Le dissero " Si accomodi pure".
Li guardò con aria interrogativa e con fare incerto si
mise meglio su quella scomoda poltroncina sulla quale era seduta
da quasi due ore cercando di capire e di rispondere alle domande.
Si tirò la minigonna il più possibile sulle ginocchia
e portò una mano a coprire la scollatura.
Fu il turno di loro a guardarla dubbiosi; poi ripeterono la frase
accompagnandola con il gesto della mano. Quel gesto che indicava
la porta la fece sorridere ed alzarsi lentamente... caso mai
non avesse capito ancora... faceva in tempo a risedersi. Si tirò
di nuovo la minigonna verde cupo con fili dorati e poiché
loro già non la guardavano più e mettevano via
la cartellina sulla quale avevano scritto fino ad allora, infilò
la porta con piglio deciso.
Il corridoio lungo e largo aveva finestre alte e larghe da una
sola parte: non si scorgeva cosa ci fosse dietro. Anche se l'ora
era davvero insolita, gente andava e veniva.
Tutti la guardavano. Sapeva di avere un incedere da regina e
un fisico bello. Non si era ancora abituata a quegli sguardi
..... li esorcizzava accentuando l'andatura regale e stampandosi
in faccia un espressione altezzosa e di distanza.
Quando fu sul terzo gradino che la portava in strada si rese
conto di essere scalza e di aver percorso il lungo corridoio
in punta di piedi come se stesse calzando uno dei suoi tanti
sandali con tacco vertiginoso a spillo.
Si fermò a considerare la situazione. Non sapeva da che
parte della città fosse. Era senza scarpe e anche senza
borsa... quindi niente soldi, niente cellulare e niente documenti
il che, data la sua situazione, abbastanza pericoloso mettersi
in giro alle..... guardò l'orologio... cinque di un venerdì
mattina.
Le venne fatto di alzare gli occhi al cielo. Sarebbe stata una
bella giornata dopo quasi una settimana di pioggia e vento. Il
cielo lattiginoso non era uno spettacolo nuovo per lei: spesso
rientrava a casa proprio a quell'ora. Nessuno avrebbe avuto niente
a ridire!
Risalì gli scalini
ed entrò nel portone nello stesso istante che un ragazzone
dal colorito latteo e dai capelli rossicci se ne stava andando
fischiettando con una grossa borsa blu a tracolla.
" Scusi" lo apostrofò lei... così d'istinto
" non potrei avere un paio di scarpe per tornare a casa?"
E gli mostrava i piedi scalzi tirando di nuovo il più
possibile la gonnellina verde con fili d'oro.
Guardò i piedi, guardò lei: prima il viso e poi
tutto. Con una voce impacciata e incredula disse:
" Che numero porta?"
" Come?" disse lei
" Voglio dire che taglia, che misura"
" Già! Il 40"
" Il 40?"
" Sì, perché? Ma va bene tutto anche degli
scendiletto. Giusto per arrivare a casa"
La guardava sempre più frastornato. Poi appoggiò
la sacca per terra e le disse di aspettare.
Tornò
sorridente con un paio di scarponi da militare e sventolò
trionfante anche un paio di calzettoni.
Si sedette sugli scalini e si infilò il tutto continuando
a ringraziarlo.
Quando fu in piedi lui rise di cuore per com'era combinata. Lei
fece spallucce e si avviò.
Camminava con eleganza anche con gli anfibi ai piedi. Si fermò
di colpo e girata indietro con i setosi capelli biondi che le
dondolavano intorno al viso, chiese dove doveva riportare le
scarpe e come si chiamava.
Lui, che era rimasto incantato sul portone con il borsone per
terra, corse vicino a lei.
" Scusa ma dove abiti?"
" In Via Mazzini"
" Accipicchia! E' dalla parte opposta! E ci vai a piedi?"
" Per forza! Non ho più la borsa"
" Ti accompagno, se vuoi"
Non rispondeva niente e stava a capo chino, pensosa.
" Allora. Deciditi. E' un po' tardi, vorrei andare a dormire"
Fece cenno di sì e i setosi capelli biondi dondolarono
di nuovo.
Tutta la conversazione in macchina fu questa:
Lui - Come ti chiami?
Lei - Deiva
Lui - Sei straniera?
Lei - Sì
Lui - Io mi chiamo Salvo
Lei - Sei Italiano?
Lui - Eccome! Sono siciliano
Lei - Un siciliano è più italiano degli altri?
Lui - Io dico di sì
Lei - Una mia amica dice che i siciliani sono più africani
Nelle vicinanze del portone c'era una piccola folla; parecchi
erano giornalisti.
" Aspettano te! Cavoli! Ti faranno a pezzi! Ma cosa hai
combinato?"
Girò velocissimo la macchina.
Pallida come un morto lei disse: " Tanto non potevo entrare
in casa. Le chiavi sono dentro quella maledetta borsa. E' rimasta
lì in macchina insieme ai miei sandali. Mi è venuto
in mente tutto troppo tardi. Li avranno presi i tuoi colleghi?
O saranno ancora lì.... potremmo andare a riprenderli...
ma tu devi andare a dormire. Grazie. Lasciami alla stazione.
Starò un po' lì. So come cavarmela."
E cominciò a piangere sommessamente. Solo le lacrime scendevano
a fiumi. Nemmeno un suono.
" Ti porto da mia sorella. Domani vedremo. Ora sono troppo
stanco."
Scese il silenzio. Se prima avevano abbozzato un minimo di conversazione
ora nessuno fiatò. Le loro menti erano impegnate a mettere
in fila i fatti e le emozioni.
Fermò la macchina
davanti ad una palazzina . Scese a prendere il borsone dal bagagliaio
ma lei non scendeva. Le aprì lo sportello; cominciava
ad innervosirsi e senza parlare le fece cenno di scendere.
" Ma tua sorella cosa dirà?"
" Nulla." Tagliò corto e le porse la mano sospirando.
Per arrivare al portone
si attraversava un giardino con a destra rose, gerani, lilla,
margherite tutte in fiore e di là alberi da frutta senza
fiori e senza frutti ma verdi di un fogliame rigoglioso. Qualcuno
aveva molta cura di quello spazio.
C'erano tre campanelli. Lui suonò a quello del terreno.
Nessuno chiese chi è : il portone venne aperto. Salirono
tre gradini, attraversarono una porta a vetri colorati giallo,
blu e verde e sulla sinistra trovarono una porta aperta con una
donna giovane già vestita di tutto punto a quell'ora mattiniera:
camicetta bianca, gonna lunga e svasata, blu.
" Ciao, Salvo." Si abbracciarono stretti.
" Ti porto Deiva. E' straniera. Non so bene come stiano
le faccende. Hai posto, sorellina?"
" No. Ma troveremo la soluzione. Piuttosto te stai cascando
di sonno. Fermati. Vai in camera mia; tanto noi fino alle quattro
del pomeriggio non vi entriamo. Avverto le altre."
Si aprì una porta e ne uscì una giovane donna malconcia
in viso con in braccio un bimbo piccolo che strillava senza riprendere
fiato.
" E quella? " disse Salvo
" Maltrattamenti in famiglia; diciamo così. L'attuale
convivente non era proprio un gentiluomo.
Non chiedermi altro : è arrivata stanotte anche lei."
Intanto altre due signore vestite in camicetta bianca e blu avevano
preso in consegna la madre ed il piccolo.
Deiva entrò nella
stanza dalla quale era uscita la giovane. La sorella di Salvo
fece girare uno sportello che sembrava un armadio e ne venne
fuori un letto.
Aveva già lenzuola e coperte.
" Sono pulite!" Sorrise poi aggiunse "Ci manca
il cuscino. Puoi fare senza?"
Deiva sgranava gli occhi cercando di capire. Si sedette sul letto.
Le fu porto un pigiama che era stato tirato giù da un
sacco sopra una scaffalatura.
" Penso ti vada bene. Buonanotte. Un'altra cosa. Se hai
bisogno noi siamo in fondo al corridoio. Apri pure la porta.
Hai capito?"
" Si. Grazie"
Deiva si era dimenticata di chiedere dove si trovava, ma per
quello c'era tempo anche il giorno dopo. Aveva bisogno urgente
del bagno, e quella era una faccenda del momento.
Si guardò intorno. C'erano altri due letti. La scaffalatura
e degli armadietti. C'era anche una porta.
Per fortuna era proprio il bagno!
Quando uscì dal bagno era tornata la madre con il bambino
che pareva essersi calmato. Entrò una di quelle signore
e portò un lettino per bimbo. Dovettero fare molte manovre
per farcelo stare nella stanza.
Poi fu tutto silenzio. Deiva si sdraiò nel suo pigiama
a fiorellini azzurri, bianchi e rosa e come sempre succede, nonostante
cascasse dal sonno e dalla stanchezza per la tensione non riusciva
proprio a dormire. La sua mente era vuota. E sentiva tutti i
sensi all'erta come se ci fosse un imminente pericolo. Eppure
quello strano posto mandava segnali di pace, di abbandono.
Pensò a Salvo che certamente dormiva nella stanza accanto.
Avrebbe voluto averlo lì vicino. Poteva sempre alzarsi
e andare a dormire di là, pensò. Ma rimase lì.
Sarà passata si e no una mezz'ora quando il bambino cominciò
di nuovo a piangere come un disperato. Sembrava più un
pianto di adulto.
La madre si alzò e se lo mise accanto. Deiva accese la
luce.
" Mi dispiace, ti abbiamo svegliata"
La voce della madre era affranta: pareva un concentrato del dolore
del mondo.
" No. Non dormivo" disse con dolcezza Deiva. Poi scansando
una seggiola si portò vicino al suo letto e porse le braccia
verso il bambino.
" Dallo a me. Così forse per un poco dormirai."
Il piccolo, un riccioluto nero come la pece con due piccoli occhi
altrettanto neri, non fece nessuna opposizione a quel cambio di braccia:
era intento a urlare con tutto il fiato che aveva in corpo.
Deiva tentò di girare per la stanza ninnandolo, ma non
c'era spazio. Allora andò nel bagno e chiuse la porta
e cominciò a cantargli sommesse nenie della sua terra.
Calmò il forte pianto, ma era scosso a intervalli sempre
più lunghi da fremiti e sospiri. Quando finalmente Deiva
lo sentì abbandonato nelle sue braccia fu lei che si mise
a piangere seduta sulla seggetta del water.
Si aprì di botto la porta. Apparve la madre impaurita
e, quando li vide, si scusò dicendo che non sentendo più
niente...... Cominciò a vomitare anche l'anima riversa
sul lavandino. Sudata, bianca e scomposta.
Deiva appoggiò delicatamente il piccolo nel lettino pregando
in cuor suo che non si svegliasse e corse a reggere la fronte
della madre.
Quando tutto fu finito sembrava un'altra persona: ancora orrenda
con quelle ferite e lividi ma serena
" Quanti mesi ha?" chiese timidamente Deiva indicando
il lettino.
" Otto" E un sorriso stirato apparve su quelle povere
labbra tumefatte.
" Anche il mio ne avrebbe avuti otto di mesi. Proprio otto."
La madre toccò complice e consolatoria il braccio di Deiva.
Non dissero più nulla e si misero a dormire: era mattina
inoltrata.
Da fuori non veniva alcun rumore.
Deiva, prima che il sonno la rapisse, fece in tempo a ricordarsi
che aveva abortito tre volte.
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