola carina, calda di tenerezza, ma il padre esce di cucina con una certa fretta.
Madre e figlio si guardano interrogativi. La donna si stringe nelle spalle e solleva lo sguardo in alto come per trovare una risposta allo strano comportamento del marito.
Forse avrà avuto un'urgenza, sarà andato nel bagno. E' quanto vuole spiegare al figlio, ma questi è sparito pure lui.
La cucina è vuota.
Gisella e il piccolo Alberto si trovano insieme davanti alla porta a vetri del gabinetto, dal cui interno sembra provenire un pianto sommesso. Tende l'orecchio la donna ed afferra di tanto in tanto un singhiozzo male soffocato.
Alberto si sente afferrato per un braccio dalla mamma e allontanato dalla porta.
« Vieni. Andiamo in camera a prepararsi per la notte. Quando il babbo esce dal bagno tu entri a lavarti i denti e a fare la pipì, poi a letto... Stasera niente televisione. »
« Perché niente televisione? »
« Amore bello, scusami se ti mando in camera tua, ma ho il sospetto che la tua presenza ricordi al babbo lo schiaffo che di ha dato e questo lo fa stare male. »
« Va bene, farò così. »
Gisella si trova sola in cucina a lavare le stoviglie. Il bambino forse si è già addormentato, mentre il marito si è messo davanti alla televisione del soggiorno, dopo avere detto alla moglie di non aver voglio di parlare.
« Domani, quando Alberto sarà a scuola, ne riparleremo... Non mi manca certo il tempo - e
tristemente - Non manca mai il tempo a un disoccupato. »
I bicchieri, i piatti sono sistemati a sgocciolare. Cucchiai e forchette pure. In cucina tutto è a posto. Chi non è a posto e non sa neppure dove sia il suo posto, è la donna che si sente stordita, spaesata, anche se la cucina (secondo la maggior parte degli uomini) dovrebbe essere il luogo più adatto a una moglie.
" Eh! Ne riparleremo domani... ha detto... Questa frase mi ha ricordato mio padre quando a tavola non voleva sentir parlare di problemi familiari, perché diceva di essere stanco, di lavorare tutto il giorno lui. "
La donna si siede al tavolo della cucina e sospirando torna ai suoi ricordi:
" Eh si! Babbo! Babbo! ... tu dicevi sempre: "Dopo mangiato se ne parla" ma dopo mangiato ti alzavi e uscivi di casa per essere di nuovo a lavorare, se era di giorno. Oppure uscivi per andare al bar. Questo dopo cena, ma non sempre, devo ammetterlo. Quante volte hai pensato alla mamma? ! "
Un breve silenzio, interrotto appena da un sospiro, come se la donna fosse in attesa di una risposta.
Gisella era molto attaccata a sua madre, più di sua sorella Nadia e dei suoi fratelli. Almeno questo era sempre stato il suo parere.
" Povera mamma! Doveva solo lavorare e stare zitta. Riusciva a dire le sue ragione quando un loro battibecco finiva in un litigio. ... Povera mamma, quattro figli ha dovuto tirare su. "
La donna si accarezza la pancia fissandola con sguardo interrogativo.
" lo sono già al secondo bambino: speriamo bene di fermarci. "
Adesso Gisella è in camera sua, ha lasciato il marito addormentato davanti al televisore acceso. Lei è davanti allo specchio per vedere quanto la gravidanza la stia trasformando.
" Sono al terzo mese, non si vede molto. "
Si decide di entrare a letto. L'ultimo suo pensiero è per il marito:
" Speriamo che quando si sveglia e si alza dalla poltrona, non venga a letto per svegliare me....
Stasera non è proprio il caso!
"

 ottobre 2002

 


 

giorno luminoso
   

Lampo di luce intensa
ecco un biancore scendere tra noi,
è l'abito nuziale
che avvolge una fanciulla
radiosa e trepida verso l'altare.
Una atmosfera sacra eleva i cuori
degli invitati tutti
ad un comune battito d'amore
per Alessandra e il suo Massimiliano.

Chicchi di riso volano
a salutar l'uscita degli sposi,
in terra restano dimenticati
mentre nel mondo si soffre la fame.

Lieve e fugace ombra
di un giorno luminoso
che si allunga lassù
nei bei giardini di Villa Viviani,
dove antipasti e salatini aspettano
solo di esser mangiati.
Conversazione ovunque,
sorrisi sulle labbra.

Conversazione che seguita ai tavoli
circolari all'interno,
nella villa ove i commensali siedono
per la cena nuziale.

Va uno strascico bianco di sposa
a guidare Alessandra
da un tavolo all'altro,
perché disegni linea unitaria
simile a una cinghia
di trazione che faccia roteare
e tavoli e parole,
perché la sala sia un ingranaggio
avente una funzione
unica per gli sposi:
che l'orologio della loro vita
abbia un tic tac armonico,
senza accelerazioni né ritardi.

21 settembre 2002

     


 

preghiera
   

Lasciami sul video, Signore,
è in mano tua
il telecomando.
Non cambiare canale,
non spengere lo schermo:
devo finire di recitare
la trama della mia commedia.

Io...
tu lo sai bene...
non sono il protagonista,
ma ho comunque
una parte importante come attore.

Ho la parte
dell'uomo vivo che si muove
innamorato dell'amore
che famiglia e amicizie
gli donano
dall'alba al tramonto
di ogni giorno vissuto.

Non spengere lo schermo
Signore.

     


   

Ossa e pelle
   

... Brrr!!
Fa freddo restare nudi,
con le sole membra
del plebeo
tutte ossa e pelle.

Era bello
quando mostravo al sole
muscoli proletari.
Era bello indossare
una tuta da operaio
metalmeccanico.

In qualche luogo
ci deve essere
una prospettiva socialista!
rivoluzionaria!

... Brrr!!
E' brutto
essere plebei nudi.

     


   

Figli dei cavoli
   

Forse...
Sono nato veramente
sotto un cavolo,
altrimenti perché starmene sempre
da una parte
piegato su me stesso, scontroso.

 Penso che sia
la natura di noi plebei
starsene appartati e timorosi.
Un tempo
si stava col berretto in mano
davanti al padrone.

 Loro invece...
i Signori della parola
e del quattrino
possono
muoversi liberi
con lo sguardo altero
sicuri di sé.


Loro sono
stati portati dalla cicogna
e hanno
potuto spaziare nel cielo,
ammirare questo mondo
ancora prima di nascere.

 Loro...
e noi?
noi siamo i figli dei cavoli,
nascosti
vergognosi sotto l'ultima foglia.
Al massimo
ci è consentito di scuoterci,
tirarci su di spalle
e indossare
il logoro abito da proletario.

     


   

Ponzio Pilato
   

Chilometri
Alle mie spalle,
ma vedo ancora molta strada
davanti a me.
Nuovi compagni si affiancano
e mi sorreggono
parlandomi
di un sole che brucerà
le cervella
a coloro che ogni giorno
si lavano le mani
col sudore
di milioni di uomini.

Da secoli Ponzio Pilato
Si lava le mani, dopo averci inchiodato
Sulla croce di una esistenza
Che noi proletari,
disoccupati ed emarginati
non abbiamo eretto,
ma che i signori della legge
ci hanno imposto.


E noi subiamo.

Sono riuscito a schiodarmi
dalla croce
e cammino barcollante.
Giovani mani
non ancora afferrate
dalla burocrazia e trafitte
mi danno forza a proseguire,
a lasciare sempre più
chilometri alle mie spalle.

 

La strada si accorcia
Davanti a me,
un sole di un caldo rosso
già mi illumina
il volto.

     


   

Capo! Vuoi comprare?
   

Sorte
non volle che
ti conoscessi Nanni
che fossimo compagni.
Lotte
non abbiamo fatto insieme,
ma oggi mi preme
fare mie
le tue parole che leggo.

... Veramente
avevo capito una cosa.
Che col lavoro
uno
può soltanto vivere.
Ma
vivere male da operaio,
da sfruttato.

Gli viene portato via
il tempo
libero della sua giornata,
tutta la sua energia...

E la mia
di energia non recupero
disteso su questa spiaggia,
dove
mi lascio bruciare
dal sole
come ogni altro borghese.



Non io,
i proletari sono
chi per la spiaggia cammina
vestito a vendere bracciali
e abiti per signore.
Sono i proletari
di pelle nera,
i figli di proletari
nutriti di miseria e sfruttamento
là in Africa.

Qui in Europa
vengono a servire l'uomo bianco
che si pasce
di ricchezza e benessere.
Come devo sembrare io
ai loro occhi
e chiedono:
"Capo! Vuoi comprare?
Tutto bello, tutto poco caro".

No, grazie! Non mi occorre...
mentre avrei voluto
stringere quella mano,
nera mano
dal palmo bianco latte
e tirarlo sotto l'ombrellone
e sapere della sua
vita di proletario nero,
parlargli della mia
vita operaia
momentaneamente ferma
su una spiaggia in Versilia.

     


   

15-09-1989: Francesca
   

Splendida orchidea nera
sei germogliata
Francesca
dalla carne turgida
di una giovane donna
calda
di sofferto amore.

La mia piccola Ilaria
madre!

Francesca e Ilaria
stessa carne in due donne
che crescerà nel tempo
gonfiandosi d'amore,
amore che
si spanderà intorno
e irradierà di gioia
me
e Carolina che
si è trovata nonna
una seconda volta.


(dopo Irene Francesca)

In questo giardino di donne
e di fiori
ci sarà una panchina
dove un vecchio poeta
potrà sedersi a leggere
novelle e poesie
alle nipotine per terra a giocare.

 

Per adesso il poeta
si riempie gli occhi di luce,
e il cuore di Francesca,
mentre osserva trepido
una splendida
orchidea nera sbocciare.

     


   

Tutto fu polvere
   

In principio fu il crollo
del muro.

Pietre rotolarono una sull'altra
come stelle
nella galassia.

Cozzarono...
si frantumarono.
Quanta polvere!!

Infine tutto fu polvere.

Una mano lieve di artista
prese a plasmare
quella polvere
da cui ebbero vita forme umane
sempre più definitive,
civili,
occidentali.

E...
fu il verbo.

     


   

Voltando le spalle
   

Fammi posto, Ivan,
voglio sedermi
anch'io sul marciapiede
voltando
le spalle alla gente bene,
vestita di pelliccia e giaccone
di cuoio.

Fammi posto,
fra queste due auto in sosta
posso sedermi senza
rischiare di essere travolto.

Eccomi seduto, Ivan.
Non ci vogliono
Così conciati
E noi non vogliamo loro.

Neppure
La loro elemosina vogliamo,
la loro civiltà ipocrita
che elargiscono agli angoli
in monete da cento.

Noi due randagi
vestiti di miseria
voltiamo loro le spalle
e non ci possono vedere.


 

Se ci vedessero all'angolo
seduti con la schiena al muro
metterebbero nel nostro
palmo
un po' della loro civiltà
in formato elemosina,
un po' del loro benessere
in formato democrazia.

In mezzo a queste due auto
seduti restiamo
a guardare verso il traffico,
a pensare ai fatti nostri.
Basta uno sguardo
per intenderci:
non c'è bisogno di parlare.

Il frastuono della civiltà
meccanica,
la frenesia del benessere
alle nostre spalle
non ci scuote,
rimaniamo
isolati fra queste
due auto in sosta.

     


   

Blocco di granito
   

Fra le due auto in sosta
sempre seduto.
Solo:
Ivan non è più con me.

In queste settimane
o mesi?
Auto e auto
Si sono date il cambio
Lungo il marciapiede.
Io e Ivan seduti
Zitti, ma loquaci.

Quando
una moto d'alta cilindrata
sul cavalletto lì ferma
è apparsa.
Ivan ha aperto gli occhi
ed è balzato su.

Ora è via nel vento
a respirare futuro,
emozioni proibite.

Io rimango seduto.
Tutto uno con il marciapiede
Pietra io stesso,
privato delle mie sembianze,
blocco di granito.


 

Sono rimosso
dalle gru dei vigili urbani
per lasciare posto
al parcheggio delle auto,
al transito dei pedoni
sul marciapiede.

Sopra altri macigni
rimango.
Senza anima,
senza la speranza domani
che uno scalpello
tragga da questa pietra
sembianze umane,
proletarie.

Nessun monumento
alla miseria,
al proletario,
(questo animale bipede
in via di estinzione)
può essere eretto
in una società del benessere
ora che
il muro è crollato.

     


   

Triangolo di ragnatela
   

Guardare
il mondo da sotto l'ascella,
così…
su una linea verticale…
la spiaggia e il mare
chiusi nel triangolo
del mio braccio
mentre
bocconi giaccio.

Indicato dal naso
vedo
un muro di sabbia
su cui ombrelloni
stanno conficcati verdi,
su cui
rari corpi umani
simili a mosche
vedo
agitarsi nel triangolo
quasi una ragnatela.

Il mio occhio di ragno
è in agguato
pronto ad afferrare
ogni immagine,
ogni mosca umana
che capiti nel triangolo
della mia ascella.

Vedo non visto
mentre
mi riposo non stanco.
Recito la commedia
del villeggiante disteso
a prendere la tintarella.

Mi muovo a guardare
da sotto l'altra ascella
e dentro la ragnatela
di sabbia e ombrelloni
vedo impigliarsi
una vecchia scalza
dalla veste lunga ciondoloni.

Cocco! Cocco fresco!
Va gridando con voce fiacca,
trascinando
i piedi nella sabbia infuocata.
Metto a tacere la coscienza
chiudendo gli occhi
e appisolandomi.

Ma nelle orecchia ancora:
Cocco! Cocco fresco!

 

 

 

     


   

Tien An Men
   

I miei piedi
vorrebbero calcare le tue
impronte,
i miei piedi
vorrebbero calzare le tue
scarpe
e camminare i tuoi
stessi passi.

Per le vie di Firenze
io ti seguo
compagno cinese
mentre vai in corteo
a protestare per le morti
dei tuoi fratelli in Cina.

Altri fratelli
come te emigrati verso un lavoro
lontano dalla Patria
gridano slogans
che noi
di Prospettiva Socialista
non capiamo,
ma
con voi solidali
e cantiamo
stringendo il pugno con rabbia.

Cantiamo l'Internazionale
e vi seguiamo
nel vostro funerale
alle speranze degli studenti
là in Cina.
Quelli morti:
i vivi sapranno vincere.

Ecco che i miei piedi
sono riusciti
a calpestare le tue impronte
ed io
sento nuova linfa vitale
nel mio corpo
e cresco
cresco.

Enorme e largo
è il mio torace,
pronto a respingere
i carri armati assassini
che avanzano
nella piazza di Tien An Men.
Svelto il mio piede
ha calzato le tue scarpe
e corro
corro
in aiuto dei miei fratelli gialli
dal cuore rosso.

Corriamo compagni,
corriamo,
è molta la strada davanti a noi.

 

 

 

 
     


   

Poesia murale
   

La mia
poesia
scritta per decenni
sopra un muro.
Versi murali
percorsi dalla furia del vento,
screpolati dal tempo.

Disperazione e speranze
in quei versi
dispersi
graffiati contro il muro,
il muro
dell'indifferenza sociale.
Tale
il muro eretto a Berlino
da un sistema egoista e ottuso,
il cittadino
ne rimaneva soffocato.

L'uomo anelava alla vita
ansimando in fuga
verso il mondo dei consumi
il muro ha scavalcato
senza accorgersi
che versi erano scritti sopra.

Versi proletari
per una società comunista,
ma "comunismo"
è
un termine blasfemo,
oggi
nessuno vuol più bestemmiare
per non perdere
il Paradiso del benessere.

Adesso il muro è crollato.
Vedo larghe bocche bavose
sputare su quelle pietre
sotto cui giacciono
le mie poesie.
Larghe bocche
che masticano le parole
"democrazia" e "libertà"
a sazietà,
bevendoci dietro,
sudore di operai sfruttati.

 

 

 

     


   

Su una tomba abbandonata
in montagna

    

Giaci.
Chi fosti l'ombra dei morti non sanno;
pallide
vengon la notte timorose al ligneo
scheletro della croce,
ad interrogare i sassi
che sull'orlo ti copron di zolle.

Nuda
vaga sui venti freddi, tremolando
l'anima,
ai confini del cielo nell'attesa
trepida del giudizio,
temendo cosa il fato
le riserbi or che piangi la vita.

Vetro
terso e opaco per colore ignoto
sgretola
la sua sostanza per estrarne vivo
l'atomo del peccato,
fulgente fra i beati
se purezza fermò il tuo istinto.

Tutto
nella sua stasi freme alle parole
fievoli
che dalla tomba sorgono a ferire
l'aere e quel silenzio
che ti oscurò di fama
quando ai monti chiudevi il tuo passo.

Lento
ti trascinavi dietro alle lanose
pecore,
preoccupato cercando più verde
pascolo ove col cane
dividere un boccone
mentre il gregge contendesi l'erba.



Muto
miravi indifferente la natura
tremula
alla carezza del vento che soffia
favole di paesi
dove l'uomo è felice
e trionfa la vita sul tempo.


Penso.
Ma di te solo il legno senza scritta,
fradicio
di nevi sa, nessuno ti conobbe.
Fragile pei suoi anni
e il dolore sofferto
senza lacrime piange una madre.

Essa
la tua grama esistenza e nulla vide
spengersi.
Gialla candela di sego, sul torvo
baratro della morte,
resta a illuminarti
per confondersi dopo nel buio.

Chiedo
alle corrotte tue carni se mai
furono
necessari i natali per chi deve
misero sostenersi
col bastone intarlato
per le strade fra polvere d'auto.

Sorde
alla risposta son le mie orecchie: tacciono ai mortali i defunti, cui la fredda
tenebra dell'Eterno
interdice il ritorno
a salvare chi nacque alla vita.

     


   

Nebbia di alcool
   

Ancora un bicchiere di vino
e poi la vita
sarebbe colorata di rosa.

Fra le mani
mi giro il bicchiere vuoto
fissandolo non persuaso
che oggi domenica mi attardi
a godere
i piaceri della tavola.

Non diversamente
da ogni buon cittadino
educato al quieto vivere,
posso
dimenticare le preoccupazioni
nascondendomi
dentro a questa nebbia d'alcool
soddisfatto.

Potrei alzare il bicchiere
colmo per un brindisi
a cercare
il bicchiere di un qualche borghese
se questi fosse seduto
al mio tavolo.

No!
Il rosso del mio bicchiere
dovrei
gettarglielo addosso
e poi il vetro con forza.

Quando un operaio
siede a pranzo
in armonia col padrone
o con uno dei suoi pari
dimentica
la lotta di classe.



Fisso il bicchiere
accarezzandolo
come una sfera di cristallo.
Cerco di avere una risposta
per il domani
mio e di tutto il proletariato.

Portare avanti
la lotta di classe
e non sedersi ad un gran banchetto,
dove padroni
operai e preti
tutti avvinazzati
brinderanno
al benessere comune.

Benessere comune
per il quale io devo offrire
braccia e sudore,
il padrone ricevere
denaro e comodità,
il prete
funerali da benedire.

Mi decido.
Il bicchiere si riempie di rosso,
si vuota
rapido fra due labbra
prima che sentano
disgusto per tanta viltà.

Il rossore che mi avvampa
il viso
non è soltanto ebbrezza,
ma vergogna.

     


   

Signore del giardino
   

 "Signore del giardino!" mi si chiama
voce fanciulla viene dall'esterno:
di salutarmi Silvia spesso ama,
nuova alla vita dal sorriso eterno.

Ora esco di cucina dall'interno,
aperta la vetrata a chi mi brama
rendo il saluto, la mia gioia esterno.
Mirando lei in volto provo calma.

Stessa serenità qualora osservi,
Marcello, una nipote oppure un figlio:
si allarga il cuore, si allentano i nervi.

Viva luce circonda la persona,
dallo sguardo sparisce ogni cipiglio,
beatitudine amore ti dona.

 

 

 

 

     


   

Si dilata lo spazio
   

Si dilata lo spazio tra di noi,
donna mia, questa casa è troppo ampia.
Era nostro destino, non si scampa:
i figli sono via pei fatti suoi.

La vita nostra fu tutta una rampa,
sempre in salita… aspettando il poi.
Troppi gli sforzi, i sacrifici tuoi,
sul volto tuo la fatica si stampa.

Diversa occupazione ci distrae,
al pomeriggio per me giunge il sonno.
Passione alcuna ormai più ci attrae.

Viene la sera. Parlarti vorrei,
dire di noi, ricordare il giorno.
c'è la televisione: parla lei.

 

 

 

 

     


   

La mia stagione
   

Gialle, aggrinzite le foglie del fico
pendolano dai rami, infine vanno
a coprire il giardino loro amico.
Le ammucchia il vento all'angolo, ove stanno.

Scendo a spazzare. "Coraggio" mi dico.
In quel grigiore vedo me quest'anno:
morte biologica… destino antico…
la mia stagione vivrò senza affanno.

Finiscono le foglie dentro al sacco
che viene a gonfiarsi sempre più,
io sono rattrappito, ma non stacco.

Continuo a lavorare di ramazza,
spazzo anche il sudicio che viene giù
dal condominio, da ignota terrazza.

 

 

 

 

     


  

Lanose  macchie
   

Lanose macchie bianche
si muovono per il verde
lungo i tralci di vite
spogli.
Agreste quadro
a cui fa da cornice
la finestra del gabinetto
al primo piano della fabbrica.

L'operaio vorrebbe
togliere il vetro al quadro
e farsi personaggio
in quella tavolozza di colori,
ma
la mente
lo riporta al colore nero
della tuta da lavoro,
allo sciacquone
da tirare.

Nel mentre l'uomo
scende le scale
lo scroscio dell' acqua
è risucchiato
insieme all'attimo
goduto
nei cinque minuti
allentati dal ritmo produttivo .

 

 

 

 

     


   

Disoccupato
   

Sopra di me
i giorni si allungano
come pennellate di un imbianchino.
Mi sento spiaccicato
quale vernice
contro le mura della società.

Sono appena un colore
sbiadito,
mentre
vorrei essere pietra
nella costruzione dell' edificio.

Altra vernice
nel tempo mi coprirà.

Altri disoccupati...

 

 

 

 

     


   

Bruciato con l'estate
   

Oggi finisce di bruciare l'estate,
domani
il mese d'autunno
riporterà gli operai
nelle fabbriche.
Tute blu
e colletti bianchi
si affronteranno negli scioperi
per ideali diversi.

Inutilmente vado
nella memoria cercando
volti di operai,
compagni di lotta politica
e sindacale.
Rimango artigiano,
solo
e vuoto.

Mi sono bruciato con l'estate
il respiro dell'uomo libero
capace
di decidere la propria esistenza.
Vedo l'autunno
cupo di tempesta.

In famiglia
ancora un disoccupato.

 

 

 

 

     


 

Operai a tre mesi
   

Come tre zolle di terra
s'infrangono
sassi scagliati
contro la facciata gelida
dell'Università.

Uno dopo l'altro
inutilmente.

La rabbia è esplosa
nella pretesa
di un lavoro a tempo indeterminato,
che desse fisionomia sociale
a tre nullità umane:
Stefano... Salvatore ...
Marcello ...

Una dopo l'altra s'infrangono.
Hanno appena scalfito
l'imbiancatura di fresco
per l'anno accademico.

Su quelle zolle
non bagnerà pioggia,
in quelle zolle vento non seminerà
humus vitale.

Radici non germineranno,
ma
le zolle infrante,
ormai terra sporca inutile,
saranno spazzate via
da una scopa di saggina
non a tre mesi.