ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge 27
marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego
dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte:
come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n.
169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto),
convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e
dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge
finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 18 dicembre 2001 dal Tribunale
di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Gamberini Roberto ed altro e
l'INPS, iscritta al n. 59 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale,
dell'anno 2002.
Visti
l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito
nell'udienza pubblica del 18 giugno 2002 il Giudice relatore Francesco
Amirante;
uditi
l'avvocato Alessandro Riccio per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe
Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un giudizio nel quale due ex dipendenti della Compagnia
portuale di Ravenna, ai quali la pensione di anzianità era stata liquidata
con decorrenza 1° maggio 1987, avendo ricevuto dall'INAIL l'attestazione di
esposizione all'amianto per oltre un decennio, hanno chiesto il
riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva di cui
all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, il Tribunale di
Ravenna, con ordinanza del 18 dicembre 2001, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, della
legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego
dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte:
come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n.
169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto),
convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e
dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge
finanziaria 2001), nella parte in cui, secondo la giurisprudenza della Corte
di cassazione, non stabiliscono che l'erogazione del beneficio della
rivalutazione contributiva ivi prevista spetti ai lavoratori esposti
all'amianto per oltre un decennio che fossero già pensionati al momento
dell'entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992.
Il Tribunale remittente, dopo aver precisato che da un atto di indirizzo del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 20 aprile 2000 risulta
che per i lavoratori portuali l'esposizione all'amianto attraverso
manipolazioni dirette ha avuto inizio alla data della relativa assunzione
(coincidente con l'iscrizione nei registri portuali) e si è conclusa prima
della entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, essendo cessata il 31
dicembre 1990, fa una serie di considerazioni relative all'uso nocivo
dell'amianto, ai progressi della scienza medica al riguardo, alla relativa
consapevolezza dimostrata dalla Comunità europea fin dal 1983 (direttiva del
Consiglio n. 83/477/CEE) ed al ritardo dell'Italia nel dare attuazione alla
suddetta direttiva, avendo il nostro Paese provveduto a tale doverosa
incombenza solo con il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, emanato
dopo una condanna subita da parte della Corte di giustizia CEE (sentenza 13
dicembre 1990, n. 240).
In tale situazione, anche in considerazione dell'inclusione, da parte della
giurisprudenza della Corte di cassazione, nella platea dei destinatari del
beneficio de quo di tutti i soggetti ancora inseriti nel mondo del
lavoro alla data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, qualunque
fosse il loro stato occupazionale del momento (di occupato nel settore
dell'amianto, di disoccupato, di sospeso ovvero di occupato in un settore
diverso), a prescindere dall'attualità dell'esposizione, così come
addirittura dei titolari di pensione o assegno di invalidità (sul
presupposto del mantenimento da parte loro di una residua capacità
lavorativa), non si comprende come mai la stessa Corte, con giurisprudenza
ormai consolidata, abbia sempre escluso l'applicabilità del beneficio di cui
si tratta nei confronti di coloro che al momento dell'entrata in vigore
della legge n. 257 del 1992 fossero già titolari di pensione di anzianità
(come gli attuali ricorrenti) ovvero di vecchiaia.
Osserva il remittente che diverse sono le censure che possono essere mosse
non solo al più volte citato art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992,
interpretato nel senso suindicato, ma anche all'art. 80, comma 25, della
successiva legge n. 388 del 2000, che dello stesso art. 13, comma 8,
fornirebbe indiretta interpretazione autentica.
Le suddette disposizioni si pongono, infatti, in contrasto con i parametri
invocati in primo luogo perché, in violazione del principio di eguaglianza,
riservano ai soggetti già pensionati di cui si è detto un trattamento
ingiustificatamente deteriore rispetto agli altri soggetti che si ritengono
compresi fra i destinatari del beneficio di natura previdenziale in
argomento, pur essendo stata accertata nei loro confronti la medesima
situazione di rischio.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile un contrasto con il principio di razionalità e
coerenza normativa di cui all'art. 3 della Costituzione in quanto, se il
contenuto precettivo delle disposizioni impugnate fosse quello loro
attribuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, esse sarebbero in
conflitto con la loro stessa ratio – da individuare, anche secondo
quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000, nella volontà
del legislatore di offrire un indennizzo a tutti i lavoratori che sono stati
esposti ad un rischio ritenuto morbigeno – perché si finirebbe «per negare
lo stesso indennizzo ad una circoscritta categoria di soggetti che hanno
subito la stessa esposizione parimenti morbigena per motivi di lavoro» di
coloro del cui diritto non si dubita.
Con specifico riguardo all'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000,
il remittente precisa, inoltre, che tale norma si porrebbe in contrasto con
l'art. 3 della Costituzione anche ove stabilisce che non si fa luogo al
recupero, da parte dell'INPS, degli importi oggetto di ripetizione di
indebito nei confronti dei titolari di pensione interessati al beneficio, in
conseguenza della rinuncia all'azione da parte del pensionato e
dell'estinzione del relativo procedimento. Tale norma sembrerebbe, infatti,
configurare solo per tali soggetti «una forma indiretta di coazione a
rinunciare alla prosecuzione del giudizio».
Nell'ordinanza si sostiene infine che, come è già stato sottolineato nella
citata sentenza di questa Corte n. 5 del 2000, e non è stato considerato
invece dalla giurisprudenza ordinaria che si contesta, la legge n. 257 del
1992 ha una copertura finanziaria che non è dei soli 72 miliardi di lire
previsti nel d.l. n. 169 del 1993 ma anche dei 110 miliardi di lire
originariamente stanziati dall'art. 13, comma 12, della legge n. 257
medesima. Detto questo, se si pone un problema di sufficienza di questa
copertura, esso non può valere solo per una categoria di soggetti (i
pensionati di anzianità al momento dell'introduzione del beneficio) ma, caso
mai, deve porsi per tutti coloro che hanno titolo ad essere destinatari del
beneficio, non potendo, secondo quanto affermato da questa Corte nella
sentenza n. 136 del 2001, l'esigenza del contenimento della spesa
«autorizzare un uso sperequato e discriminatorio della discrezionalità
normativa che sconfini nella aperta violazione di altri principi cardine
dell'ordinamento costituzionale».
2.— Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale
dello Stato, che ha concluso chiedendo, anche in una memoria aggiunta, che
la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.
La difesa erariale, dopo aver osservato che il remittente pone in realtà in
discussione scelte di politica sociale riservate alla discrezionalità del
legislatore, sottolinea che la ricostruzione interpretativa della normativa
impugnata operata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire
dalla sentenza n. 6605 del 1998, cui il Tribunale di Ravenna si oppone, è
invece da considerare quella maggiormente conforme al dato letterale,
sistematico e teleologico delle disposizioni impugnate. E', infatti, da
ritenere che il legislatore abbia concepito il beneficio contributivo in
discussione come meccanismo diretto a facilitare il raggiungimento dei
requisiti assicurativi necessari per l'accesso al pensionamento e non come
strumento finalizzato ad incrementare i trattamenti pensionistici già
erogati al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992.
Questa è l'unica interpretazione della disposizione di cui all'art. 13,
comma 8, della citata legge n. 257 del 1992, attualmente impugnato, che
risulti armonica rispetto ai precedenti commi 2 e 7 dello stesso art. 13 ed
è anche l'interpretazione su cui poggia la copiosa giurisprudenza della
Corte di cassazione che ha legittimamente diversificato il trattamento da
attribuire ai soggetti già titolari di pensione di anzianità e di vecchiaia
rispetto ai titolari di assegno e pensione di invalidità. Soltanto a questi
ultimi è stata riconosciuta la possibilità di avvalersi della rivalutazione
contributiva de qua in quanto solo ad essi può essere riconosciuta
una residua capacità lavorativa, con l'esigenza di incrementare l'anzianità
contributiva per conseguire le prestazioni di vecchiaia.
La suddetta interpretazione la quale, quindi, esclude che il beneficio
contributivo di cui si tratta possa essere attribuito a tutti i soggetti che
comunque, nel corso della loro vita lavorativa, siano stati esposti ad
inalazione di fibre di amianto, è stata confermata ed arricchita di
ulteriori argomenti dalla Corte di cassazione anche dopo la sentenza
costituzionale n. 5 del 2000 (v. per tutte Cass. 3 aprile 2001, n. 4913) ed
è l'unica che risulta coerente con la copertura di spesa predisposta dal
legislatore in materia. Va, infatti, considerato al riguardo che, allo
stato, hanno ottenuto il riconoscimento dell'esposizione ultradecennale
all'amianto 42.000 lavoratori, di cui 10.108 attivi al momento della entrata
in vigore della citata legge n. 257 del 1992, mentre risultano presentate
circa 132.000 domande di riconoscimento di esposizione all'amianto. Da ciò
si desume che, in considerazione della platea dei potenziali interessati,
una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della normativa
impugnata determinerebbe «rilevanti maggiori oneri a carico della finanza
pubblica».
L'Avvocatura dello Stato sostiene, infine, la natura meramente
interpretativa della questione in argomento.
3.— Si è costituito l'INPS che ha concluso chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente infondata.
L'Istituto sottolinea che la norma di cui all'art. 13, comma 8, della legge
n. 257 del 1992 deve essere riguardata nell'ambito della logica dei
prepensionamenti, come ritenuto fin dalle sue prime pronunce in argomento
dalla Corte di cassazione. Interpretare la norma in modo diverso vorrebbe
dire non solo snaturare la ratio legis – consistente nella
introduzione di un meccanismo diretto a favorire il pensionamento dei
lavoratori esposti all'amianto – ma significherebbe anche attribuire un
identico trattamento a situazioni disomogenee, come ha lucidamente
sottolineato la stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 12524 del 2001,
nella quale si è fra l'altro ritenuta manifestamente infondata una questione
di costituzionalità analoga a quella attualmente sollevata richiamandosi il
principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui «non può contrastare con il principio di uguaglianza un differenziato
trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti ma in momenti
diversi nel tempo perché lo stesso fluire di questo costituisce di per sé un
elemento diversificatore».
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale di Ravenna, nel corso di un giudizio civile per la
riliquidazione della pensione di anzianità promosso contro l'INPS da due
lavoratori portuali collocati in quiescenza il 30 aprile 1987 ed in possesso
dell'attestazione dell'INAIL di essere stati esposti alle polveri di amianto
per oltre un decennio, ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, primo
comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli artt. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257
(Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato
dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 ( Disposizioni
urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con
modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25,
della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), in
quanto dette norme, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione, non prevedono che spetti ai soggetti già titolari
di pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata in vigore
della legge n. 257 del 1992 (28 aprile 1992) il beneficio contributivo di
cui al citato art. 13, comma 8, della stessa, consistente nella
moltiplicazione, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il
coefficiente di 1,5 dell'intero periodo lavorativo soggetto
all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti
dall'esposizione all'amianto.
Secondo il remittente il beneficio oggetto del giudizio a quo ha
natura di indennizzo del pericolo corso dai lavoratori per essere stati
esposti all'amianto per il periodo indicato; la moltiplicazione per il
coefficiente di 1,5, ai fini delle prestazioni pensionistiche, dell'intero
periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le
malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto atterrebbe
quindi al bene salute e non costituirebbe un'agevolazione all'esodo dei
lavoratori impiegati in attività comportanti l'uso dell'amianto. Ciò,
secondo l'opinione del remittente, è stato già affermato da questa Corte
nella sentenza n. 5 del 2000 e successivamente dalla giurisprudenza
ordinaria (Cass. 3 aprile 2001, n. 4913).
Una volta identificata nel senso suindicato la ratio del citato comma
8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, la inapplicabilità del beneficio
ai lavoratori già fruenti della pensione di vecchiaia o di anzianità sarebbe
irragionevole perché si risolverebbe nel praticare un trattamento
ingiustificatamente deteriore a soggetti che si sono trovati nella medesima
situazione di coloro ai quali esso si applica e contrasterebbe quindi con il
principio di eguaglianza – art. 3 Cost. – nonché con l'art. 38, secondo
comma, Cost., in quanto tali soggetti percepirebbero una prestazione
previdenziale insufficiente.
L'illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, comporterebbe
anche quella dell'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000 il quale
stabilisce, in caso di rinuncia all'azione, l'estinzione dei giudizi aventi
ad oggetto la domanda di riliquidazione della pensione proposta dai soggetti
già pensionati al momento dell'entrata in vigore della prima norma, la
compensazione delle spese e l'irripetibilità delle somme loro indebitamente
erogate a tale titolo; norma quest'ultima che sembra contenere un'indiretta
interpretazione autentica della prima e costituisce un'illegittima coazione
nei confronti dei soggetti già pensionati a non far valere i propri diritti.
2.— Si rileva, in via preliminare, che le eccezioni di inammissibilità
sollevate dall'Avvocatura dello Stato non possono essere accolte.
Non vale, infatti, nel caso in esame, invocare la discrezionalità
legislativa perché il giudice remittente censura di irragionevolezza proprio
la scelta operata dal legislatore, adducendone il contrasto con l'art. 3
della Costituzione.
Quanto alla rilevanza è sufficiente osservare che dall'ordinanza di
remissione risulta che i soggetti attori nel giudizio a quo godevano
della pensione di anzianità da circa cinque anni prima dell'entrata in
vigore della legge n. 257 del 1992.
3.— La questione non è fondata.
E' necessario ripercorrere l'iter degli interventi normativi,
comunitari e nazionali, che si sono succeduti in materia di progressiva
riduzione e di finale eliminazione dei rischi derivanti dall'uso
dell'amianto, a partire dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983.
Nelle considerazioni premesse all'articolato, mentre si dava atto della
nocività dell'amianto, si rilevava nel contempo che erano numerose le
situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente; che le
conoscenze scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello
al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la salute, rischi da
ritenere comunque proporzionati al tipo di lavorazione, al correlativo grado
di concentrazione dell'amianto e ai tempi di esposizione.
Sulla base di tali considerazioni, il provvedimento dettava una serie di
disposizioni dirette, anzitutto, ad accertare, mediante le opportune
notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso
dell'amianto ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di
un certo tipo di lavorazione (applicazione dell'amianto a spruzzo: art. 5),
l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle
lavorazioni, la protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine,
l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e la dotazione di
idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile
eliminare altrimenti i rischi.
A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il
1° gennaio 1987, ad esclusione delle attività estrattive dell'amianto per le
quali era previsto un termine più lungo.
Poiché l'Italia non aveva adottato i provvedimenti dovuti, la Corte di
giustizia delle Comunità europee, a seguito di procedura di infrazione
promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la
dichiarò inadempiente agli obblighi che le incombevano in forza del Trattato
CEE.
Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la
quale, nel ribadire la nocività dell'amianto e la sua presenza in numerose
situazioni di lavoro e quindi la necessità di prevederne la sostituzione con
altro materiale non pericoloso o meno pericoloso, vietò, in aggiunta alla
applicazione a spruzzo, altre forme d'impiego del materiale e indicò nuovi
valori limite, pur dando ancora atto che non erano del tutto noti allo stato
delle conoscenze scientifiche le circostanze in cui l'amianto poteva essere
morbigeno e i tempi di insorgenza delle diverse patologie.
Per dare attuazione alla suindicata direttiva n. 477 del 1983 e ad altre
concernenti la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da
esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in
esecuzione della delega di cui all'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n.
212, fu emesso il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra
l'altro, all'art. 31 fissò i valori limite di esposizione alla polvere di
amianto, espressi come media ponderata in funzione del tempo di riferimento
di otto ore.
Fu poi emanata la legge n. 257 del 1992 il cui art. 1, comma 1, individua le
finalità con essa perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione
e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione, dell'importazione,
dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che
lo contengono, nonché nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di
materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva.
L'art. 13 della legge in esame, costituente il capo IV intitolato «Misure di
sostegno per i lavoratori», prevede una serie di misure di carattere
previdenziale: collocamento in cassa integrazione straordinaria,
pensionamenti anticipati per un numero limitato di lavoratori calcolato in
seicento unità, rivalutazione ai fini contributivi del periodo di lavoro
durante il quale i lavoratori fossero stati esposti all'amianto.
Nell'ambito di tali misure fu inserito, al comma 8, il beneficio di cui si
discute nel presente giudizio. Il testo originario della disposizione era il
seguente: «Ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche i
periodi di lavoro soggetti all'assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali derivanti dall'esposizione all'amianto gestita dall'INAIL
quando superano i dieci anni sono moltiplicati per il coefficiente di 1,5».
L'ultima parte della disposizione dette luogo ad incertezze interpretative
in quanto si ritenne non chiaro se ad essere soggetto a rivalutazione
mediante moltiplicazione per il coefficiente indicato fosse soltanto il
periodo di lavoro eccedente il decennio, oppure l'intero periodo di
esposizione all'amianto una volta che esso si fosse protratto per più di
dieci anni (cfr. Camera dei deputati, XI
legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio
1993, intervento del relatore del disegno di legge n. 2744 di
conversione del d.l. n. 169 del 1993).
Il Governo intervenne con decretazione d'urgenza e, dopo un primo
decreto-legge (5 aprile 1993, n. 95) non convertito, fu emesso il d.l. n.
169 del 1993, convertito con modifiche nella legge n. 271 del 1993.
Il testo originario dell'art. 1 del d.l. n. 169 del 1993, sostitutivo del
comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, era così formulato: «Per i
lavoratori dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano
amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a
procedura fallimentare o fallite o dismesse, che siano stati esposti
all'amianto per un periodo superiore ai dieci anni, l'intero periodo
lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali derivanti dall'esposizione all'amianto, gestita dall'INAIL, è
moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente
di 1,5».
In sede di conversione fu eliminato ogni riferimento al tipo di attività
svolta dalle imprese ed alla situazione in cui esse versassero.
4.— L'esposizione della vicenda legislativa in cui si colloca la prima delle
norme censurate consente di escludere che la ratio della medesima sia
quella, risarcitoria o indennitaria, indicata dal remittente, con ciò
venendo meno lo stesso presupposto della sua asserita illegittimità
costituzionale in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
La legge n. 257 del 1992 ha la sua origine storica nella direttiva
comunitaria n. 477 del 1983 che, sulla base della accertata nocività
dell'amianto, prescriveva l'adozione di una serie di misure finalizzate
all'eliminazione dei rischi derivanti dall'utilizzazione del suindicato
materiale in ogni fase e con qualsiasi modalità di lavorazione (come è reso
palese anche dall'esplicito riferimento alla «cessazione dell'impiego
dell'amianto» contenuto nel suo titolo).
A sua volta, il capo IV della legge stessa, che si esaurisce nell'art. 13, è
intitolato «Misure di sostegno per i lavoratori» e contiene, come si è
detto, altre misure oltre quella in oggetto, quali il collocamento in cassa
integrazione ed i prepensionamenti, riguardanti, per loro natura, soltanto i
soggetti ancora inseriti nel circuito lavorativo e quindi la sorte del loro
rapporto di lavoro in considerazione della difficoltà di instaurarne altri.
Inoltre, il testo originario del comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del
1992 iniziava con l'espressione «ai fini del conseguimento delle prestazioni
pensionistiche…». La necessità di modificare tale testo sorse non con
riguardo a siffatta espressione, bensì, come si è detto e come risulta con
chiarezza dai lavori preparatori alla legge n. 271 del 1993 (v.
Camera dei deputati, XI legislatura,
Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, citato
intervento del relatore del relativo disegno di legge n. 2744),
riguardo alla determinazione del periodo lavorativo oggetto della
rivalutazione. Ne consegue che l'espressione «ai fini delle prestazioni
pensionistiche», contenuta nel testo attuale della norma censurata, deve
essere letta come riferentesi alle prestazioni pensionistiche da conseguire
e cioè come sostanzialmente equivalente a quella originaria.
Tale opinione trova ulteriore conforto in affermazioni formulate nel corso
dei lavori preparatori ed, in particolare, nel passo della relazione citata
in cui la disposizione in questione viene assimilata a quelle concernenti la
cassa integrazione ed i prepensionamenti nonché nella precisazione
effettuata nella successiva discussione in Assemblea secondo cui il
beneficio era diretto ai lavoratori che «per il solo motivo di aver lavorato
l'amianto e per il carattere morbigeno di tale lavorazione non trovano spazi
sul mercato del lavoro, ormai tutto nominativo».
5.— Il giudice remittente sostiene che, se la misura in questione fosse
predisposta ad ovviare alla difficoltà per i lavoratori del settore amianto
di mantenere il posto di lavoro o di trovarne altro, e quindi ad assicurarne
il collocamento in quiescenza, essa non raggiungerebbe lo scopo in quanto il
periodo contributivo di quindici anni – e cioè il minimo garantito dalla
norma in esame – non sarebbe sufficiente per la maturazione del diritto a
pensione. Il giudice a quo sostiene inoltre che
questa Corte nella
sentenza. n. 5 del 2000 ha già affermato la funzione risarcitoria della
rivalutazione contributiva prevista dal comma 8 dell'art. 13 impugnato.
Infine, ad avviso del Tribunale di Ravenna, l'esclusione
dei soggetti già pensionati al
momento dell'entrata in vigore
della legge n. 257 del 1992 non potrebbe essere giustificata neppure con il
rispetto delle esigenze di bilancio, perché tali esigenze sono state
soddisfatte con l'individuazione dei necessari stanziamenti, come questa
Corte ha ritenuto con la sentenza citata.
6.— Nessuna di tali tesi può essere condivisa.
Come si è premesso, gli organi della Comunità ed il legislatore nazionale si
sono trovati a dover dettar norme riguardanti una materia della quale molti
aspetti non erano del tutto noti. Infatti, se da un lato la nocività
dell'amianto era da tempo accertata, non erano – e non lo sono tuttora –
appieno conosciuti le modalità ed i tempi con i quali le polveri di amianto
producono le gravi patologie ad esse riconducibili; d'altro canto,
l'utilizzazione dell'amianto non era ristretta a ben precise categorie di
imprese, sicché non era possibile identificare i beneficiari con riguardo al
tipo di azienda in cui lavorassero o avessero lavorato. Proprio la
consapevolezza che la realtà di fatto delle imprese e delle lavorazioni
comportanti in qualsiasi forma l'uso dell'amianto non era determinabile
indusse il Parlamento all'eliminazione, in sede di conversione, di quella
parte della norma che delimitava la platea dei destinatari del beneficio in
relazione all'appartenenza ad imprese che estraessero o utilizzassero
amianto come materia prima. Da qui il carattere approssimativo della
normativa rispetto ai fini perseguiti, ma non contraddittorio né
irragionevole. D'altra parte, come questa Corte ha affermato, non ogni
incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini
dello scrutinio di costituzionalità (v., tra le altre, proprio la sentenza
n. 5 del 2000 invocata dal remittente).
Né è vero che questa Corte, nella sentenza n. 5 del 2000, abbia affermato il
carattere risarcitorio del beneficio in esame escludendo che esso abbia
invece la principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel
processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l'uso dell'amianto di
ottenere il diritto alla pensione.
Nello stabilire il significato ed il valore di un precedente occorre tenere
conto del contesto e, soprattutto, identificarne la ratio con
riguardo alla questione oggetto della decisione. Il quesito al quale questa
Corte ha risposto con la sentenza da ultimo richiamata consisteva nello
stabilire se la norma dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992
come modificata, avesse descritto una fattispecie sufficientemente
determinata, tale da escludere l'attribuzione all'amministrazione di una
discrezionalità così ampia da rendere possibili trattamenti diversi per casi
analoghi o eguale trattamento di situazioni diverse. La decisione fu
positiva nel senso che la fissazione del tempo di esposizione all'amianto –
oltre un decennio – unitamente a quella del limite superato il quale la
concentrazione dell'amianto aveva potenzialità morbigene induceva a negare
la paventata eventualità, senza alcun riferimento al profilo prospettato dal
remittente.
Alla luce di queste considerazioni, l'espressione contenuta nella sentenza
stessa che la norma ha «la finalità di offrire, ai lavoratori esposti
all'amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno dieci anni), un
beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che,
in qualche modo, presentano potenzialità morbigene» non ha il valore che le
attribuisce il remittente. Si può infatti osservare che proprio la
possibilità di contrarre una patologia derivante dall'esposizione
all'amianto rende difficile la collocazione al lavoro delle persone che si
siano trovate nella situazione descritta dalla norma, come fu rilevato anche
nel corso dei lavori preparatori.
Non assume alcun rilievo in senso contrario a quanto si è esposto la
ricomprensione tra i destinatari della disposizione di coloro che, pur non
avendo ancora raggiunto l'anzianità contributiva massima, abbiano maturato
prima dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, anche senza
l'applicazione del beneficio di cui si tratta, i requisiti di contribuzione
per il conseguimento della pensione di anzianità o di vecchiaia e siano
stati collocati in quiescenza in data successiva, atteso che essa trova
giustificazione nel principio generale secondo cui le prestazioni si
liquidano sulla base della legge vigente alla data della liquidazione
stessa. La circostanza che tale inclusione si traduce, così come avverrebbe
per i pensionati attualmente esclusi dalla rivalutazione contributiva, nella
possibilità di ottenere un aumento della misura della pensione e non in
un'agevolazione per il raggiungimento del trattamento pensionistico non è
sufficiente a determinare la necessità di una parificazione di disciplina in
quanto, come più volte è stato affermato da questa Corte, «l'estensione di
agevolazioni a categorie di soggetti non contemplate dalla disciplina di
favore può ritenersi costituzionalmente necessitata solo ove, accertata la
piena omogeneità delle situazioni poste a confronto, lo esiga la ratio
della disciplina invocata quale tertium comparationis» (v. sentenze
n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985, nonché ordinanza n. 194 del 2000). Nella
specie, tale omogeneità va esclusa in considerazione della diversità di date
di conseguimento del diritto cui si deve fare riferimento per ciascuna delle
categorie di soggetti di cui si tratta e della corrispondenza di tale
criterio discretivo ai principi generali regolatori della materia,
corrispondenza che porta a concludere che il legislatore ha esercitato non
irragionevolmente la discrezionalità che gli compete nella scelta delle
modalità di configurazione dei trattamenti che – come la rivalutazione
contributiva in oggetto – abbiano carattere eccezionale.
Ma ciò che più conta è che anche nei confronti dei soggetti già in possesso
al 28 aprile 1992 dei requisiti per ottenere la pensione di anzianità o di
vecchiaia il beneficio di cui si discute conserva la finalità di incentivare
l'esodo dal mondo del lavoro.
Infine, non è condivisibile l'opinione del giudice a quo secondo la
quale il legislatore avrebbe previsto l'estensione del beneficio ai soggetti
già fruenti della pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata
in vigore della legge, indicando le somme occorrenti per provvedervi e i
relativi stanziamenti.
Basta rilevare sul punto che, mentre non risulta che alcuna indagine
preventiva fu svolta riguardo al numero dei lavoratori già pensionati
all'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, il rappresentante del
Governo manifestò perplessità sull'adeguatezza degli stanziamenti qualora
fosse stata eliminata dal decreto la limitazione del beneficio ai lavoratori
operanti in imprese estrattive o che impiegavano l'amianto come materia
prima (v. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni,
resoconto della seduta del 12 luglio 1993, p. 15950 e s.).
7.— La questione non è fondata neppure in riferimento all'art. 38, secondo
comma, della Costituzione
Questa Corte, infatti, ha più volte escluso che la garanzia prevista da tale
precetto costituzionale possa riguardare le pensioni di anzianità liquidate,
come quelle cui si riferisce il presente giudizio, nel regime precedente
alla riforma introdotta dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare), presupponendo esse la
sola maturazione di una determinata anzianità contributiva (v. sentenza n.
416 del 1999 e ordinanza n. 70 del 2002).
Comunque, pur prescindendo dalla suddetta considerazione, all'infondatezza
della questione si perviene in linea generale anche in base all'affermazione
di questa Corte secondo cui la norma costituzionale di cui si tratta «esige
che il trattamento previdenziale sia sufficiente ad assicurare le esigenze
di vita del lavoratore pensionato; ma nell'attuazione di tale principio al
legislatore deve riconoscersi un margine di discrezionalità, anche in
relazione alle risorse disponibili, almeno quando non sia in gioco la
garanzia delle esigenze minime di protezione della persona» (cfr., ex
multis, sentenza n. 180 del 2001 e ordinanza n. 342 del 2002).
8.— L'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.
13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 determina l'infondatezza anche
della questione di costituzionalità concernente l'art. 80, comma 25, della
legge n. 388 del 2000, sollevata come derivante dalla illegittimità della
prima norma censurata sotto il profilo che il citato comma 25 ne
costituirebbe una singolare forma d'interpretazione autentica. Infatti, una
volta ritenuta la legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8,
interpretato nel senso che esso esclude dal beneficio i soggetti già
pensionati per anzianità o vecchiaia al momento dell'entrata in vigore della
legge n. 257 del 1992, viene meno ogni dubbio sulla legittimità del
suindicato art. 80 sotto il profilo che costituirebbe una coazione alla
rinuncia a far valere un diritto.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8,
della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione
dell'impiego dell'amianto), come modificato dall'art. 1, comma 1, del
decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori
del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4
agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000,
n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2001), sollevata, in riferimento agli artt.
3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di
Ravenna con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 21 ottobre 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
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