Tribunale di Pisa  – 4 dicembre 2002

(sez. lav., giudice unico di 1° grado) Est. Nisticò – Iacuissi ed altri (avv. Paoletti), Michelotti (avv. Aglioti), Tinucci ed altri (avv. Cerrai, Bartalena) c. INPS (avv. Pinto, Perani)

 
 

dal sito: http://www.pegacity.it/justice/impegno 

Benefici previdenziali da esposizione ad amianto – Inesistenza nel testo di legge di limiti di soglia – In conseguenza delle conoscenza scientifica di patologie oncologiche da inalazione di fibre di amianto, dose-indipendenti – Sufficienza per il beneficio della ipervalutazione contributiva, della esposizione di durata ultradecennale come previsto dalla legge 257/92.

 

La legge per i benefici da esposizione ad amianto  non prevede alcuna “soglia di rischio”; al legislatore non poteva essere sfuggita l’opinione – assolutamente uniforme nella comunità scientifica – secondo la quale in oncologia professionale non vi è soglia di rischio; si tratta…di patologie – quelle indotte da inalazione di fibre di amianto aerodisperse -  per le quali non è individuabile una dose-soglia, cioè che non sono dose dipendenti. Anche per il mesotelioma è stata accertata l’esistenza di una correlazione  con la dose di fibre inalate apparentemente senza soglia. E’  proprio per questa ragione, unanimemente affermata in letteratura medico-legale, che il legislatore – al fine di individuare un parametro che qualificasse  la condizione dell’avente diritto – ha evitato di utilizzare il criterio della  quantità di esposizione ed  ha, invece, optato per quello della sua  durata, sul presupposto, scientificamente corretto, che una esposizione anche minima ma di lunga durata esprimesse la potenzialità lesiva della condizione lavorativa. Utilizzando il dato scientifico del quale si è detto unitamente all’elemento – durata, si ha che l’esposizione ai fini del benefici in questione  deve ritenersi sussistente  anche ove si tratti di mera esposizione ambientale e quando il lavoratore non sia stato direttamente a contatto con l’amianto ma abbia reso la sua prestazione in ambiente lavorativo comunque presumibilmente inquinato.

  SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

    Con  distinti ricorsi poi riuniti,  Salvatore Iacuissi ed altri sette  dipendenti od ex dipendenti della vetreria  S. Gobain di Pisa reclamavano dall’Inps i benefici di cui  alla legge 4 agosto 1993 n. 271 negati dall’Istituto previdenziale in ragione della  insussistenza della esposizione al rischio.

  Resisteva in giudizio l’Inps negando la prestazione sul rilievo della mancata attestazione del rischio da parte dell’Inail.

  Dato ingresso ad una CTU ambientale, all’udienza del 4.12.2002 la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo del quale veniva data pubblica lettura.

  MOTIVI DELLA DECISIONE

  1) Questa   controversia (come non poche altre) ci dà la misura di come il nostro ordinamento  continui a coltivare il convincimento che sia  comunque il giudice (la giurisdizione) a doversi assumere la responsabilità di dare applicazioni alla legge, benché  questa sia chiara e benché , come nel caso di specie, sia del tutto pacifico che i ricorrenti  si trovino nelle condizioni per ottenere il beneficio. Vezzo antichissimo, supportato da inespugnabili incrostazioni burocratiche, che affidano al giudice un compito non suo e che non tengono conto del prezzo che la collettività è costretta ad affrontare al solo scopo di consentire alla pubblica amministrazione di “pallegiarsi” le responsabilità od addirittura di fare “melina”( se ci si consente il termine sportivo), magari in attesa che provvedimenti normativi futuri finiscano per elidere le legittime aspettative degli aventi diritto. La vicenda delle c.d. “integrazioni al minimo”, in questo senso, rappresenta un precedente autorevole nella parte in cui  ha legittimato questi atteggiamenti processuali dilatori: gli operatori del diritto, infatti, sanno che, nonostante alcune prerogative economiche fossero state affermate dalla giurisprudenza di legittimità e da due sentenza della Corte Costituzionale, gli Enti previdenziali hanno coltivato fino allo stremo le controversie  per ottenere il risultato sperato: e cioè il provvedimento normativo che, come è noto, ha cancellato le controversie, estinguendole e dichiarando la compensazione delle spese. Il tutto in linea con un diffuso malcostume istituzionale, ai limiti della prevaricazione .

    La gestione assolutamente burocratica della faccenda, poi,  ha fatto perdere di vista i termini essenziali del problema : e cioè che qui si discute fra un lavoratore e l’Inps del diritto ad alcuni benefici  al cui riconoscimento è tenuto  quest’ultimo e che quindi  ogni valutazione sulla sussistenza del rischio e della durata dell’esposizione è affidata, nel giudizio, ai protagonisti del processo e non a terzi (come è sicuramente l’Inail), secondo le regole dell’onere della prova. E che in queste controversie l’Inail non abbia alcun ruolo processuale e sostanziale, a parte questo giudice in analoghe vertenze, lo ha affermato di recente la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza  28 giugno 2001, n. 8859.

   D’altro canto non può far specie che l’Inail abbia – nella fase istruttoria della domanda – negato il c.d. attestato di rischio, posto che tale atteggiamento assolutamente acritico ( e contrario ai principi che dovrebbero governare l’attività di un Ente Pubblico preposto alla tutela dei suoi assicurati) si è reiterato anche nel giudizio, essendo rimaste inevase le richieste di informazioni disposte da questo Tribunale per il tramite del Consulente Tecnico. L’Inail , in sostanza, non si è curato di dare neppure una risposta alla richiesta di conoscere i casi di malattie professionali da amianto indennizzate. La risposta, ovviamente, avrebbe consentito l’acquisizione di un dato epidemiologico di estrema rilevanza .

  Dovremmo, in definitiva, chiederci se la sede Inail di Pisa sia o meno a conoscenza (dato che è preposto ad indennizzare le conseguenze delle malattie professionali e dato che, notoriamente, la vetreria S. Gobian ha rappresentato dai primi del secolo scorso una delle maggiori realtà industriali della città)  dei dati contenuti nelle relazioni della U.O. Igiene e Salute (in atti) e dei quali si dirà appresso o se non consti al medesimo Istituto (pubblico) che il Dipartimento prevenzione della USL 5 di Pisa  abbia interessato nel luglio del 1997 (v. allegati alla CTU) la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa  di un caso di morte per mesotelioma pleurico riguardante un dipendente della vetreria S.Gobain (da notizie di stampa si apprende oggi che è anche intervenuta sentenza di condanna per omicidio colposo); o dell’incidenza pari al moltiplicatore 3 rispetto al tasso della popolazione generale  della morte per tumore dei dipendenti di quella fabbrica, o pari al moltiplicatore 5 per i casi di tumore polmonare (v. relazione  USL  3.7.1997 in atti); o che all’Inail non consti che , trattandosi di una vetreria di dimensioni rilevanti e che utilizza un ciclo continuo di forni a temperature elevatissime, negli anni fino al 1990 l’amianto sia stato utilizzato sia per la coibentazione sia per la confezione di protezioni personali (guanti, tute, scudi, ecc.); o se ancora non risulti che nel 1996 una ditta specializzata (Cecchi Massimo di Livorno) abbia ricevuto incarico della S. Gobain di rimuovere materiali contenenti l’amianto (pani, dispositivi di protezione individuale, ecc.).

  O se tutto questo non constasse alla sede provinciale di Pisa che, in luogo di accertare la effettività delle condizioni di lavoro in quella fabbrica ed in quegli anni, si è trincerato dietro la mancanza dell’attestato di rischio – commissionato all’Inail , ma del tutto estraneo allo schema normativo della fattispecie – per negare che presso quella realtà lavorativa venisse utilizzato l’amianto (come in tutte le vetrerie, v. fra l’altro  C’era una volta..l’amianto, attività di censimento e controllo del rischio lavorativo in Toscana, Regione Toscana, 1995) sul solo presupposto burocratico della mancata attestazione dell’Inail.

  A dispetto delle consuete proclamazioni di terzietà che l’Inps utilizza a corredo delle sue memorie di costituzione (per affermare che l’Istituto è ente pubblico senza interessi privatistici da tutelare e che agisce nell’esclusivo interesse della collettività) vi è qui che, ancora una volta, l’Inps   ha chiuso gli occhi di fronte al dato effettivo (ed addirittura notorio) per sposare  acriticamente le risultanze della mancata attestazione. Né deve sfuggire come analogo atteggiamento sia stato tenuto dall’Inps nelle controversie che riguardavano i dipendenti della struttura geotermica di Larderello (v. Tribunale di Pisa  17.4.2002, Signorini ed altri c. Inps ) già ricompresa come azienda a rischio certo in  un atto di indirizzo ministeriale e dove l’amianto ha fatto vittime non solo fra i lavoratori ma anche fra la popolazione residente nella zona (basta dire che vi erano circa 240 km di tubature coibentate in amianto). Qui, poi, come si è avuto modo di apprendere, avendo lavorato in  quella struttura dipendenti provenienti da varie province toscane, si è avuto che per le stesse lavorazioni una sede provinciale (Livorno) abbia ricevuto dall’Inail l’attestato di rischio ed un'altra (Pisa) no, solo perché una sede Inail ha ritenuto una cosa ed un’altra l’opposto.

 Ma contentiamoci.

 

  2)Il dato normativo al quale parametrare  la fattispecie in esame è quello del comma 13 dell’art. 8  della legge n. 257/92, secondo cui “per i lavoratori  che siano stati esposti ad amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo, soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto, gestita dall’Inail, è moltiplicato, ai fini della prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”.

All’evidenza, i presupposti perché  il lavoratore abbia diritto ai benefici pensionistici sono l’aver lavorato per più di dieci anni in condizione di esposizione al rischio derivante dalla presenza di amianto e che il periodo (soggetto al moltiplicatore 1,5) sia tutto coperto dall’assicurazione obbligatoria . Lo scopo – come tutti sanno – è quello di allontanare i lavoratori  che siano stati esposti al rischio derivante dalla inalazione di fibre di amianto, qui la legge prevedendo una serie di differenziate tutele concorrenti.

  E’  oggi a tutti noto che l’amianto sia una pericoloso cancerogeno e  la inalazione delle  fibre possa comportare  gravi patologie polmonari. In particolare è noto come dalla inalazione di amianto possa derivare l’insorgere del mesotelioma della pleura, quale conseguenza diretta e non secondaria ad un preesistente stato infiammatorio provocato dalla inalazioni di polveri diverse. Fra l’inalazione di amianto ed il mesotelioma pleurico  o l’asbestosi vi è, dunque, un nesso diretto e specifico.

  E’ anche noto come l’amianto  abbia trovato larghissimo impiego in diversi settori industriali  sia  per la  sua duttilità sia per il suo basso costo di produzione ( v. intervento alla Camera dell’on Muzio nel corso dei lavori parlamentari, 12-14 luglio 1993) , e come, ancorché la sua pericolosità fosse nota sin dagli anni ‘50/’60 , solo nel 1983 la Comunità Europea ne abbia  ufficializzato la pericolosità, imponendo agli stati membri interventi di bonifica e sostanzialmente la sua eliminazione del ciclo produttivo (CEE/83/477). La direttiva europea è stata attuata in Italia solo nel 1991 (d.lgs. n. 277/1991), di tal che  per oltre dieci anni il nostro sistema industriale ha continuato ad utilizzare il prodotto  con la piena consapevolezza della sua elevata nocività.

   In tale contesto, la normativa che ci occupa e dunque l’istituzione del diritto al moltiplicatore contributivo assume un duplice significato, poiché non solo il legislatore ha inteso accelerare il percorso verso il trattamento pensionistico di chi sia stato esposto al rischio,  ma ha anche voluto responsabilizzare la collettività sul sacrificio imposto ai lavoratori del settore ( od a quegli altri che comunque abbiano partecipato a cicli prodottivi dove l’amianto era stato impiegato), così realizzando , mediante la valorizzazione pensionistica del periodo di esposizione,  una sorta di risarcimento generalizzato in favore di chi – per la colpevole inerzia del nostro ordinamento – sia stato costretto a lavorazioni certamente pericolose.

   3) Come accennato la legge non prevede alcuna “soglia di rischio” e per questa ragione se ne è fatta una questione di legittimità costituzionale, rigettata dal Giudice delle leggi con la pronuncia n. 5 del 2000, cui ha fatto seguito un indirizzo sostanzialmente uniforme della S. C. secondo il quale tale soglia dovrebbe coincidere con quella dei livelli di pericolosità di cui al d.lgs. n. 277/1991 ( da ultimo v.  Cass. 11.7.2002, n. 10114).

   I livelli di pericolosità di cui al d.lgs. n. 277/1991 sono dettati, come è noto, ai fini degli interventi preventivi e tuttavia la giurisprudenza di legittimità li ha mutuati  utilizzandoli come parametri per la attribuzione dei benefici di cui si discute, ancorché sia pacifico – secondo lo stesso indirizzo della S.C. (v. per esempio  Cass. 7.4.1998, n. 03582 in tema di soglia per le ipoacusie ex d.lgs. n. 277 cit.) – che il mancato superamento dei limiti di esposizione secondo i parametri dettati per la prevenzione non escluda che vi sia nesso di causa per il  riconoscimento delle malattie professionali.

  Non vi è dubbio, ora, che una cosa è la malattia professionale eventualmente contratta ed altra è il beneficio che ci occupa, ma è  ragionevole dedurre che la valutazione della potenzialità nociva non possa essere che identica, posto che il beneficio pensionistico non può essere ricollegato che al medesimo rischio, benché il sistema indennitario della malattia operi nella concreta evenienza e quello pensionistico abbia riguardo alla generica potenzialità lesiva. Ma non si può affermare – quantomeno per ragioni sistematiche – che vi sia nesso fra una esposizione inferiore allo soglia di cui al d. lgs. n.  277/91 e la malattia professionale contratta e non vi sia  potenzialità di contrarla se c’è la medesima quantità di esposizione.  A maggior ragione questo vale, ove si consideri che l’eventuale gap fra l’una e l’altra ipotesi (ove si accedesse alla tesi della maggiore intensità  di esposizione per l’attribuzione del beneficio previdenziale) è annullato dal requisito della durata, che è elemento costitutivo della fattispecie in esame, posto che, come è noto, l’esposizione diventa irrilevante ai fini del trattamento pensionistico per il caso in cui sia durata per meno di dieci anni.

  Né deve sfuggire l’inconsistenza  scientifica della tesi sostenuta dall’Inps – sulla base delle pronunce della S.C. – secondo la quale occorrerebbe una esposizione per dieci anni a soglie di rischio superiori a quelle che costituiscono il minimo per gli interventi di prevenzione, che finirebbe per limitare l’attribuzione del moltiplicatore a lavoratori  sottoposti ad una esposizione di tale intensità e durata da risultare praticamente incompatibile con la stessa loro sopravvivenza.

  In realtà al legislatore non poteva essere sfuggita l’opinione – assolutamente uniforme nella comunità scientifica – secondo la quale in oncologia professionale non vi è soglia di rischio. Sul punto osserva il CTU che “ si tratta…di patologie per le quali non è individuabile una dose-soglia, cioè che non sono dose dipendenti. Anche per il mesotelioma è stata accertata l’esistenza di una correlazione  con la dose di fibre inalate apparentemente senza soglia. I mesoteliomi sono stati osservati, infatti, anche in casi di esposizione ritenuta molto bassa o anche a esposizioni non professionali come quelle descritti di familiari di lavoratori esposti o in abitanti in zone prossime ad insediamenti industriali per l’estrazione o la lavorazione dell’amianto”.

  E’  proprio per questa ragione, unanimemente affermata in letteratura medico-legale, che il legislatore – al fine di individuare un parametro che qualificasse  la condizione dell’avente diritto – ha evitato di utilizzare il criterio della  quantità di esposizione ed  ha, invece, optato per quello della sua  durata, sul presupposto, scientificamente corretto, che una esposizione anche minima ma di lunga durata esprimesse la potenzialità lesiva della condizione lavorativa .

  Sul punto, per altro, appare illuminante l’affermazione del CTU secondo cui “il rischio…aumenta con l’aumento del periodo di esposizione. Una volta penetrato nell’organismo…l’amianto resta in loco e quindi anche se la dose di esposizione può essere contenuta  è necessaria moltiplicarla per tutto il periodo di esposizione. Pertanto la dose di esposizione all’amianto  complessiva nel tempo, anche per piccola dose, va considerata dose alta, proprio perché l’amianto sta nell’organismo  per tempi lunghissime ed a modo di esercitare la sua azione nociva a lungo”.

  E questa affermazione, per completezza, non è affatto contraddetta dal dato normativo che fa riferimento ai periodi lavorativi soggetti “all’assicurazione obbligatoria per le malattie professionali derivanti dalla esposizione all’amianto”, poiché la norma fa riferimento all’assicurazione Inail “generale” e non certamente alla sussistenza dei presupposti per il pagamento del c.d. premio supplementare ( da ultimo in tal senso v.  Cass. 10114/2002 cit. secondo cui “ in tema di benefici per i lavoratori del settore amianto, il disposto dell’art. 13, ottavo comma della legge n. 257 del 1992 va interpretato nel senso che il beneficio pensionistico ivi previsto deve essere attribuito, indipendentemente dall’eventuale obbligo del datore di lavoro di corrispondere all’Inail il premio supplementare per asbestosi di cui all’art. 153 del d.p.r. 1124/1965…”.

 

 4) Utilizzando il dato scientifico del quale si è detto unitamente all’elemento –durata si ha che l’esposizione ai fini del benefici in questione  deve ritenersi sussistente  anche ove si tratti di mera esposizione ambientale e quando il lavoratore non sia stato direttamente a contatto con l’amianto ma abbia reso la sua prestazione in ambiente lavorativo comunque presumibilmente inquinato. Qui si tratta di ricorrere allo stesso schema che consente di affermare la indennizzabilità della malattia professionale anche nel caso di mera esposizione ambientale. Ne dovrebbero rimanere esclusi solo quei lavoratori che, in ragione delle loro mansioni, non abbiano avuto contatti frequenti con l’ambiente inquinato.

  Fatta questa premessa può passarsi ad esaminare se in concreto S. Gobain abbia utilizzato l’amianto, anche se la natura della produzione esimerebbe questo Tribunale da una indagine particolareggiata ( infatti è notorio che uno dei settori dove l’amianto  è stato impiegato sia quello della produzione del vetro).

  S. Gobain produce da decenni vetro anche per impieghi speciali. Il vetro si produce utilizzando il quarzo fuso ad altissime temperature. Il cuore della fabbrica è dato, notoriamente, dai forni a ciclo continuo. La stessa direzione aziendale, rispondendo alle richieste del CTU, con nota 19.5.2000 ed avuto riguardo agli attuali ricorrenti   non nega l’esposizione all’amianto (“per quanto attiene l’eventuale presenza di amianto negli ambienti in cui hanno soggiornato i summenzionati nostri ex dipendenti, non si può escludere che le persone indicate siano state in contatto con materiali caratterizzati dalla presenza anche di amianto, con particolare riferimento agli strumenti all’epoca adoperati come protezione negli ambienti ad alte temperature”).

  Ove questo non  fosse sufficiente  basterà  leggere la relazione del Dipartimento di Prevenzione della USL 5 di Pisa al Procuratore della Repubblica in data 20.01.1997 allegata alla relazione di CTU dalla quale si deduce che negli anni 1991 e 1992 erano stati effettuati dei sopralluoghi  in esito ai quali era stata accertata la presenza di amianto ed in particolare nel reparto “vetri accoppiati auto” : a) di calzette, cioè tessuto di amianto  (c.d. amianto blu in forma fisica molto più pericolosa di altri prodotti);  b) di coibentazione dei forni con amianto  “treccia o corda”, con la parte esterna usurata dal tempo ed in grado di rilasciare fibre aerodisperse; nel reparto “ vetri stratificati per l’edilizia” : a) di rulli di scorrimento contenenti amianto , b) di guanti protettivi e nastro di tessuto in amianto , c) di pani in amianto da coibentazione, d) di una lastra pana contenente amianto in buono stato di conservazione. E’ inoltre risultato che  nel 1993 si stava procedendo alla rimozione di una copertura  in cemento amianto  nel primo reparto e che nel 1996 una azienda specializzata di Livorno stava procedendo ad operazioni di bonifica su materiali di protezione ed altro nel secondo reparto.

  Si ha dunque che non solo ancora nei primi anni ’90 ancora in quella fabbrica si utilizzava l’amianto come sistema di isolante termico , ma come ancora nel 1996 ( e dunque sedici anni dopo l’ufficializzazione in sede europea della sua pericolosità) l’amianto fosse  stoccato nei suoi  magazzini. Presumere che negli anni antecedenti ci sia stato un largo e diffuso impiego  di quel materiale – nonostante la normativa protezionistica e  l’obbligo  datoriale ex art. 2087 c.c. – è cosa agevole e ragionevolissima. 

  Se non bastasse vale la pena considerare quanto ancora è risultato in analoga controversia ( Tribunale di Pisa  5.11.2002, n. 1044, Est. Schiavone, Rossi c. Inps, in atti) nella quale il diritto dei ricorrenti è stato riconosciuto senza neppure ricorrere all’ausilio di una CTU e sulle informazioni fornite al giudice dalla Unità Operativa della USL n. 5, secondo cui “ nell’azienda S. Gobain si è verificata una esposizione ad  amianto specialmente in alcuni settori”…”il materiale contenente asbesto è stato molto diffuso in alcuni reparti fino agli ultimi anni”…”le scoibentazioni dei forni contenenti amianto si sono infatti verificate recentemente”. Risulta ancora da tali informative che “ la maggior parte di esposizione ad amianto  riferita dai lavoratori era costituita dal lavoro presso vari tipi di forni dove tale sostanza era diffusamente utilizzata come coibente, sia sotto forme di amianto in fiocco, che sotto forme di manufatti (corde, cordami, cartoni) utilizzato nelle frequenti operazioni di manutenzione del forno  o come protezione in prossimità del forno…i pannelli venivano tagliati e sagomati manualmente.” Risulta ancora come del materiale ne venisse fatto un uso improprio, come pianali per la doccia ovvero per riscaldare i pasti.

  Risulta ancora che “le informazioni fornite dagli ex lavoratori, oltre ad essere coerenti e concordanti fra di loro, erano sovrapponibili a quelle in possesso a questo Servizio. Si è notata solo una certa discrepanza con le notizie di fonte aziendale, in quanto questa ha generalmente sottostimato questa esposizione in quanto l’amianto non entrava direttamente nel ciclo produttivo”.

  Se ne può dedurre che sostanzialmente tutti i lavoratori  che abbiano operato nei settori  produttivi ( o di stoccaggio di materiali) della S. Gobian sono stati esposti, per l’uso diretto o per l’incidenza meramente ambientale, al rischio derivante dall’amianto in misura sicuramente differenziato rispetto alla popolazione generale e comunque apprezzabile ai fini della attribuzione dei benefici di cui si discute, ciò potendosi desumere dal largo impiego (coibentazione dei forni, mezzi di protezione individuale, strutture in eternit) del prodotto nocivo, dal suo uso improprio  e dalla condizioni di facile aerodispersione derivante dal tipo di lavorazione ( o dalla stessa disinvoltura  con il quale veniva manipolato in difetto della conoscenza della sua nocività).

  Per completezza questo giudice si vuol dare carico delle osservazioni del CT di parte convenuta il quale fa leva sulla mancata valutazione della soglia di rischio di cui al d.lgs. n. 277/1991, pur dando atto al CTU di “aver fatto un buon lavoro”, ancorché – a suo personale giudizio – non corretto sul piano medico legale. Qui si tratta solo di ribadire i principi già affermati sul tema ed in ordine ai quali è stata data ampia giustificazione. D’altro canto il Consulente dell’Ufficio muove da un presupposto medico legale del tutto diverso – ed unanimemente condiviso dalla letteratura – secondo il quale in oncologia professionale non ha senso individuare soglie di rischio. E ciò basterebbe.

  Il consulente dell’Inps, tuttavia, si cimenta anche in  argomentazioni  asseritamente giuridiche in ordine alle quali basterà   la singolarità della tesi  ( in realtà, originalissima)  secondo la quale  il periodo che può essere preso in considerazione sarebbe quello dalla data di pubblicazione (sic!) del T.U. Inail del 1965 fino al 1992 (data di entrata in vigore della legge sui benefici). Ovviamente l’argomento , del tutto privo di supporti normativi ( e che giustamente il procuratore dell’Inps non ha speso nel processo), non ha alcun pregio e denota semplicemente il convincimento di chi lo propone di una acritica esigenza di favorire le interpretazioni più restrittive possibili.

 

  5) Le mansioni svolte dai ricorrenti non sono in contestazione e per alcuni di essi risultano accertate e valutate anche in sede di CTU. Tutti , in definitiva, sono  stati impegnati per i periodi esposti in mansioni operative all’interno della struttura industriale, certamente esposti, secondo i criteri sopra indicati, alla nocività dell’amianto (quantomeno a causa del rischio ambientale). I  ricorrenti  che ancora non fruiscono del trattamento pensionistico avranno, pertanto, diritto al moltiplicatore, mentre quanti altri avessero proposto la domanda prima di maturare il diritto a pensione avranno diritto al risarcimento del danno da quantificarsi nei ratei di pensione non percepiti dalla domanda amministrativa e nella indispensabile ricostruzione del trattamento pensionistico conseguente ( Trib. Pisa  5.11.2002, cit.)

 

  6) Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, devono essere poste a carico dell’istituto soccombente.

  P.Q.M.

  Il giudice accoglie tutte le domande e per l’effetto dichiara che   sottoindicati ricorrenti hanno diritto al beneficio del moltplicatore 1,5 di cui alla legge 257/1992:

 

        -IACUISSI SALVATORE per il periodo  dal 1962 al 1983;

        -MICHELOTTI RINALDO per il periodo 1959 al 1981;

        -BRINI LUIGI dal 1973;

        -GNERI MARIO  dal 1962;

  Dichiara che i sottoindicati ricorrenti hanno lavorato in condizioni di esposizione ai sensi della legge n.257 del 1992.

        -TINUCCI CARLO dal 16.3.1961 al 31.12.1996;

        -MELA FRANCESCO dal 2.4.63 al 31.12.1996;

        -GRIGIONI ENNIO dal 12.11.1962 al 30.0.1996;

  -GALLETTI MARCELLO  dal 12.10.62 al 31.3.1998.

  Condanna l’Inps a risarcire il danno  derivante dal mancato accoglimento della domanda avanzata da  TINUCCI CARLO, MELA FRANCESCO , GRIGIONI ENNIO e GALLETTI MARCELLO , nella misura dei ratei di pensione omessi dalla data della domanda amministrativa a quella di effettiva maturazione del diritto a pensione ed alle differenze pensionistiche derivante dalla ricostruzione del trattamento.

  Condanna l’Inps al pagamento delle spese di lite che liquida nella somma di €  2000 oltre Iva e Cap in favore di ciascuno dei ricorrenti ( € 1000 per onorari, € 990 per diritti ed € 10 per spese).