Corte di Cassazione, Sez. lav., sentenza 28 giugno 2001, n. 8859 (udienza 16 marzo 2001 |
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Pres. Amirante – Rel. Coletti – Vayr (Avv. ti Vacirca e Sonetto) c. INAIL (Avv. ti Catania, De Ferrà), c. IVECO Spa (Avv.ti Tamajo, Bonamico, Borsotti), c. FIAT AVIO Spa (Avv.ti Tamajo, Bonamico, Borsotti), c. INPS (Avv.ti De Angelis, Di Lullo). Benefici pensionistici – Lavoratori esposti a polveri d’amianto – Art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 – Interpretazione – Spettanza non generalizzata del beneficio da esposizione ad amianto ma circoscritta individualmente a chi abbia provato di essere stato esposto a valori soglia di inalazione di fibre presenti nell’ambiente lavorativo in misura eccedente quella fissata (a fini di prevenzione rischi per la salute) dal d. lgs. n. 277 del 1991. Risponde a criteri di coerenza logica, da presumersi essere sottesi ad ogni intervento legislativo, ritenere che la legge n. 257 del 1992 abbia tenuto presente – nel momento in cui interveniva su un assetto industriale caratterizzato da un vasto panorama di imprese esposte in maniera differenziata al rischio amianto – il decreto legislativo n. 277 del 1991 (che difatti ha essa stessa provveduto a modificare tramite l’art. 3, comma 4); decreto che, in attuazione delle direttive europee (in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici), fissava, agli artt. 24 e 31, i limiti di concentrazione di fibre di amianto respirabili nei luoghi di lavoro, stabilendo anche, in caso di necessità di svolgimento dell’attività lavorativa e di impossibilità di rimuovere le cause di inquinamento con misure adeguate, “tutte le misure di protezione dei lavoratori addetti e dell’ambiente, tenuto conto del parere del medico competente” (cfr. commi 4 e 5 dell’art. 31). Tanto
porta ad escludere che il provvedimento normativo del 1992 abbia voluto
attribuire il beneficio della rivalutazione (nella specie rivendicato) a
tutti i lavoratori comunque esposti ad inalazione di polveri di amianto
anche di minima entità, abbia voluto cioè attribuire detto beneficio
anche ai soggetti destinati a spiegare la loro attività in ambienti in
cui fosse presente una concentrazione di fibre di amianto destinata a
rimanere al di sotto dei valori limite legislativamente
ritenuti a rischio e individuabili in quelli indicati negli artt.
24 e 31 del d.lgs. n. 277/1991. E questa conclusione riceve un decisivo avallo della considerazione che una diversa interpretazione finirebbe per legittimare un notevole “sforamento” di ogni pur attendibile previsione di spesa, portando perciò a ipotizzare quella violazione dell’art. 81 Cost., che la Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza n. 5/2000, ha escluso sulla base della (più restrittiva) tesi che individua la necessità di un duplice requisito per l’acquisizione del diritto al beneficio di cui all’art. 13, comma 8, della legge n. 297/1992: vale a dire il dato temporale (almeno dieci anni di esposizione) e la presenza nell’ambiente di lavoro di una concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite fissati dal d.lgs. n. 277/1991.
Svolgimento
del processo. – Bruno Vayr, con ricorso in data 13 aprile 1995 al
Pretore di Torino, conveniva in giudizio la società Fiat Avio spa e
l’INPS per sentir dichiarare il proprio diritto al beneficio previsto
nell’art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992 n. 257 e consistente
nell’applicazione del coefficiente moltiplicatore 1.5 al periodo
lavorativo dal 9.9.1960 al 1985, sul presupposto di una sua asserita
pregressa esposizione alla inalazione i fibre i amianto a causa della
specifica attività manuale prestata in lavorazioni a rischio presso varie
aziende del gruppo. Lamentava
che l’INAIL non aveva rilasciato alcuna dichiarazione attestante tale
esposizione al rischio specifico, nonostante le sue richieste, per cui
ipotizzava la necessità di chiamare in causa anche l’INAIL e chiedeva,
in particolare, che venisse accertato che presso lo stabilimento Fiat
Grandi Motori di via Cuneo a Torino, presso il quale aveva lavorato per
lunghissimo tempo, venivano svolte lavorazioni soggette
all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali
derivanti dall’esposizione all’amianto. Si
costituiva la spa Fiat Avio che eccepiva la propria carenza di
legittimazione passiva per il periodo antecedente al 1977, data nella
quale era stata costituita, mentre, in fatto, contestava che il Vayr, per
le mansioni svolte presso di essa, fosse mai stato esposto a fibre di
amianto. All’udienza
del 31 maggio 1995 il Pretore disponeva di ufficio la integrazione del
contraddittorio nei confronti delle società Iveco s.p.a. e Fiat s.p.a.
nonché, su richiesta del ricorrente, dell’INAIL. Le
due società intervenute chiedevano il rigetto della domanda, come pure
l’INAIL, il quale eccepiva anche la propria carenza di legittimazione
passiva. Con
sentenza in data 30 aprile 1998 il Pretore, accogliendo il ricorso del
Vayr, dichiarava il diritto del ricorrente a beneficiare dell’incremento
pensionistico ex art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 e successive
modifiche quanto al periodo lavorato dal settembre 1960 al dicembre 1973
alle dipendenze della Fiat spa presso lo stabilimento Grandi Motori di
Torino; conseguentemente condannava l’INPS, l’INAIL e la Fiat spa, in
solido tra loro, a pagare le spese di CTU e a rifondere al ricorrente le
spese di lite; compensava tali spese quanto ai rapporti tra il ricorrente,
da un lato, e la Iveco spa e Fiat Avio spa dall’altro, nonché ai
rapporti tra l’INAIL e la Fiat Avio spa. Avverso
tale sentenza proponevano appello l’INAIL, l’INPS, la Iveco spa, la
Fiat spa e la Fiat Avio spa, chiedendone la riforma. Il
Vayr resisteva e chiedeva, comunque, la declaratoria dell’intervenuto
giudicato su quelle parti della sentenza contro le quali non erano stati
volti specifici motivi di gravame. Con
sentenza in data 2 settembre 1999 il Tribunale di Torino dichiarava
improponibile la domanda nei confronti dell’INAIL, della Fiat Avio spa,
della Iveco spa e della Fiat spa , mentre la respingeva nei confronti
dell’INPS sulla base delle seguenti considerazioni. Il
giudice di appello ha interpretato la previsione dell’art, 13, comma 8
della legge n. 257/1992, nel testo sostituito dal decreto-legge n.
169/1993, convertito con modificazioni dalla legge n. 271/1993, nel senso
che essa si riferisce ai soli lavoratori che, a seguito della soppressione
della lavorazione dell’amianto, sarebbero stati coinvolti nella crisi e
per i quali urgeva fornire misure che consentissero l’aumento della
anzianità assicurativa, non più conseguibile attraverso il reimpiego nel
settore; non dunque a tutti coloro che, nell’arco della loro attività
lavorativa, siano stati esposti ad amianto, ma unicamente ai lavoratori
che tale esposizione abbiano subito in quanto dipendenti di quelle aziende
costrette a dismettere la lavorazione o l’estrazione dell’amianto a
seguito della legge n. 257/1992. In tal modo individuati la “ratio”
della norma e l’ambito della sua operatività, ha affermato il Tribunale
la insussistenza del diritto rivendicato, dal momento che il Vayr era
stato dipendente della Fiat spa, poi della Iveco spa e successivamente
della Fiat Avio spa, cioè di aziende nessuna delle quali aveva mai
partecipato ai processi produttivi individuati dagli artt. 1 e 2 della
legge n. 257/1992. Non solo,
in base a quanto ricostruito dalla sentenza del Pretore, il lavoratore
aveva svolto mansioni che in astratto potevano averlo esposto al rischio
amianto solamente per il periodo in cui era stato alle dipendenze della
Fiat spa settore “Grandi Motori”, cioè solamente fino al 1973, mentre
in seguito e per oltre vent’anni aveva svolto altri tipi di attività;
ciò che rendeva inverosimile ipotizzare che egli rientrasse tra i
soggetti ai quali, per ovviare al rischio di non poter trovare altra
collocazione sul mercato del lavoro a causa della dismissione delle
lavorazioni dell’amianto, la legge del 1992 e successive modifiche
riservava il beneficio della supervalutazione. In ogni caso, ha concluso
il Tribunale, unico soggetto passivamente legittimato, rispetto a
richieste di accertamento del diritto previsto dall’art. 13, comma 8
della stessa legge era l’INPS; con la conseguenza che la domanda nella
specie proposta con il ricorso introduttivo doveva essere respinta nei
confronti dell’Istituto previdenziale, mentre doveva essere dichiarata
improponibile nei confronti delle altre parti (INAIL e datori di lavoro),
tanto più che verso tali soggetti era limitata a una richiesta di
rilascio (o di condanna al rilascio) della attestazione circa la
esposizione all’amianto, che non era idonea a legittimare, di per sé
sola, una autonoma azione giudiziale, riguardando un mero presupposto del
diritto che il ricorrente intendeva far valere. Ricorre
per la cassazione di questa sentenza Bruno Vayr con quattro motivi. Resistono
con controricorso le società Fiat spa, Iveco spa, Fiat Avio spa nonché
l’INPS e l’INAIL. Hanno prodotto successiva memoria il Vayr e la Fiat
spa.
Motivi
della decisione.
Con
il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 112 e 324
c.p.c. nonché dell’art. 2909 cod. civ., vizio di omesso esame di fatti
decisivi e difetto assoluto di motivazione. Sostiene che, con i rispettivi
atti di appello, le società Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio spa, nonché
l’INPS e l’INAIL avevano messo in discussione solo alcune parti della
sentenza di primo grado, omettendo di censurare specificamente gli
accertamenti preliminari contenuti nel dispositivo della decisione
pretoriale relativamente all’avvenuta esposizione al rischio specifico
amianto presso gli stabilimenti della Fiat spa, sicchè su tali
accertamenti si era formato il giudicato e la sentenza di appello non
poteva in alcun modo ritenersene investita. Il
motivo non è fondato. Non
può invero condividersi l’assunto del ricorrente secondo il quale si
sarebbe formato il giudicato sulla sua avvenuta esposizione al rischio
specifico amianto per mancata impugnazione del relativo accertamento
contenuto nella sentenza del Pretore, atteso che la formazione del
giudicato sui capi della sentenza di primo grado non investiti
dall’impugnazione può verificarsi soltanto con riferimento ai capi di
detta sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni
affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di gravame, perché
fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto tali da consentire
che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri
vengono meno, e non con riguardo ad affermazioni contenute nella
sentenza stessa che costituiscano mera premessa logica della statuizione
adottata (v. per tutte sul punto Cass. 15 settembre 1999 n. 9823, 9
novembre 1992 n. 12062). Nel
caso concreto, appare evidente che l’affermazione del Pretore circa la
esposizione del Vayr a fibre
di asbesto nel periodo (dal settembre 1960 al dicembre 19) in cui fu
occupato alle dipendenze della Fiat è inidonea al giudicato, in quanto
non ha costituito una autonoma statuizione su questione controversa, ma è
stata enunciata soltanto al fine di dare rilevanza a detta esposizione, in
relazione alla pretesa del lavoratore di riconoscimento del beneficio
della supervalutazione dei periodi di contribuzione previsto dall’art.
13, comma 8 , della legge n. 257 del 1992, che costituiva l’oggetto
della domanda giudiziale dallo stesso proposta. Al
che è da aggiungere che il giudicato su un punto di fatto,
sull’accertamento cioè di un fatto storico compiuto dal giudice per
pronunciarsi sulla situazione di vantaggio dedotta in giudizio è del
tutto estraneo al sistema, dal momento che la tutela giurisdizionale – e
quindi la sentenza che di essa è il frutto – è strumentale
all’accertamento della esistenza o inesistenza del diritto (o del
rapporto) dedotti in giudizio come “petitum” o, al limite, come si
sostiene da una parte della dottrina, di diritti distinti da quello
controverso, ma integranti un elemento della fattispecie costituiva di
esso (c.d. diritti pregiudiziali). Con
il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 13 commi 7
e 8 della legge 27 marzo 1992 n. 257, come modificato dalla legge 4 agosto
1993 n. 271, errata applicazione della stessa norma nel testo modificato
dal d.l. 5 giugno 1993 n. 169 non convertito in legge, falsa applicazione
degli artt. 1 e 2 della legge n. 257/1992, omesso esame di fatti decisivi
e di difetto assoluto di motivazione, di violazione del d.p.r. 13 aprile
1994 n. 336, vizio di motivazione illogica e contraddittoria. Sotto un
primo profilo – la individuazione cioè dei soggetti destinatari del
beneficio della rivalutazione – assume che il giudice di appello ha dato
applicazione a una disposizione non convertita in legge (l’art. 13,
comma 8, nel testo di cui al d.l. n. 169/1993) anziché alla norma
vigente, costituita dal testo dell’art. 13, comma 8, introdotto dalla
legge n. 271/1993, la quale ha esteso tale beneficio a tutti i lavoratori
(indipendentemente dal settore merceologico di appartenenza del datore di
lavoro) esposti al rischio derivante dall’inalazione di fibre di
amianto. Sotto un secondo profilo – inerente alla esposizione a rischio
– osserva che la tutela previdenziale non è limitata ai soli casi in
cui vi sia stata esposizione di livello tale da determinare il concreto
rischio di asbestosi, ma è estesa a tutti i casi in cui vi sia stata
esposizione del lavoratore all’amianto (esposizione accertata nel caso
concreto con statuizione non impugnata). Questo
motivo è fondato nei limiti delle considerazioni che seguono. La
questione sottoposta, nella prima parte, all’esame della Corte concerne
l’interpretazione dell’ottavo
comma dell’art. 13 della legge 27 marzo 1992 n. 257, il cui testo
vigente è il seguente: “Per i lavoratori che siano stati esposti
all’amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo
lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali derivanti dalla esposizione all’amianto, gestita
all’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche,
per il coefficiente di 1,5”. La
noma è il risultato di successive modifiche apportate in sede legislativa
in quanto, nella sua iniziale formulazione, disponeva, ai fini del
conseguimento delle prestazioni pensionistiche, la rivalutazione dei
periodi di lavoro soggetti ad assicurazione obbligatoria contro le
malattie professionali derivanti dalla esposizione all’amianto gestita
dall’INAIL, quanto detti periodi superavano i dieci anni. Una
prima modifica dell’originario testo si ebbe con il decreto legge 5
aprile 1993 n. 95, che individuava nei lavoratori occupati nelle imprese
di cui al comma 1 dell’art. 13 della legge n. 257 del 1992 (vale a dire,
nelle imprese che utilizzano ovvero estraggono amianto, impegnate in
processi di ristrutturazione e riconversione produttiva) i destinatari del
beneficio della supervalutazione del periodo contributivo ed, affrontando
per la prima volta il problema dell’oggetto della rivalutazione,
disponeva che la stessa interessava “l’intero periodo” lavorativo
soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali
derivanti dalla esposizione all’amianto, ponendo così fine a possibili
operazioni ermeneutiche dirette a computare, invece, ai fini della
supervalutazione dei contributi, solo il periodo eccedente i dieci anni di
esposizione. La
non conversione del suddetto decreto e l’intento di delimitarne più
chiaramente l’ambito operativo condussero al decreto legge 5 giugno 1993
n. 169 che, pur mantenendo la scelta di consentire la rivalutazione
dell’intero periodo contributivo soggetto all’assicurazione
obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione
ad amianto, limitava il riconoscimento del beneficio ai soli “lavoratori
dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come
materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure
fallimentari o fallite o dismesse”. In
sede di conversione il decreto n. 169/93, fu, però modificato perché non
si ritenne equo fare riferimento alla tipologia delle imprese per
delimitare la concessione del beneficio. Con
la legge di conversione 4 agosto 1993 n. 271 venne quindi eliminato il
riferimento ai lavoratori di “imprese che estraggono o utilizzano
amianto come materia prima …” e si seguì un soluzione – quella del
testo normativo vigente – che, tenendo conto della capacità
dell’amianto di produrre danni all’organismo in relazione al tempo di
esposizione, consente una maggiorazione dell’anzianità contributiva per
tutti i lavoratori che vi siano stati esposti per più di dieci anni,
indipendentemente dal settore di appartenenza dell’impresa datrice di
lavoro. Che
la lettura del comma 8 dell’art. 13 (come modificato) della legge n.
257/1992 dia necessariamente il risultato secondo il quale non sussistono
limiti soggettivi per l’accesso al beneficio previdenziale è
conclusione avvalorata dalle considerazioni svolte dalla Corte
Costituzionale nella motivazione della sentenza 12 gennaio 2000 n, 5, con
la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondate le questioni di
costituzionalità della norma, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 81
della Costituzione. Ha rilevato, infatti, la Corte come la legge n. 271
del 1993 abbia soppresso la locuzione “dipendenti delle imprese che
estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima …” di cui
al convertito provvedimento di urgenza (d.l.
n. 169/93) al preciso scopo di soddisfare
“l’esigenza di attribuire centralità, ai fini
dell’applicazione del beneficio previdenziale, all’assoggettamento dei
lavoratori all’assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali derivanti dall’amianto, escludendo, al tempo stesso, ogni
selezione che potesse derivare dal riferimento alla tipologia
dell’attività produttiva del datore di lavoro”. Così
individuato l’ambito (soggettivo) di operatività della menzionata
disposizione, fondatamente il ricorrente sostiene che la sentenza
impugnata è incorsa in violazione della stessa, nella parte in cui ha
ritenuto assorbente – per escluderne l’applicazione nel caso concreto
– la considerazione che nessuna delle società datrici di lavoro aveva
mai partecipato a processi produttivi di estrazione o lavorazione
dell’amianto che la legge n. 297/92 imponeva di dismettere. Né
consegue che non poteva essere negato al Vayr il richiesto beneficio
previdenziale - ovviamente se
e in quanto ricorressero tutti gli altri requisiti integranti la
fattispecie descritta dall’art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 –
per il solo fatto di aver lavorato alle dipendenze di imprese
diverse da quelle individuate nell’art. 13, comma 1, della stessa
legge. Altra
questione è quella, sollevata nella seconda parte del motivo di ricorso,
relativa alla esposizione a rischio. Pacifico
essendo in causa – posto che il Vayr non ha impugnato la statuizione del
Pretore, che ne aveva accertato il diritto al beneficio della
rivalutazione “quanto al periodo lavorato indicato sub 1” (vale a dire
quello in cui lavorò presso lo stabilimento Grandi Motori di proprietà
della FIAT s.p.a. dal settembre 1960 al dicembre 1973) – che il solo
periodo di tempo considerabile, ai fini di una sua ipotetica esposizione a
fibre di amianto, è appunto quello trascorso alle dipendenze della Fiat
spa, osserva la Corte che, con la già citata sentenza n. 5 del 2000, la
Corte Costituzionale ha dato una interpretazione dell’art. 13, comma 8,
che rifiuta una estensione del beneficio da tale norma previsto a tutti
indistintamente i lavoratori addetti, per oltre dieci anni, a lavorazioni
che comunque li abbiano esposti ad inalazione di fibre di amianto.
Corollario di un siffatto rifiuto è poi la necessità, a più riprese
avvertita dal giudice delle leggi, di agganciare detta esposizione a dei
chiari “standars” parametrici di rischio, che limitino la platea dei
beneficiari e valgano a fondare la disposizione in esame su ragioni
logico-giuridiche capaci di sottrarla ad ogni applicazione diretta a
violare il fondamentale principio di cui all’art. 3 Cost. A tal fine, la
Corte ha sottolineato la correlazione che il comma 8 dell’art. 13, opera
con il sistema generale dell’assicurazione obbligatoria contro le
malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL,
osservando quindi come, nell’ambito di tale correlazione, il concetto di
esposizione ultradecennale venga necessariamente ad implicare quello di
rischio – più precisamente, di rischio morbigeno rispetto alle
patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la
sua presenza nell’ambiente di lavoro – ed affermando come costituisca
adeguato parametro di definizione del rischio di esposizione rilevante (ai
fini del riconoscimento del beneficio previdenziale) il valore massimo di
concentrazione dell’amianto nell’ambiente lavorativo fissato come
soglia limite dal legislatore, sia pure a fini di prevenzione, nel decreto
legislativo 15 agosto 1991 n. 277 e successive modifiche. La
lettura della norma seguita dalla Corte Costituzionale è stata oggetto di
contrapposte critiche in dottrina, in particolare (per quanto interessa il
presente giudizio) addebitandosi alla Corte di avere – con il richiamo
al d.lgs. n. 277/91 e con il far coincidere l’esposizione richiesta dal
comma 8 dell’art. 13 con le regole proprie della legislazione
prevenzionale – finito per neutralizzare la portata precettiva delle
norme sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie causate da
amianto (a partire dal d.p.r. 20 marzo 1956 n. 648, recante norme
modificatrici della legge 12 aprile 1943 n. 455, istitutiva
dell’assicurazione obbligatoria contro la silicosi e l’asbestosi, fino
al recente d.p.r. 13 aprile 1994 n. 336), che individuano le lavorazioni a
rischio come quelle che “comunque espongono alla inalazione di fibre di
amianto” ed alla cui stregua dovrebbe riconoscersi il ricordato
beneficio previdenziale anche a quei lavoratori inseriti in realtà
produttive nelle quali, verificandosi dispersione di fibre di amianto, si
presenta un rischio inferiore a quello richiesto per rendere operanti gli
obblighi prevenzionali di cui
al menzionato d.lgs n. 277/1991. Sennonché,
per escludere la rilevanza delle norme del sistema delle assicurazioni
sociali, al fine di individuare l’ambito applicativo del disposto
dell’art. 13, comma 8 della legge n. 257/1992, è determinante la
considerazione che la indicazione, nelle annesse tabelle, de “i lavori
… che comunque espongono ad inalazione di polvere di amianto” risponde
all’esigenza, sottesa a ciascuna lavorazione tabellata, di far ritenere
provato il nesso eziologico tra malattia professionale e lavorazione.
Altre finalità persegue invece il citato comma 8 dell’art. 13, atteso
che il beneficio pensionistico è destinato ad operare in un diverso
contesto fattuale, che prescinde dal verificarsi della malattia, sicché
può affermarsi sinteticamente che, mentre quest’ultima disposizione
spiega i suoi effetti antecedentemente all’infermità (che può anche
non manifestasi), le disposizioni della legislazione antinfortunistica
sono destinate, di contro, ad operare se ed in quanto si manifesti
l’infermità tabellata. Quanto
poi all’obiezione, secondo cui si sarebbe introdotta, a seguito
dell’intervento della Corte Costituzionale, una innovazione diretta a
contraddire tutte le regole sottese alle assicurazioni sociali perché
volta alla monetizzazione del mero rischio e non della malattia, è
agevole rilevare come una siffatta argomentazione non consenta in alcun
modo di considerare illegittimi e privi di giustificazione sociale
benefici, come quello in oggetto, che vengono attribuiti – in attuazione
dei principi di solidarietà i cui è espressione l’art. 38 Cost. – in
funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività
lavorativa svolta. Peraltro,
sui contenuti e sulla portata della
indicata sentenza costituzionale, questa Corte si è già pronunciata (con
decisione resa all’udienza 15 gennaio 2001 e poi pubblicata in data 3
aprile 2001 n. 4913, alla cui complessa ed esaustiva motivazione si
rinvia), rilevando come l’applicazione dei generali criteri (letterale,
sistematico e teleologico) di interpretazione della legge renda certa la
conclusione cui il giudice delle leggi è pervenuto e come risponda a
criteri di coerenza logica, da presumersi essere sottesi ad ogni
intervento legislativo, ritenere che la legge n. 257 del 1992 abbia tenuto
presente – nel momento in cui interveniva su un assetto industriale
caratterizzato da un vasto panorama di imprese esposte in maniera
differenziata al rischio amianto – il decreto legislativo n. 277 del
1991 (che difatti ha essa stessa provveduto a modificare tramite l’art.
3, comma 4); decreto che, in attuazione delle direttive europee (in
materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti
chimici), fissava, agli artt. 24 e 31, i limiti di concentrazione di fibre
di amianto respirabili nei luoghi di lavoro, stabilendo anche, in caso di
necessità di svolgimento dell’attività lavorativa e di impossibilità
di rimuovere le cause di inquinamento con misure adeguate, “tutte le
misure di protezione dei lavoratori addetti e dell’ambiente, tenuto
conto del parere del medico competente” (cfr. commi 4 e 5 dell’art.
31). Tanto
porta ad escludere che il provvedimento normativo del 1992 abbia voluto
attribuire il beneficio della rivalutazione nella specie rivendicato a
tutti i lavoratori comunque esposti ad inalazione di polveri di amianto
anche di minima entità, abbia voluto cioè attribuire detto beneficio
anche ai soggetti destinati a spiegare la loro attività in ambienti in
cui fosse presente una concentrazione di fibre di amianto destinata a
rimanere al di sotto dei valori limite legislativamente
ritenuti a rischio e individuabili in quelli indicati negli artt.
24 e 31 del d.lgs. n. 277/1991. E
questa conclusione riceve un decisivo avallo della considerazione che una
diversa interpretazione finirebbe per legittimare un notevole
“sforamento” di ogni pur attendibile previsione di spesa, portando
perciò a ipotizzare quella violazione dell’art. 81 Cost., che la Corte
Costituzionale, nella ricordata sentenza, ha escluso sulla base della (più
restrittiva) tesi che individua la necessità di un duplice requisito per
l’acquisizione del diritto al beneficio di cui all’art. 13, comma 8,
della legge n. 297/1992: vale a dire il dato temporale (almeno dieci anni
di esposizione) e la presenza nell’ambiente di lavoro di una
concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite fissati dal
d. lgs n. 277/1991. La
verifica della sussistenza di tali concorrenti presupposti dovrà,
ovviamente, essere compiuta, tenuto conto della “ratio” e delle
finalità che caratterizzano il beneficio in oggetto, avendo riguardo alla
posizione del singolo lavoratore. In
tale compito valutativo il giudice del merito dovrà orientasi applicando
i principi già fissati dalla giurisprudenza di legittimità con
riferimento all’assicurazione per le malattie professionali, e dovrà
pertanto accertare – nel rispetto dei criteri di ripartizione
dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 cod. civ. (sempre che non
voglia avvalersi dei poteri di ufficio ad esso riconosciuti nel rito del
lavoro) – se colui che ha fatto richiesta del beneficio previdenziale,
dopo aver indicato e provato sia la specifica lavorazione praticata, sia
l’ambiente dove ha svolto per più di dieci anni detta lavorazione,
abbia anche dimostrato che tale ambiente presentava una concreta
esposizione al rischio delle polveri di amianto con valori limite
superiori a quelli fissati negli artt. 24 e 31 del ricordato d. lgs. n.
277 del 1991. Per
le ragioni fin qui esposte e nei limiti precisati il motivo di ricorso va
accolto con rinvio della causa, previa cassazione sul punto della sentenza
impugnata, ad altro giudice di merito, essendo necessario accertare se il
ricorrente, nel periodo di tempo intercorso tra il settembre 1960 e il
dicembre 1973, sia stato concretamente esposto per oltre un decennio al
rischio di inalazione di polveri di amianto in misura superiore ai valori
limite più sopra indicati. Con
il terzo motivo e con deduzione di violazione degli artt. 99, 100, 101 e
102 c.p.c., di omesso esame di fatti decisivi, di illogicità e
contraddittorietà di motivazione, sostiene il ricorrente che la
declaratoria di improponibilità della domanda nei confronti delle società
del gruppo Fiat e dell’INAIL si fonda su una non corretta
interpretazione del contenuto della stessa, che
era diretta, in ultima istanza, ad ottenere il riconoscimento del
diritto previsto dall’art. 13, comma 8 della legge del 1992, essendo
evidente che, per giungere ad una tale pronuncia, era necessario chiedere
al giudice di accertare preliminarmente la sussistenza dei requisiti ai
quali la legge del 1992 subordina il riconoscimento del beneficio
previdenziale; accertamenti preliminari questi che, involgendo la
esistenza di diritti soggettivi e obblighi propri del rapporto di
assicurazione obbligatoria, non potevano che essere condotti in
contraddittorio con i soggetti (datore di lavoro e INAIL) che tale
assicurazione avrebbero dovuto per legge attivare. A sostegno della
legittimazione passiva di tali soggetti in controversie come quella in
oggetto, richiama il ricorrente anche la procedura amministrativa
stabilita in sede congiunta da INPS, INAIL, Ministero del Lavoro e parti
sociali, che ha previsto, ai fini del conseguimento del beneficio di cui
all’art. 13 cit., la coesistenza di due dichiarazioni (nella specie
omesse) rilasciate rispettivamente dal datore di lavoro e dall’INAIL ed
attestanti l’avvenuta esposizione all’amianto del lavoratore e la
durata di essa, prevedendo altresì che le conclusioni cui addiviene
l’INAIL sono pregiudiziali e vincolanti nei confronti dell’INPS. A
meno di voler sostenere che gli atti e comportamenti previsti alla
normativa amministrativa in materia previdenziale sono del tutto
facoltativi, sì che il lavoratore non potrebbe vantare nessun diritto di
richiederne il rispetto, le conclusioni del Tribunale non possono non
ritenersi errate. Questo
motivo non è fondato. La
domanda proposta dal ricorrente, come del resto lo stesso
appare riconoscere, aveva ad oggetto l’accertamento giudiziale
del (suo) diritto alla rivalutazione contributiva prevista dall’art. 13,
comma 8, della legge n. 257/92; e, rispetto a una domanda di tale
contenuto, correttamente è stato affermato dal Tribunale che l’unico
soggetto legittimato a stare in giudizio è l’INPS, non l’INAIL, né
tantomeno, il datore di lavoro, posto che il beneficio richiesto,
riguardando la rivalutazione secondo il coefficiente di 1,5 del periodo
lavorativo per cui è durata l’esposizione al rischio amianto, al fine
di un più rapido raggiungimento dell’anzianità contributiva utile per
ottenere le prestazioni pensionistiche dell’assicurazione generale
obbligatoria, ha, con tutta evidenza carattere pensionistico e il solo
soggetto tenuto in ipotesi ad operare la prevista rivalutazione non può
che essere l’INPS. Né
può sostenersi che l’accertamento dell’avvenuta esposizione del
lavoratore a polvere di amianto nella misura legislativamente ritenuta a
rischio per il prescritto periodo (ultradecennale), possa costituire, di
per sé, oggetto di un’autonoma azione giudiziale nei confronti del
datore di lavoro e dell’INAIL, trattandosi di un accertamento che non è
preordinato alla tutela di specifici “diritti” o, comunque, a superare
uno stato di incertezza oggettiva sulla esatta portata dei diritti e
obblighi scaturenti dai rapporti con tali soggetti, ma riguarda una mera
circostanza di fatto da cui eventualmente potrebbero anche derivare
posizioni giuridicamente rilevanti – diverse da quelle attribuite dalla
norma dell’art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 – tali da
legittimarne la chiamata in causa (a titolo esemplificativo, si pensi che
il lavoratore esposto che abbia contratto una malattia professionale da
amianto può pretendere, nei confronti dell’INAIL, l’erogazione delle
prestazioni oggetto del regime assicurativo contro le malattie
professionali e che il danno biologico prodotto dalla insorgenza di una
tecnopatia dà diritto al risarcimento dei danni a carico del datore di
lavoro), sempre che, tuttavia, si tratti si posizioni specificamente
dedotte in causa, ciò che non risulta nella presente controversia (vedi,
in termini generali, Cass. 9 aprile 1986 n. 2488, 6 febbraio 1990 n. 819,
4 maggio 1996 n. 4124, 28 giugno 1997 n. 5819, 10 agosto 2000 n. 565). Giuridicamente
corretta è, pertanto, la decisione impugnata nella parte in cui ha
ritenuto carenti di legittimazione passiva l’INAIL e i vari datori di
lavoro di Vayr (Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio) e ha, per tale ragione,
dichiarato improponibili le domande svolte nei loro confronti. Con
il quarto motivo sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata viola
gli artt. 91 e 92 c.p.c. e contiene una decisione illogica, carente e
contraddittoria nella parte in cui definisce il regime delle spese, in
quanto le società Iveco spa e Fiat spa erano intervenute in giudizio per
ordine del giudice di primo grado, a seguito della eccezione della propria
carenza di legittimazione passiva sollevata, con riguardo al periodo
anteriore al 1977, dalla convenuta Fiat Avio spa. Il fatto che per scelta
processuale della Fiat Avio spa fossero state chiamate a rispondere per
tale periodo le altre società del gruppo, era circostanza che non poteva
essere addebitata al Vayr, tanto più ai fini della liquidazione delle
spese. Anche
quest’ultimo motivo non è fondato. In
proposito è sufficiente richiamare il costante insegnamento di questa
Corte, alla stregua del quale il regolamento delle spese processuali è
censurabile in sede di legittimità soltanto quando le spese siano poste,
totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa,
mentre esula dal sindacato della Corte di cassazione e rientra nel potere
discrezionale del giudice la valutazione dell’opportunità di compensare
in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di
soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti
motivi (vedi, tra tante, Cass. 3 luglio 2000 n. 8889, 27 dicembre 1999 n.
14576, 4 gennaio 1995 n. 79, 29 gennaio 1990, n. 551). Nel
caso concreto è ovvio constatare che il giudice del merito non ha in
alcun modo sovvertito il principio della soccombenza, dal momento che la
domanda del Vayr è stata rigettata nei confronti dell’INPS e dichiarata
improponibile nei confronti delle società Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio
spa, nonché dell’INAIL; anzi la condanna del soccombente è stata
temperata dalla parziale compensazione delle spese, poste a suo carico,
per entrambi i gradi di merito, solamente per la metà. In
conclusione, il ricorso va accolto solo in relazione al secondo motivo e
nei limiti più sopra indicati, con la precisazione che tale accoglimento
vale nei soli confronti dell’INPS – unico soggetto passivamente
legittimato rispetto alla domanda proposta dal Vayr – mentre va
rigettato per il resto. In
relazione al motivo accolto, la sentenza d’appello deve essere cassata e
la causa va rinviata ad altro giudice, designato nella Corte d’appello
di Torino, per gli ulteriori accertamenti di fatto. Provvedendo
direttamente al regolamento delle spese del giudizio di cassazione,
nell’esercizio della facoltà prevista dall’art. 385, terzo comma,
c.p.c., ritiene la Corte di operarne la totale compensazione tra il
ricorrente e tutte le altri parti, ravvisata la ricorrenza di giusti
motivi.
P.Q.M.
La
Corte accoglie il secondo motivo di ricorso per quanto di ragione nei
confronti dell’INPS e rigetta per il resto il ricorso. Cassa la sentenza
impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte
d’appello di Torino. Compensa le spese del giudizio di cassazione tra il
ricorrente e tutte le altre parti. Così
deciso in Roma il 16 marzo 2001.
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