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Testa Rapata
di Giuliana Parigi

Loro se ne stavano a bivaccare appoggiati, accartocciati, a variopinti motori di tante marche diverse, ingurgitando bibite su bibite, merendine e patatine. Intorno a loro avevano realizzato, nel giro di un'ora, una discarica a cielo aperto. I più grandi in auto: sportelli aperti, musica ritmata a grande volume veniva sparata fuori. Era un soprafondo obbligatorio per il loro ritrovarsi, questa radio perennemente in funzione.

Lui alto, dritto, magro, allampanato arrivava quando meno te l'aspettavi. Profondissimi occhi neri e lunghe gambe mosse armonicamente e ritmicamente, pareva arrivare da un altro mondo.

"Testa rapata! Testa rapata!" loro lo apostrofavano così. E lui, che non faceva male a nessuno, che girava infaticabilmente per tutta la città, che entrava in ogni negozio e chiedeva cento lire "solo cento lire" da mettere nel suo secchio azzurro, lui che sorrideva sempre e ballava, lui alzava il volume della sua radio per non sentirli.

Un secchio e la radio questi erano tutti i suoi  beni.
Ogni volta che raggranellava un gruzzolo, andava nel negozio di Gigetto e faceva il cambio: lasciava la sua vecchia radio e ne prendeva una più grande.
Fu proprio quando era arrivato a possedere la radio di misura massima e doveva portarsela issata sulla spalla, che gliela rubarono!!

 

Pianse?
Altro che se pianse, lui che sorrideva sempre.
Ma con tenace caparbietà, cento lire dopo cento lire, strada dopo strada, sole, vento, acqua a scroscio o pioggerellina che ci fossero, riebbe la radio: un piccolo transistor, l'unico suo collegamento con il mondo. Ascoltava devotamente tutti i notiziari dal primo sorgere del sole a notte fonda.

Al dormitorio, se trovava un orecchio attento, ripeteva le notizie, meglio del sommario.

E sprofondava in un sonno fanciullesco.

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