LA GIORNALISTA CHE SAPEVA


LA DISCUSSA GIORNALISTA DEL NEW YORK TIMES, PREMIO PULITZER, RACCONTA CHE FIN DAL MESE DI LUGLIO DEL 2001 SI TEMEVA UN ATTENTATO DIRETTO ALL’AMERICA.
Tratto da www.effedieffe.com.

NEW YORK. Judith Miller, l'ex giornalista del New York Times che sapeva tutto sulle armi di Saddam mai ritrovate, sostiene adesso che fonti di intelligence del governo americano l'avevano avvertita nel luglio del 2001 che al Qaeda si preparava a colpire gli Stati Uniti. Ma se nel caso dell'Iraq lei aveva fatto da cassa di risonanza per notizie sbagliate, che la Casa Bianca voleva accreditare per giustificare la guerra, stavolta la sua confessione danneggia Bush, che avrebbe trascurato gli allarmi dell'intelligence.

La Miller, già premio Pulitzer, è forse la giornalista più controversa degli Stati Uniti. Prima della guerra aveva scritto molti articoli, basati soprattutto sulle soffiate dell'oppositore iracheno Ahmed Chalabi, che garantivano l'esistenza delle armi di distruzione di massa. Erano pezzi così schierati che dopo il conflitto, quando la stessa Miller al seguito dei militari Usa non aveva potuto annunciare il ritrovamento degli ordigni, il Times era stato costretta scusarsi pubblicamente. Poi era scoppiato il «Ciagate», perché qualcuno aveva rivelato l'identità dell'agente Valerie Plame allo scopo di punire il marito Joseph Wilson, un ex ambasciatore che aveva smentito i traffici di Saddam per comprare materiali nucleari vietati in Niger. Anche qui la protagonista era stata Judith, finita in galera 85 giorni per non svelare che a lei la notizia l'aveva data Lewis Libby, ex capo dello staff del vicepresidente Cheney ora incriminato. All'inizio la Miller aveva fatto la figura dell'eroina, ma poi la sua immagine si era corrotta in quella di alleata della Casa Bianca che cercava solo di proteggere i suoi amici.

Ora, con questo bagaglio sulle spalle, Judith ha fatto una nuova rivelazione che potrebbe imbarazzare il presidente Bush, oltre al proprio giornale. Parlando con Rory O'Connor e William Scott Malone, reporter di un sito internet, ha detto che lei sapeva degli attacchi imminenti di Al Qaeda, perché tutta la comunità dell'intelligence se li aspettava. Già nell'ottobre del 2000, quando i seguaci di Bin Laden avevano colpito la nave americana Cole nel porto di Aden, un programma sperimentale di spionaggio chiamato «Able Danger» aveva avvertito in anticipo del pericolo i superiori, fra cui il generale Tommy Franks, che però non avevano preso precauzioni.

Nel frattempo Bush aveva sostituito Clinton alla Casa Bianca, e la Miller si era messa a lavorare su Al Qaeda. «Sentivo voci di intercettazioni intensificate, ma erano vaghe. Ricordo in particolare il fine settimana del 4 luglio 2001, perché per qualche ragione le persone interessate ad Al Qaeda credevano che allora sarebbe avvenuto un attacco negli Stati Uniti, o contro un obiettivo americano all'estero». Pochi avevano preso sul serio quell'allarme, «perché alla Casa Bianca i funzionari dell'antiterrorismo erano considerati estremisti». E infatti non era accaduto nulla. Judith, però, aveva parlato con una fonte dell'intelligence che le aveva spiegato il motivo della preoccupazione: «Si trattava di un'intercettazione. L'incidente che aveva attirato l'interesse di tutti era stato un colloquio fra due membri di Al Qaeda. I due si lamentavano del fatto che gli Stati Uniti non avevano reagito in maniera più seria all'attentato contro la Cole. Quindi uno aveva detto all'altro: “Non ti preoccupare. Ora stiamo preparando qualcosa di così grande, che gli Usa dovranno rispondere"».

La Miller aveva riportato la notizia al suo capo del Times, Stephen Engelberg, che ha confermato l'episodio. Alla fine però avevano deciso di non pubblicarla, perché non possedevano abbastanza dettagli. La confessione di Judith è imbarazzante per Bush, in quanto la sua «gola profonda» aveva parlato proprio perché non riusciva ad ottenere attenzione dal presidente, cosa di cui si è lamentato spesso Richard Clarke, ex capo dell'antiterrorismo alla Casa Bianca. Il 6 agosto del 2001, poi, Bush aveva ricevuto un famoso «PDB», il briefing quotidiano della Cia, intitolato «Bin Laden è determinato a colpire negli Stati Uniti». Ma neanche questo campanello d'allarme aveva fatto scattare misure d'emergenza.






Nella nota lobby, segnali di panico.
Di Maurizio Blondet.

WASHINGTON - «Nel luglio 2001 una mia fonte alla Casa Bianca mi disse che un rapporto della NSA prevedeva un grande attacco di Al-Qaeda, probabilmente all’interno degli Stati Uniti. Un attentato grosso e ben coordinato».
La rivelazione viene da Judith Miller, già famosa giornalista del NewYork Times e premio Pulitzer, ora in disgrazia per aver passato false notizie sulle armi atomiche di Saddam, diffondendo le menzogne in proposito messe in giro da Dick Cheney e i neocon del Pentagono.
Il New York Times dovette scusarsi per le false informazioni della sua miglior giornalista, e la licenziò nell’agosto dell’anno scorso.
Ora, in una intervista esplosiva ad Alternet.com (1) l’ex famosa giornalista ha raccontato anche questa: dava notizie false, e tacque quella vera.
Ed essenziale.
«Ritengo che tutti sapessero [alla Casa Bianca] che stava per avvenire un attentato, tutti quelli che seguivano le faccende dell’anti-terrorismo», ha detto la Miller.
E si è rammaricata di quell’articolo non scritto.
Ne parlò, ha detto, al suo direttore di allora, Steve Engelberg.
«Capivo che una simile informazione era molto, molto delicata. Steve mi disse di scavare, di cercare conferme. Lui sapeva chi era la mia fonte. Sapeva che era impeccabile. Sapeva che avevo conferma da una seconda fonte».
E tuttavia, Engelberg decise di non pubblicate una riga sull’attentato imminente.

Steve Engelberg, ora anche lui in disgrazia (è direttore dell’ Oregonian, un giornale locale di Portland) ha confermato tutto.
«Più volte mi sono chiesto cosa sarebbe successo se avessi pubblicato l’articolo» sulla previsione di cui gli aveva parlato Judith Miller; «sarebbe parso allarmista, non avrei potuto giustificarlo; ma non posso fare a meno di pensare che ho fatto la scelta sbagliata».
La rivelazione della Miller mette ancor più nei guai Bush e il suo staff; hanno sempre sostenuto di non aver avuto il minimo sentore di quel che accadde l’11 settembre.
Ora invece la versione ufficiale viene smentita da una giornalista che, fino a ieri, è stata loro complice: alla Casa Bianca circolava un rapporto della National Security Agency che già gettava l’allarme a luglio.
Ma la cosa è ancora più grave.
Judith Miller, ebrea, era una complice ideologica della cricca di potere.
Vicinissima a Wolfowitz, Perle e ai capi neoconservatori che preparavano la futura invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, e avevano bisogno solo di un pretesto, «una nuova Pearl Harbor» (2), per lanciare le loro guerre.

Il fatto che la Miller ed Engelberg, ebreo e neocon come lei, rivelino adesso queste verità scottanti, può segnalare che - sentendo che Bush e Cheney sono nei guai e possono essere chiamati a rispondere di atti gravissimi (fra cui in prospettiva di avere non solo non impedito, ma provocato l’11 settembre) - i due giornalisti vogliono chiamarsi fuori dalla faccenda, non essere coinvolti nelle trame neocon.
Può essere un segno di panico.
Può anche darsi che la «soffiata» che la fonte anonima fece alla Miller, giornalista di fiducia della Casa Bianca, fosse intesa ad avvertirla in anticipo di chi lei doveva accusare, quando l’attentato fosse avvenuto: Al-Qaeda e Bin Laden.
C’è più di un indizio che il potere dei neocon filo-israeliani è sotto attacco.
Il più recente è questo: l’ufficio legale del Pentagono vuole togliere ai dipendenti del Pentagono con «doppia cittadinanza israeliana e americana» la «clearance», ossia l’autorizzazione ad accedere a documenti segreti (3).
Per giustificare questa misura, gli avvocati del ministero della Difesa americana citano il caso di Steven Rosen e Keith Wasserman, i due capi della lobby ebraica AIPAC (American-israeli political action committee) che sono sotto processo per essersi fatti dare da un funzionario del Pentagono, Larry Franklin, informazioni segrete, subito passate all’ambasciata israeliana. Franklin si è già dichiarato colpevole: per i due potenti lobbisti, c’è il rischio concreto di una condanna per tradimento e spionaggio.

Gli avvocati del Pentagono ricordano nel loro rapporto che «Israele spia attivamente gli Stati Uniti», e che lo spionaggio da parte di americani con doppia lealtà è provato «in un numero insolitamente alto di casi».
E’ un fatto senza precedenti, che segue ad altri segnali sinistri per i neocon.
Da una parte, nei ranghi dell’armata e dei servizi monta una resistenza crescente al bombardamento delle installazioni atomiche dell’Iran, caldeggiato e voluto con pressioni enormi dalla lobby. Dall’altra, i gruppi di pressione ebraici non sono riusciti a sopprimere e a screditare lo studio sulla «Israeli Lobby» stilato dai due celebri professori Mearsheimer e Walt.
Anzi quel saggio ha avviato un’ampia discussione sul tema proibito della politica estera americana: fino a che punto sostenere Israele sempre e comunque coincide con gli interessi degli Stati Uniti? Un tabù è stato rotto; la proposta di ritiro della «clearance» agli americani con passaporto israeliano può esserne solo il segno iniziale.
E il segnale allarma enormemente la comunità ebraica.
«La sola possibile ragione per sollevate la questione della doppia cittadinanza è di implicare qualcuno per i suoi legami con Israele, un modo per dire che non ci si può fidare di lui», ha detto Sheldon Cohen, un avvocato ebreo che si occupa del caso.

«C’è un’aria di maccartismo, di caccia alle streghe», ha gridato un altro avvocato, David Schoen, che difende un israelo-americano, ingegnere alla Lockheed, che si è visto rifiutare l’accesso a documenti segreti perché la Lockheed lavora per il Pentagono.
E il rabbino Shmuel Herzfeld, capo della comunità ebraica a Washington, fino a ieri ben inserita nei centri del potere, lamenta che il ritiro di autorizzazioni è sempre più frequente.
«Mi arriva gente da tutto il Paese a dirmi che gli sono stati tolti i mezzi di guadagnarsi la vita [nel settore militare-industriale, ndr.] solo per il fatto che sono ebrei».
La lobby sull’orlo di una crisi di nervi?

Maurizio Blondet.


Note e fonti:
1) Rory O’Connor e William Scott Malone, «The 9/11 story that got away», AlterNet, 18 maggio 2006.
2) Nel 2000 il PNAC (Project for a new American Century), il centro più importante dei neoconservatori, pubblicò un documento dal titolo «Rebuilding America’s Defence» in cui sosteneva che una mobilitazione e rinnovamento delle forze armate, e della volontà imperiale americana, non sarebbero avvenute senza «un evento catastrofico e catalizzatore, una nuova Pearl Harbor». Il documento era firmato da Paul Wolfowitz, Bill Kristol, Richard Perle, Dov Zackheim, Douglas Feit, insomma da tutte le personalità ultra-sioniste che di lì a poco sarebbero entrate al Pentagono come consulenti e viceministri. Che l’11 settembre ebbero la loro desiderata nuova Pearl Harbor.
3) «Pentagon denying israelis security clearance», YnetNews, 18 maggio 2006. la YnetNews è un’agenzia ebraica.

 

 

 

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