Tribunale di Ravenna - Sentenza del 13 aprile 2000 Rel. Riverso - Laghi e Romagnoli (Avv.ti Dall'Asèn e Giardini) c. INAIL (Avv. Mancini) e c. INPS (Avv.ti Caruso e Vagliasindi) |
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dal sito:
http://www.pegacity.it/justice/impegno Amianto
- Benefici previdenziali ex L. n. 257/1992 per esposizione ultradecennale -
Sentenza n. 5/2000 della Corte costituzionale- Esposizione ultradecennale
all'amianto - Sufficienza senza altri requisiti - Soglia di esposizione - Non
necessità - Logica compensativa/risarcitoria - Soglie
di esposizione ex D. Lgs. n.
277/1991 - Irrilevanza ai fini dei benefici di cui alla legge n. 257/1992 -
Altri limiti o standards di esposizione – Insussistenza –
Utilizzabilità semmai solo del D.M. 6 settembre 1995 che condiziona la
retituibilità dei locali bonificati a concentrazioni d’amianto non
superiori a due fibre/litro. q
In base alla L. n.
257/1992, secondo l'interpretazione della Corte costituzionale con la sentenza
12 gennaio 2000, n. 5, i benefici per l'esposizione all'amianto non sono
limitati a chi era soggetto al premio per l'asbestosi, né solamente a chi ha
perso il posto nel settore amianto, ma sono dovuti a tutti i lavoratori
esposti per oltre dieci anni all'amianto - in funzione compensativa/risarcitoria
- senza che sia necessario raggiungere una soglia di esposizione, nella logica
che è giusto accorciare i requisiti contribuitivi necessari per la pensione a
favore di chi ha avuto accorciata presumibilmente la vita per l'esposizione
all'amianto e che è soggetto dopo un periodo lunghissimo al sopraggiungere
improvviso e imprevedibile di malattie gravissime o della morte. q
Le soglie di
esposizione all'amianto indicate dal D.Lgs.
n. 277/1991 sono irrilevanti ai fini dei benefici
previsti dalla L. n. 257/1992 che sono previsti per la semplice esposizione,
in via diretta o indiretta, all'amianto, mentre
le soglie di esposizione ex D.Lgs. n. 277/1991
non costituiscono «valori limite», perché
non hanno la funzione di demarcare in modo
rigido l'innocuo dal nocivo, ma hanno solo la
funzione di indicare soglie d'allarme, al di sopra
del quale deve attivarsi un complesso e adeguato sistema di informazione e
controllo; le soglie di esposizione
previste dal D.Lgs. n. 277/1991
costituiscono un limite massimo, al di sotto
del quale rimane comunque la nocività dell'amianto. q
I benefici per
l'amianto disposti dalla L. n. 257/1992
sono riconosciuti solo in rapporto al rischio
morbigeno ultradecennale, individuato nella
legge nella semplice esposizione, senza indicare limiti o standards; la L. n.
257/1992 non indica la necessità
di tali limiti e la Corte costituzionale, con la sentenza 12 gennaio 2000, n.
5, ha confermato la legittimità
della scelta, mentre i limiti vari
e non uniformi previsti in rapporto a specifici
fini prevenzionistici non possono valere, per
necessità logica e per espressa disposizione di legge,
ai diversi fini dei benefici previdenziali; in ogni
caso l'unico limite utilizzabile non potrebbe essere
che quello previsto dal D.M. 6 settembre 1995,
per cui è prevista la restituibilità dei locali bonificati
solo in caso di concentrazione dell'amianto non superiore a 2 fibre/litro. Questioni
preliminari 1-a
- Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione di improcedibilità del
ricorso sollevata dalla difesa dell'INPS, nella memoria di costituzione, perché
i ricorrenti «intraprendevano l'odierna azione giudiziale, senza aver
proposto, cosi come invece prescritto dall'art. 443 c.p.c., la necessaria
domanda in via amministrativa». L'eccezione,
così come formulata, non è, anzitutto, di immediata comprensione essendo
pacifico che i ricorrenti abbiano invece presentato la domanda amministrativa
e che la stessa sia stata respinta dall'INPS in quanto i ricorrenti non
avevano cessato l'attività lavorativa all'atto della domanda; in secondo
luogo nessuna norma prescrive di presentare una ulteriore «domanda» all'INPS
prima di promuovere un qualsiasi giudizio. In ogni caso, per quanto occorrer
possa, qualora si fosse inteso fare riferimento alla mancata presentazione di
un ricorso amministrativo sulla reiezione della domanda presentata all'INPS -
che rappresenta peraltro l'ipotesi tipica regolata dall'art. 443 c.p.c. -
l'eccezione deve ritenersi priva di fondamento in quanto l'accertamento dei
requisiti costitutivi del beneficio contributivo di cui si discute non è
subordinato al preventivo esperimento di ricorsi amministrativi da alcuna
nonna di legge; laddove, una previsione di tale portata sarebbe stata
necessaria per poter incidere sulla procedibilità della domanda giudiziale;
l'art. 443 c.p.c. prevede infatti l'improcedibilità delle domande giudiziali
in materia di assistenza e previdenza proposte prima che «siano esauriti i
procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede
amministrativa ... ». 1-b
- Vanno inoltre respinte le eccezioni con le quali la difesa dell'INAIL ha
sostenuto l'inammissibilità della domanda per carenza dell'interesse ad agire
ex art. 100 c.p.c. (in quanto
sarebbe diretta ad accertare mere situazioni di fatto) ed il proprio difetto
di legittimazione passiva. Anzitutto
deve essere premesso che, nel caso sottoposto al giudizio, è pacifico che i
pareri forniti dal CON.TA.R.P. e le dichiarazioni emesse dall'INAIL siano
state negative per i ricorrenti essendo approdate alla conclusione di
escludere la loro esposizione all'amianto; tali conclusioni sono state assunte
sulla base di accertamenti il cui contenuto non è stato mai portato a
conoscenza dei ricorrenti; sicché è evidente che sussiste, oltre alla
procedibilità della domanda, l'interesse attuale e concreto dei ricorrenti ad
ottenere una pronuncia giudiziale sullo stesso tema. In
ogni caso non si capisce in che senso la domanda dei ricorrenti sarebbe
diretta ad accertare mere situazioni di fatto e pertanto carente di interesse
ad agire; laddove è invece chiaro che i ricorrenti chie-dano in giudizio
l'accertamento delle loro situazioni giuridiche soggettive, ossia del loro
diritto a beneficiare della rivalutazione contributiva stabilita dalla norma. Sul
punto la questione è stata risolta negli stessi termini dalla sentenza della
Corte cost. n. 5/2000: «il giudizio a
quo ha per oggetto una domanda di accertamento del diritto al beneficio
previdenziale contemplato dalla denunciata disposizione, il cui eventuale
riconoscimento verrebbe ad incidere attualmente sulla posizione pensionistica
degli interessati, in guisa di incremento della contribuzione utile ai fini di
un futuro trattamento pensionistico». D'altra
parte lo stesso Istituto riconosce nella circolare 23 novembre 1995 che dopo
il parere negativo della Contarp (in sede di riesame) agli interessati «non
resterà che il ricorso all'autorità giudiziaria», talché non si intuisce a
che pro la difesa dell'INAIL solleva tale infondata eccezione. l-c
- Deve essere inoltre ribadita la sussistenza della legittimazione passiva
dell'INAIL nella presente causa. Secondo
il procedimento stabilito nella materia (in sede congiunta da INPS, INAIL,
Ministero del lavoro e parti sociali; v. circolari in atti) gli accertamenti
sull'esposizione necessari ai fini dell'eventuale riconoscimento del beneficio
contributivo sono demandati per intero all'INAIL il quale si avvale del parere
della CON.T.A.R.P. (Consulenza Tecnica Accertamento Rischi Professionali);
dopo aver esaminato il curriculum professionale rilasciato dal datore di
lavoro e tutti gli altri elementi in possesso della locale sede, l'INAIL
stabilisce, a conclusione dell'istruttoria, se il singolo lavoratore è stato
esposto o meno all'amianto ed in caso positivo in relazione a quali mansioni,
in quali reparti e per quali periodi, rilasciandone una dichiarazione
all'interessato. Non
è vero quindi che l'INAIL agisce come mero consulente dell'INPS, atteso che
le conclusioni assunte dal primo istituto sono pregiudiziali e vincolanti nei
confronti dell'altro istituto: talché quando siano state negative per i
lavoratori, avendo escluso in fatto l'esposizione all'amianto, esse sono
sostanzialmente preclusivi dell'ulteriore corso del procedimento non essendovi
spazio per richiedere all'INPS alcuna eventuale rivalutazione contributiva. In
tal caso dovrebbe riconoscersi persino agli interessati la facoltà di
convenire immediatamente in giudizio lo stesso INAIL ove intendessero
conseguire solo l'accertamento dei presupposti da far valere successivamente
presso l'INPS per il riconoscimento del beneficio (d'altra parte la stessa
evenienza è sottesa alle difese svolte dall'INPS il quale, come risulta dalla
memoria di costituzione, contesta che si possa ottenere il riconoscimento del
beneficio contributivo in costanza del rapporto di lavoro). Nemmeno
a tale proposito potrebbe parlarsi di una teorica ed inammissibile domanda di
accertamento, sussistendo invece il concreto interesse dei ricorrenti alla
verifica dei requisiti necessari per il successivo riconoscimento del
beneficio, senza dover inoltrare alcuna richiesta all'INPS ed attenderne
l'esito negativo scontato. D'altra
parte proprio l'INAIL riconosce che in caso di accertamento negativo
dell'esposizione «agli interessati non resta che rivolgersi all'autorità
giudiziaria»; la previsione, pur non potendo condizionare il regime della
procedibilità della domanda (vedi quanto esposto sullo specifico punto nella
sentenza cit. di questo giudice), vale ad evidenziare come i provvedimenti
emessi dall'INAIL in materia assumano una rilevanza esterna tale da poter
essere sindacati immediatamente in sede processuale nei confronti dello stesso
istituto. Quando
invece gli interessati agiscono, come nella fattispecie, dopo aver presentato
la richiesta del riconoscimento del beneficio all'INPS, la verifica
processuale si incentra su tutto l'arco degli elementi costitutivi del diritto
in base alla legge: l'accertamento dell'esposizione e il riconoscimento del
beneficio. Essa coinvolge quindi
competenze facenti capo ai due istituti i quali devono essere posti parimenti
nelle condizioni di partecipare al giudizio e di difendersi. Non
si vede quindi come si possa contestare la necessità che partecipi al
giudizio l'INAIIL che è tenuto ad accertare in sede amministrativa il
fondamento stesso della pretesa avanzata dagli interessati. Tutto
ciò dimostra come, ad avviso di questo giudice, nei casi in cui l'esito del
procedimento amministrativo sia stato negativo per i lavoratori, il reale
contraddittore dell'interessato che agisca in giudizio sia l'INAIL, e non
l'INPS che rimane invece in una posizione accessoria ai soli fini del regolare
accredito dei contributi; del resto ciò è verificabile in concreto in base
alla domanda svolta in giudizio dai ricorrenti le cui doglianze si appuntano
principalmente sul fatto che si neghi la loro esposizione all'amianto. Deve
essere poi ribadito che non sussistevano i presupposti per disporre la
chiamata in causa del datore di lavoro sollecitata dall'INPS ai sensi
dell'art. 107 c.p.c., non potendo ritenersi che la causa fosse «comune» al
datore di lavoro, così come richiede la norma per poter disporre la chiamata.
Secondo le stesse istruzioni dettate da INAIL e INPS nella materia di cui si
tratta, il datore di lavoro è tenuto a rilasciare un mero curriculum
lavorativo ai propri dipendenti e tale adempimento è stato assolto dall'Enichem
nei confronti dei ricorrenti. Inoltre la domanda azionata dai ricorrenti in
questo giudizio si fonda sulla ritenuta esenzione del datore di lavoro
dall'obbligo del pagamento di premi assicurativi supplementari, sicché il
datore di lavoro non aveva titolo ad intervenire (né ad essere chiamato)
neppure ad adiuvandum, dal momento
che la decisione resa in questo giudizio non esplica alcun effetto giuridico
nei suoi riguardi, diretto o indiretto; neppure è possibile sostenere che la
chiamata in causa potesse essere comunque disposta perché la presenza del
datore nel giudizio fosse
semplicemente opportuna potendo egli fornire apprezzabili elementi di
valutazione in merito al fatto dell'esposizione all'amianto dei ricorrenti: è
chiaro infatti che il presupposto della chiamata in causa non consiste nella
mera opportunità della presenza di un terzo in giudizio, ritenuta dal
giudice, ma nell'esistenza del presupposto della «comunanza della causa»
stabilito dalla legge; in ogni caso nella fattispecie non esisteva neppure la
semplice opportunità di cui si è appena detto, in quanto, una volta
acquisito il curriculum lavorativo, l'accertamento dell'esposizione è
specificamente demandato dalla normativa ad un organo tecnico come la CONTARP,
il quale organo è tenuto, prima del processo, a procedere ad un'accurata
istruttoria in sede amministrativa sulla eventuale esposizione acquisendo
tutti gli elementi necessari per formulare il proprio parere finale. La
questione di diritto L'art.
13, comma 8, L. n. 257/92; l'interpretazione della norma e la sentenza n. 5
del 12 gennaio 2000 della Corte costituzionale. 2.1
- La L. n. 257/92 detta «norme relative alla cessazione dell'impiego
dell'amianto» e nell'art. 13 prevede una serie di «misure di sostegno» per
diverse categorie di lavoratori (cassa integrazione, prepensionamenti,
benefici contributivi); in particolare: -
il comma 1 dell'art. 13 prende in esame i lavoratori occupati in imprese che
utilizzano ovvero estraggono amianto, impegnate in processi di
ristrutturazione e di riconversione produttiva, per riconoscere il diritto al
trattamento straordinario di integrazione salariale; -
il comma 2 dell'art. 13 prende in esame gli stessi lavoratori per riconoscere
il beneficio del pensionamento anticipato, a prescindere dal periodo in cui
sono stati occupati nelle stesse imprese, e sempreché possano far valere
determinati requisiti contributivi; -
il comma 6 dell'art. 13 prende in esame i lavoratori delle miniere o delle
cave, a prescindere da qualsiasi concreta esposizione (e quindi riconosce il
beneficio anche ai dirigenti come si ricava dall'art. 13, comma 9); -
il comma 7, considera i lavoratori che abbiano contratto malattie
professionali (anche non tabellate) a causa dell'esposizione, a prescindere da
tempi e livelli di esposizione; -
il comma 8, accorda il beneficio ai lavoratori che siano stati esposti alla
sostanza nociva per oltre dieci anni, a prescindere dalla natura dell'impresa
e da qualsiasi soglia di esposizione. Come
è stato osservato dalla dottrina in argomento, in nessuna delle ipotesi è
previsto che il conseguimento del beneficio sia necessario che i lavoratori
siano stati direttamente addetti alla lavorazione dell'amianto ovvero a
lavorazioni con determinate concentrazioni ovvero a quelle richieste per il
pagamento del premio asbestosi. E
stato dunque assunto come elemento determinante il rischio amianto e
l'esposizione prevista dalla legge va riferita logicamente a tutto l'ambiente
di lavoro «nella logica del rischio»: non solo chi è esposto direttamente ma
anche chi è esposto indirettamente subisce il rischio di malattia.
La legge lascia fuori della tutela solo chi ha avuto un'esposizione
all'amianto inferiore al decennio; ma anche in questa ipotesi il diritto verrà
acquisito in base al comma 7 in caso di successiva manifestazione di una
malattia professionale da amianto. Il
comma 8 dell'art. 13, che qui interessa, recita nel suo tenore testuale
(sostituito dalla L. 4 agosto 1993, n. 271): «Per i lavoratori che siano
stati esposti all'amianto per un periodo superiore a dieci anni, l'intero
periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali derivanti dall'esposizione all'amianto, gestita dall'INAIL, è
moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di
1,5». La norma è stata
applicata da questo giudice con diverse sentenze (per tutte la sentenza n.
139/99) nelle quali era stata sostenuta la tesi secondo cui il beneficio in
oggetto è riconosciuto, secondo una chiara e meditata scelta discrezionale
compiuta dal legislatore (resa evidente dalle modifiche che la norma aveva
subito nelle sue varie edizioni), a tutti i lavoratori esposti per più di
dieci anni al rischio di contrarre malattie da amianto secondo il sistema c.d.
misto di assicurazione gestito dall'INAIL. In
particolare si era sostenuto nelle stesse sentenze che la norma: a. non
seleziona i destinatari del beneficio in base al tipo di rischio (asbestosi o
altre malattie correlate all'asbesto); b. non seleziona i destinatari in
relazione alla tipologia dell'impresa presso cui il rischio sarebbe stato
contratto; c. non seleziona in base a limiti di esposizione rigidamente
prefissati; d. ha una funzione compensativa-risarcitoria; e. deve essere
armonizzata con il sistema assicurativo di tutela dalle malattie
professionali. I
risultati interpretativi raggiunti in dette sentenze risultano ora totalmente
confermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del 12 gennaio 2000
con la quale il giudice delle leggi si è pronunciato sulla norma in
argomento. Tale
sentenza è stata pronunciata su ordinanza emessa dal Tribunale di Ravenna (in
atti) in sede di appello alla prima delle sentenze redatte sull'argomento da
questo giudice; già il tribunale aveva evidenziato nelle premesse di quella
ordinanza, che sul piano dell'interpretazione della legge ordinaria, quella
adottata da questo giudice fosse «l'unica interpretazione tecnicamente
corretta della norma»; il tribunale aveva, nondimeno, rimesso gli atti alla
Corte costituzionale ritenendo che la norma, pur correttamente interpretata
nei termini di cui sopra, fosse sospetta sul piano della legittimità
costituzionale per asserito contrasto con gli artt. 3 e 81 della Cost.: in
sostanza perché indeterminata e priva di adeguata copertura finanziaria (pur
essendo, in quanto «norma previdenziale», sottratta ad obblighi di rigorosa
determinatezza sul piano costituzionale, e già applicata in via
amministrativa in migliaia di casi dagli istituti convenuti senza alcuna
controversia giudiziale). La
Corte costituzionale ha dichiarato infondate le doglianze sollevate dal
Tribunale di Ravenna (oltre che dal Pretore di Vicenza, v. pure ordinanza in
atti) ed ha sostenuto che la norma delinea una fattispecie legale attributiva
di un beneficio previdenziale, la quale pur concentrandosi sul dato
dell'esposizione ultradecennale all'amianto (ritenuto scarsamente determinato
dal giudice a quo), consente una
congrua selezione degli aventi diritto, essendo sufficiente allo scopo
l'impiego degli ordinari criteri ermeneutici (letterale, sistematico e
teleologico); tramite i quali la norma trova congrua definizione nella sua
portata «in vista della sua piana e puntuale applicazione». In
particolare, gli «argomenti» utilizzati dalla Corte per giungere alla
corretta interpretazione della fattispecie sono rappresentati: dal richiamo
all'evoluzione subita dalla disciplina di cui si tratta attraverso le
modifiche via via apportate dal legislatore per giungere all'attuale testo
normativo; dallo scopo della disposizione; dal criterio costituito dalla
durata della esposizione (che deve essere ultradecennale); dall'elemento
dell'attività lavorativa (artt. 1 e 3 D.P.R. n. 1124/65) che rimanda al
concetto di rischio morbigeno «rispetto alle patologie quali esse siano che
l'amianto è capace di generare per la sua presenza nell'ambiente di lavoro». L'impiego di tali criteri porta la Corte a concludere che «La disposizione denunciata poggia quindi su un sicuro fondamento rappresentato sia dal dato di riferimento temporale sia da quella nozione di rischio che, come è noto, caratterizza il sistema delle assicurazioni sociali». 2.2
- Deve essere subito avvertito che ogni riferimento al sistema
dell'assicurazione obbligatoria ed al concetto di rischio morbigeno, contenuto
nella sentenza della Corte costituzionale, deve essere letto, ovviamente, alla
luce del sistema c.d. misto la cui introduzione più volte sollecitata dalla
Corte (fin dalla sentenza n. 206/74), è stata alla fine attuata direttamente
dalla Corte stessa con la sentenza n. 179/88, la quale ha segnato la fine del
sistema tabellare chiuso, ritenuto in contrasto con l'art. 38, secondo comma,
Costituzione, ed ha consentito l'introduzione di un nuovo sistema, appunto
misto, con liste aperte, in grado di tutelare più adeguatamente il lavoratore
(perché capace di allargare con i mezzi di prova ordinari l'area
dell'accertamento dell'eziologia professionale).
Il sistema di assicurazione misto, rifugge da limitazioni rigide o
regole predeterminate; ad es. la fissazione di un parametro rigido di
esposizione a proposito della tutela delle patologie correlate all'amianto
porterebbe ad una nuova chiusura del sistema misto «costituzionalizzato»
dalla Corte (come l'unico in grado di tutelare efficacemente, senza vuoti, il
lavoratore sul piano assicurativo). Nell'attuale
sistema assicurativo, secondo il D.P.R. n. 1124/65, tra le malattie
professionali risultano tabellate: -
«l'asbestosi» (secondo l'allegato 8 del T.U.) per «lavori nelle manifatture
e lavori che comportano impiego ed applicazione di amianto e di materiali che
lo contengono o che comunque espongono ad inalazione di polvere di amianto»; -
le altre malattie correlate all'amianto; «Malattie neoplastiche causate
dall'asbesto: mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale, carcinoma del
polmone». In caso di «Lavorazioni
che espongono all'azione delle fibre di asbesto, anche se presenti nel talco»,
secondo il D.RR. 13 aprile 1994, n. 336. Nell'uno
e nell'altro caso, non viene richiesto di provare in alcun modo l'esposizione
ad una determinata concentrazione di fibre; data la tabellarietà della
malattia, una volta provata la lavorazione e la malattia, il nesso eziologico
è presunto dalla legge. Quindi
secondo il sistema del T.U. anche le altre patologie correlate all'amianto,
diverse dall'asbestosi, sono «normali» malattie professionali e sono coperte
a livello assicurativo senza pagamento di premio supplementare, bensì in base
al pagamento dell'ordinario premio assicurativo: ciò avveniva anche prima
della loro tabellazione attuata con D.P.R. n. 336/94 e fin dalla sentenza n.
179/88 della Corte costituzionale e quindi anche al momento in cui era entrata
in vigore la L. n. 257/92; l'unica differenza rispetto alla tabella, è che
prima il lavoratore doveva dare la prova della derivazione causale della
malattia dall'attività lavorativa, mentre ora tale prova è presunta per
legge una volta dimostrata la lavorazione e la malattia. Deve
essere inoltre evidenziato come - secondo unanimi e risalenti conoscenze di
carattere medico scientifico e secondo le univoche prescrizioni normative
(direttiva CEE 477/83, D.Lgs. n. 277/91) - non esistono limiti al di sotto dei
quali possa ritenersi innocua l'esposizione ad amianto; infatti il rischio
morbigeno è rappresentato dall'esposizione in sé, anche a basse dosi
(testualmente la direttiva CEE 477/83). Pertanto
l'esposizione ad amianto di un lavoratore, tanto più se prolungata per oltre
dieci anni, sia essa diretta (in relazione a determinate mansioni), sia essa
indiretta (in relazione all'amianto disperso nell'ambiente di lavoro),
configura sempre e comunque uno specifico rischio morbigeno di natura
professionale: allo stato delle conoscenze scientifiche, dinanzi ad una
comprovata e prolungata esposizione ad amianto, il giudice non potrà non
riconoscere sempre e comunque, sul piano oggettivo del nesso causale,
l'idoneità di quella medesima esposizione a cagionare (ovvero, tutt'al più,
concorrere a cagionare, il che è lo stesso, ex art. 41 c.p.) la malattia
asbesto correlata: ciò è talmente vero, che oggi, in forza della
tabellazione delle tipiche malattie da amianto, la prova della causalità,
ossia della derivazione della malattia dalla lavorazione, è presunta dalla
legge; sicché in nessun caso si può parlare di rischio generico rispetto ad
un'esposizione ad amianto effettuata sul lavoro per oltre dieci anni. I
lavoratori esposti all'amianto sono quindi secondo l'art. 13, comma 8, come
interpretato dalla Corte cost., quelli che per essere stati esposti alla
sostanza per più di dieci anni, hanno corso il rischio di contrarre le
malattie da amianto «quali esse siano»: questo, niente altro, è il rischio
morbigeno secondo il sistema di assicurazione gestito dall'INAIL, ritenuto
dalla Corte elemento della fattispecie legale attributiva del beneficio
previdenziale in discorso. Solo
attraverso l'interpretazione qui accolta la norma si salda quindi con il
sistema di assicurazione obbligatoria per la tutela delle malattie
professionali ed assegna un significato coerente al volere del legislatore
(peraltro nello stesso senso si erano già
espressi INPS ed INAIL dopo l'emanazione della norma, nelle circolari
depositate in atti, sottolineando che questa era stata la volontà del
legislatore). 2.3
- Fatta questa premessa, appare comunque opportuno mettere in chiaro, onde
evitare la sedimentazione di ulteriori distorsioni interpretativi, che la
sentenza della Corte costituzionale nel delineare il significato
costituzionalmente corretto della nonna ha espressamente disatteso differenti
soluzioni ermeneutiche le quali risultano, ad avviso di questo giudice,
palesemente viziate, in quanto dirette a forzare la legge sul piano letterale,
logico e sistematico:
a.
Non
si potrà più sostenere anzitutto (conta la stessa lettera della legge) che
la legge sia rivolta a benefìciare solo lavoratori occupati in imprese che
corrispondevano il premio per asbestosi ovvero avessero l'obbligo di farlo,
secondo l'errata tesi fatta propria da alcuni Pretori, dimentichi che
l'assicurazione obbligatoria copre, e copriva, attraverso il normale premio,
qualsiasi malattia anche diversa dall'asbesto di cui si fosse data la prova
della derivazione professionale amianto.
b.
Nemmeno
si potrà affermare (conta il tenore letterale della legge e le modifiche
esplicitamente introdotte allo scopo dal legislatore) che il beneficio in
discorso è riservato a «chi ha perso il posto» «nel settore amianto»
(come frettolosamente e con una svista clamorosa è stato sostenuto in alcune
sentenze della Cassazione, peraltro dedicate alla diversa questione dei
pensionati; sul punto cfr. sentenza Pretura Ravenna 139/99). A questo proposito la Corte costituzionale ricorda (da pag. 5 a pag. 6 della sentenza) che in sede di conversione del D.L. n. 169/1993, la L. 4 agosto 1993, n. 271 ha soppresso la locuzione «dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima o sottoposti a procedure fallimentari o fallite o dismesse; così intendendo soddisfare - secondo quanto ancora si evince dai lavori preparatori - l'esigenza di attribuire centralità ai fini dell'applicazione del beneficio previdenziale, all'assoggettamento dei lavoratori all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'amianto, escludendo, al tempo stesso, ogni selezione che potesse derivare dal riferimento alla tipologia dell'attività produttiva del datore di lavoro». c. Non si potrà più sostenere che il dato temporale di oltre 10 anni sia indeterminabile o incongruo o arbitrario; al contrario esso è «criterio che nella essenziale centralità che ad esso ha voluto conferire il legislatore, secondo quanto è dato evincere dagli stessi atti parlamentari, costituisce un dato di riferimento tutt'altro che indeterminabile, specie se si considera il suo collegamento contemplato dallo stesso art, 13, comma 8, al sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'amianto gestito dall'INAIL».
d. Non sarà più
possibile sostenere, con qualche speranza di fondamento, che il fine della
norma fosse quello di «favorire l'esodo» di taluni o di «eliminare il
rischio» di altri lavoratori (come potrebbe eliminare il rischio una norma
previdenziale che richiede per la sua applicazione un periodo di esposizione
all'amianto comunque superiore a dieci anni?); la Corte ricorda che lo scopo
è affatto diverso: «lo scopo secondo quanto si evince dalla accennata
ricostruzione della relativa vicenda normativa, va rinvenuto nella duplice
finalità di offrire, ai lavoratori esposti all'amianto per un apprezzabile
periodo di tempo (almeno 10 anni), un beneficio volto a considerare la
presumibile incidenza invalidante della adibizione a lavorazioni che, in
qualche modo, presentano potenzialità nocive». Sulla
ratio della disposizione In
particolare la funzione compensativa risarcitoria accolta dalla norma, e messa
in risalto dalla Corte cost. (altro che perdita del posto o allontanamento dal
rischio), investe con coerenza tutta la problematica medico-legale
dell'amianto, sia in considerazione della sua particolare azione nociva sia in
considerazione delle vicende normative che hanno contrassegnato l'introduzione
della disciplina di cui si tratta. Emblematica
sotto questo primo aspetto è anzitutto la condanna subita dallo Stato
Italiano dalla Corte di Giustizia della CEE con sentenza 13 agosto 1990 per la
mancata attuazione della direttiva CEE sull'amianto (n. 477/1983). Occorre
poi considerare che il beneficio di cui si tratta è significativamente
accordato dalla norma per tutto l'arco dell'esposizione nociva in concreto
subita da ogni singolo lavoratore («l'intero periodo»): non si tratta di una
rivalutazione delimitata ad un tot di contributi, delimitata ad un singolo
periodo funzionale all'utile conseguimento della pensione, come avviene ad es.
in altri casi (ad es. nello stesso art. 13 per i lavoratori presi in
considerazione dal primo comma); quindi, a maggiore periodo di esposizione
corrisponde secondo la norma maggiore beneficio contributivo, per ogni singolo
lavoratore. Sotto
l'altro aspetto è dato statisticamente accertato che il rischio di morte per
malattie correlate all'amianto (mesotelioma e cancro polmonare) è nei
soggetti professionalmente esposti migliaia di volta maggiore di quello della
popolazione generale (v. comm. a Cass. 11 maggio 1998, in Foro
it., 1999,II, 241); tale rischio è poi decine di migliaia di volte
superiore rispetto a quello c.d. naturale o spontaneo, indipendentemente
dall'amianto. Si
può dire in altri termini, che la speranza di vita attesa nella categoria dei
soggetti professionalmente esposti è molto inferiore a quella della
popolazione in generale: nella popolazione dei lavoratori esposti «la vita»
è diminuita in termini assoluti; «è giusto» pertanto che, per quanto è
possibile, essa venga accorciata, sia nel periodo del lavoro sia nel periodo
di pensione, attraverso il riconoscimento di un beneficio contributivo a tutti
coloro che corrono un rischio di questa portata a causa del lavoro. Va
inoltre considerata la specifica azione nociva dell'amianto: il lungo periodo
di latenza delle malattie, la rilevante nocività della dose cumulativa.
Da questo punto di vista è notorio che le patologie in discorso
possono rimanere silenti e latenti rispetto all'esposizione anche per 20/30
anni; per cui un lavoratore può sviluppare la malattia (e morire) senza alcun
preavviso (si fa una lastra o una TAC quest'anno e vede che la pleura è in
buono stato e l'anno dopo può sviluppare un mesotelioma); è giusto pertanto
riconoscere un beneficio al lavoratore il quale ha contratto un rischio di cui
non si sa quando sopravverranno gli effetti patologici; i quali potrebbero
giungere anche quando le aspettative di vita fossero diminuite di molto, sicché
egli si vedrebbe accordato solo, in base al settimo comma della stessa
disposizione, un beneficio privo di conseguenze apprezzabili, se non del tutto
inesistenti nell'ipotesi probabile di un loro rapido esito letale. Inoltre
l’amianto è dal punto di vista della dose nociva un cancerogeno ad effetti
perversi:
a.
non
ha limiti di esposizione che possano essere ritenuti innocui per la salute dei
cittadini; tanto è scritto a chiare lettere nelle risoluzioni
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ed è testualmente affermato nella
direttiva CEE 83/477; il rischio è rappresentato dall'esposizione in sé
anche a basse dosi, come si evince pure dal D.Lgs. n. 277/91. Sulla rilevanza
di tale tipo di rischio nel nostro paese si vedano le conclusioni della
Commissione permanente del Senato nel documento approvato il 22 luglio 1997:
«sebbene l'impiego dell'amianto avrebbe determinato secondo una stima
approssimativa circa 4000 casi di tumore di origine professionale all'anno, i
riconoscimenti dei tumori all'apparato respiratorio come malattia
professionale sono soltanto una decina ogni anno».
b.
Il
rischio aumenta con l'aumento del periodo di esposizione (dose cumulativa); in
sostanza una volta inalato, l'amianto rimane in
situ (nei polmoni, nella pleura, ecc.) ed almeno in buona parte non va più
via; quindi se anche la dose di esposizione potrebbe sembrare piccola occorre
moltiplicarla per tutto il periodo di esposizione (il che non vale per gli
altri cancerogeni). Pertanto - se
la dose di un cancerogeno è uguale a concentrazione moltiplicato tempo di
permanenza - la dose di esposizione ad amianto, anche a dosi piccole, va
considerata dose alta, proprio perché l'amianto sta nell'organismo per tempi
lunghissimi ed ha modo di esercitare la sua azione nociva per tempi
lunghissimi. Il che coincide esattamente con le premesse dell'articolato della Direttiva CEE 83/477 dove non a caso si dice «riducendo il tempo di esposizione a amianto, diminuirà il rischio di malattie ad esso connesse». Concetti
espressi anche nei lavori parlamentari sul beneficio che si commenta: «la
latenza per decenni della malattia ad esito letale che ne può derivare (mesotelioma
pleurico) giustifica il beneficio» (on.
D. Benedetti Valentini). Le stesse considerazioni non sono estranee alla sentenza della Corte costituzionale quando ha parlato di beneficio volto a considerare «la presumibile incidenza invalidante della adibizione a lavorazioni che in qualche modo presentano potenzialità nocive». La
ratio risarcitoria
del beneficio risalterà in maniera ancora più chiara se si considera poi che
la legge n. 257 - nel momento in cui vieta ulteriormente l'uso dell'amianto -
concede il beneficio previdenziale in discorso riferendosi ai lavoratori
esposti all'amianto nel passato («siano stati esposti»); la norma non
subordina il riconoscimento del beneficio all'attualità dell'esposizione;
sicché esso ad avviso di questo giudice deve essere riconosciuto ai «lavoratori»
disoccupati, non meno che ai «lavoratori» pensionati, all'atto dell'entrata
in vigore della legge, che fossero stati esposti ad amianto prima dell'entrata
in vigore della legge; anche le sentenze della Cassazione sui pensionati
esposti, qui criticate, riconoscono che il beneficio vada riconosciuto a chi
ha cambiato settore prima della legge, con una evidente contraddizione dal
momento che nel contempo e nelle stesse sentenze si afferma che la tutela si
applichi solo al lavoratore del «settore amianto» che «ha perso il posto»
all'atto della cessazione dell'utilizzo dell'amianto introdotto con la stessa
legge. Soprattutto
il carattere riparatorio della disposizione deriva dal fatto che con essa si
faccia riferimento, essenzialmente, ad un'esposizione consumata prima che con
la L. n. 257/92 ed il D.Lgs. n. 277/91 mutasse il quadro normativo e si
favorisse la crescita di una nuova sensibilità verso la prevenzione della
nocività dell'amianto; ad un'esposizione che si è consumata quindi in
periodi in cui (come dimostrato efficacemente da questa causa) si impastava e
si demoliva amianto con le mani senza adottare nessuna protezione (... altro
che tecniche «glove bag» previste
dal D.M. 6 settembre 1995); in periodi in cui le aziende (come l'Enichem,
leader in Italia per il settore della chimica) colpevolmente ignoravano la
potenzialità nociva della sostanza ovvero colpevolmente non fornivano misure
adeguate di protezione; in periodi in cui le aziende non effettuavano alcun
monitoraggio ambientale (non ve n'è alcuno all'Enichem prima del '92)
nonostante le conoscenze della pericolosità dell'amianto erano diffuse già
agli inizi del secolo scorso (1900), mentre l'assicurazione per l'asbestosi
era stata resa obbligatoria già nel 1943 con la L. n. 455; in periodi in cui,
nonostante gli obblighi comunitari, lo stesso legislatore tardava ad
introdurre specifiche misure contro le polveri d'amianto, introdotte solo nel
‘91 in attuazione di direttiva CEE del 1982 e del 1983, e dopo aver subito
una condanna nel 1990. E’ inutile evidenziare che se le aziende avessero
adottato adeguate misure di prevenzione tecnica, personale, sanitaria,
informativa - rispettando gli obblighi autonomamente imposti fin dagli artt.
21 D.P.R. n. 303/56 e dall'art. 2087 c.c. (sulla responsabilità penale del
datore per omicidio colposo per la violazione di tali norme da ultimo Cass. 11
maggio 1998, Calamandrei) - si sarebbe prodotto un rischio di morte più
basso; se il legislatore avesse attuato più prontamente la direttiva CEE si
sarebbe diffusa più rapidamente una maggiore sensibilità al problema della
prevenzione; si sarebbero così create le condizioni storiche necessarie per
evitare, con alto grado di probabilità, che l'amianto potesse incidere in
maniera così drammatica sulle aspettative di vita di molti lavoratori. Si
sarebbe, forse, evitato la morte di diversi lavoratori Enichem (dallo stesso
INAIL conosciuti con nome e cognome; v. avanti) e di Serantoni A. collega di
lavoro dei ricorrenti, morto per mesotelioma il 12 aprile 1994. (Proprio
tale evento dovrebbe troncare in questa causa qualsiasi ulteriore discussione
sul rischio specifico affrontato sul lavoro dai ricorrenti e sulla idoneità a
cagionare l'insorgenza di patologie da asbesto). Tutte
quelle fin qui espresse, rappresentano quindi buone ragioni per riconoscere
che i lavoratori esposti all'amianto per più di dieci anni, come i
ricorrenti, possano meritare una compensazione o un risarcimento di natura
previdenziale. A
proposito di limiti massimi e minimi: il D.Lgs. n. 277/1991 Il
nostro ordinamento tradizionalmente non accoglie la filosofia dei valori
limite (c.d. TLV), ovvero di soglie che demarcano con rigidità il passaggio
dell'innocuo al nocivo. Una tale
filosofia entra in contrasto con uno dei principi fondamentali della nostra
legislazione in tema di sicurezza ed igiene del lavoro, ovvero la cosiddetta
massima protezione tecnologicamente fattibile (cfr. Corte cost. n. 312/96). L'obbligo
del datore di lavoro di eliminare o ridurre al livello minimo possibile
consentito dalla scienza specialistica l'esposizione a rischio deriva dalla
volontà di assicurare una protezione dell'incolumità personale a tutti i
lavoratori, data l'esistenza di fasce di soggetti ipersensibili comunque
danneggiati da esposizioni a livelli normalmente ritenuti nella norma e le
controversie esistenti a livello scientifico su quali siano i livelli di
esposizione che comportano danni alla persona. Tutta
la giurisprudenza, senza eccezioni, ha messo in evidenza che le soglie
indicate nel D.Lgs. n. 277/91 non possono essere definiti come «valori limite»
perché non hanno la funzione specifica propria di demarcare in modo rigido la
linea di discrimine tra l'innocuo ed il nocivo, bensì quello di indicare
semplicemente alcune soglie di allarme, a partire dalle quali,
indipendentemente dall'adozione di tutte le normali misure tecniche ed
organizzative prescritte per abbattere il rischio quanto più possibile, deve
attivarsi un complesso ed adeguato sistema di informazione e controllo allo
scopo di intervenire sull'altro versante della prevenzione riguardante la
riduzione dei tempi di esposizione dei lavoratori alle fonti nocive. In
particolare e significativamente per l'amianto, a differenza che per il piombo
(in cui è sempre previsto un limite), il D.Lgs. n. 277 stabilisce che il
datore di lavoro deve sempre ed in ogni caso, quale che sia la concentrazione,
provvedere ad attuare un imponente complesso di misure di sicurezza. I)
Per tutte le attività che espongono ad amianto, sono previsti i
seguenti obblighi a carico del datore di lavoro
(art. 24, 1 e art. 26): -
- Obbligo di consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti
prima di effettuare la valutazione e di informazione sui risultati. -
- Obbligo di adottare le misure tecniche, organizzative e procedurali
per assicurare un'efficace pulizia e manutenzione dei locali di lavoro, per
ridurre la quantità di amianto impiegata, e per ridurre il numero di
lavoratori esposti, per evitare o ridurre al minimo le polveri.
-
- Obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori adeguati indumenti
di lavoro e mezzi di protezione per le vie respiratorie.
-
- Obbligo che l'amianto e che i suoi residui e scarti siano conservati
in imballaggi chiusi.
-
- Obbligo di pulire regolarmente locali e attrezzature e di predisporre
aree speciali per consumare pasti, bevande e sostarvi.
-
- Obbligo di informazione ai lavoratori e ai loro rappresentanti sui
rischi per la salute, sulle norme igieniche, sulle modalità di pulitura e di
uso degli indumenti e dei mezzi di protezione, sulle misure di precauzione
adottate con periodicità triennale.
-
- Obbligo di adottare misure preventive e protettive per singoli
lavoratori sulla base delle risultanze degli esami clinici. II)
In caso di impiego di amianto come materia prima, a prescindere da
qualsivoglia concentrazione, si prevede (art. 25): - Obbligo di notifica all'organo di vigilanza specificando attività, quantità di amianto utilizzate, numero di lavoratori addetti e misure di protezione.
- Obbligo di controllo periodico dell'esposizione dei lavoratori alla
polvere di amianto nell'aria.
- Obbligo di informazione ai lavoratori o ai loro rappresentanti sui
risultati delle lavorazioni effettuate. III)
In caso di esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto superiore
a 0, 1 fibre per cm cubo oppure Esposizione dei lavoratori ad amianto crisolito in attività di carattere saltuario superiore a 0,5 fibre per cm cubo (art. 24, 3 e 4) è stabilito: - - Obbligo di notifica all'organo di vigilanza specificando attività, quantità di amianto utilizzate, numero dei lavoratori addetti e misure di protezione. - - Obbligo di informazione ai lavoratori e ai loro rappresentanti con periodicità annuale. - - Obbligo di delimitare e contrassegnare i luoghi di lavoro, di farvi accedere solo i lavoratori addetti e di fornirli di mezzi individuali di protezione. - - Obbligo di predisporre servizi igienici adeguati, di assicurare la custodia ed il lavaggio separato degli indumenti di lavoro, nonché custodire, controllare e pulire i mezzi individuali di protezione dopo ogni utilizzazione.
- Obbligo di controllo periodico dell'esposizione dei lavoratori alla polvere
di amianto nell'aria trimestrali.
- Obbligo di informazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti sui
risultati delle misurazioni effettuate.
- Obbligo di registrazione dell'esposizione dei lavoratori. IV)
Esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto superiore a 0,2
fibre per centimetro cubo oppure Esposizione
dei lavoratori ad amianto crisolito superiore a 0,6 fibre per centimetro cubo
(modificato dall'art. 3 L. n. 257/92) il datore deve provvedere a (art. 31):
-
- Obbligo di rimuovere le cause del superamento.
-
- Obbligo di interrompere i lavori salvo l'adozione di misure per la
protezione dei lavoratori e dell'ambiente.
-
- Obbligo di procedere a nuove misurazioni della concentrazione delle
fibre d'amianto nell'aria. - - Obbligo di informare l'organo di vigilanza delle misurazioni effettuate e delle misure adottate.
-
- Obbligo di informazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti del
superamento e loro consultazione sulle misure da adottare.
V)
In
caso di incremento rilevante dell'esposizione ad amianto (emergenze) art. 32:
- Obbligo di abbandonare immediatamente la zona interessata.
- Obbligo di informare l'organo di vigilanza. VI)
Lavori di demolizione, di rimozione e operazioni particolari art. 34:
-
- Obbligo di predisporre un piano di lavoro e di trasmetterlo
all'organo di vigilanza.
-
- Obbligo (solo per i lavori di rimozione e demolizione) di adempiere
alle prescrizioni specifiche emesse dall'organo di vigilanza. Quale
limite di esposizione per il beneficio di cui all'art. 13, comma 8 della L. n.
257/92? Deve
essere ora osservato che l'Inail (v. circolare in atti) - ignorando la
filosofia del sistema di prevenzione delineata dal D.Lgs. 277/91, appena
riassunta - ritiene che, salvo alcune particolari attività, per tutte le
altre attività (ma non è nemmeno questo il caso dei ricorrenti) l'ammissione
al beneficio sarebbe subordinata alla prova di un'esposizione superiore a 0,1
fibre per cm3 (ovvero 100 fibre litro), secondo un criterio desunto dall'art.
24, comma 3, D.Lgs. n. 277/91. Deve
essere subito rilevato che tale tesi, oltre a non avere alcun serio valore
scientifico, non ha nessun fondamento normativo, siccome né l'art. 13, comma
8, né alcuna altra norma della stessa o di altra legge prevedono una simile
condizione per il riconoscimento del beneficio in discorso; nessun interprete
che si sia pronunciato sull'argomento ha mai sostenuto una cosa così abnorme. Soprattutto
occorre mettere in chiara evidenza come in nessun modo e da nessuna parte tale
concetto stia nella sentenza della Corte costituzionale, (e cioè che
l'esposizione regolata dall'art. 13, comma 8, debba essere soggetta ad un
limite predeterminato e comunque superiore al limite di 0, 1 fibre per cm3 o
100 fibre litro di cui all'art 24 D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e succ. mod.):
la Corte ha infatti collegato l'interpretazione della norma al concetto di
rischio morbigeno, peraltro emergente dal riferimento al sistema di
assicurazione contenuto nella stessa disposizione; non ha rinviato al concetto
di limiti o standards di esposizione. A tale proposito non va dimenticato che la mancanza di parametri espositivi nella norma non rappresenta certo una svista o una dimenticanza del legislatore; essa va considerata invece una scelta politica consapevole: coerente con l'azione nociva della sostanza (l'amianto nuoce a prescindere da limiti di soglia); in linea con i dettami dell'ordinamento (il D.Lgs. n. 277 tutela ai fini preventivi qualsiasi esposizione ad amianto). L’aggiunta di rigidi parametri espositivi significherebbe quindi cambiare la norma nel merito, dettare una norma diversa nella sostanza; e tale risultato non poteva essere ottenuto nemmeno attraverso un giudizio di costituzionalità - secondo la via erroneamente praticata dai giudici rimettenti - che fosse inteso ad imporre una scelta di merito diversa da quella che è stata posta alla base della legge; concetto questo che la stessa Corte costituzionale non ha mancato di sottolineare proprio nella sentenza in oggetto (... non è «consentito al controllo di costituzionalità di travalicare in apprezzamenti che sconfinino nel merito delle opzioni legislative» ... ). Del
resto è pure noto che la norma in questione risulta oggetto di tentativi di
modifiche in sede parlamentare proprio al fine di introdurre limitazioni nella
platea dei potenziali destinatari del beneficio, attraverso un disegno di
legge (n. 2553/97) che, mentre affida al Ministro del lavoro l'individuazione
dei lavoratori beneficiari, riconosce che il significato della disposizione
attualmente tuttora in vigore è quello che si è fin qui descritto. Nella
sentenza della Corte costituzionale, peraltro, si fa riferimento al «decreto
legislativo 15 agosto 1991, n. 277 e successive modifiche» (e non ad una
singola norma; tantomeno, ad una soglia determinata) attraverso una
proposizione che, nel percorso della motivazione, mira semplicemente a
rafforzare la considerazione espressa in sentenza sulle potenzialità nocive
dell'amianto nell'ambiente di lavoro: «... sulle patologie quali esse siano
che l'amianto è capace di generare
per la sua presenza nell'ambiente di lavoro; evenienza, questa tanto
pregiudizievole da indurre il legislatore, sia pure a fini di prevenzione, a
fissare il valore massimo di concentrazione di amianto nell'ambiente
lavorativo, che segna la soglia limite del rischio di esposizione».
a.
Nella
sentenza non sta scritto (perché sarebbe in contrasto con se stessa, con
tutti i criteri normativi vigenti e con tutte le conoscenze scientifiche) che
al di sotto di quel «valore massimo» di quella «soglia limite» non vi sia
rischio morbigeno da esposizione per cui non possa essere accordato il diritto
al beneficio ai lavoratori così esposti.
b.
Soprattutto
sta scritto il contrario: si tratta di una soglia limite, di un valore massimo
che non deve essere superato. In
questo senso il legame con il sistema di prevenzione accolto dal D.Lgs. n. 277
appare logico, il richiamo perspicuo; la Corte costituzionale ha ribadito la
esattezza di una tesi che è oramai solidificata in tutta la giurisprudenza
che si è occupata di amianto e del D.Lgs. n. 277; ossia che per l'amianto non
esiste limite tra ciò che è nocivo e ciò che è innocuo; che il limite
previsto non segna un discrimine (è infatti un limite massimo al disotto del
quale rimane comunque la nocività e tutti gli altri imponenti obblighi
prevenzionali imposti espressamente al datore).
c.
Inoltre
proprio per evitare equivoci, interessate strumentalizzazioni e chiarire
definitivamente il proprio pensiero, la Corte ha testualmente evidenziato che
quel valore massimo è stato fissato dal legislatore «a fini preventivi» non
«a fini previdenziali» (non ai fini dell'applicazione «della fattispecie
legale attributiva di un beneficio previdenziale», come viene definito l'art.
13, comma 8 nella stessa sentenza). Del
resto sul punto già il giudice remittente (Tribunale di Ravenna in sede di
appello v. ordinanza in atti) aveva affermato che «tale soglia è stato
individuata dal legislatore del 91 in funzione preventiva e nulla induce a
ritenere che quanto previsto in sede di politica preventiva debba valere in
sede di politica risarcitoria; quello utilizzato da INPS ed Inail è un
parametro legale, ma non per questo è anche sistematico posto che mette
insieme dati destinati a servire scopi diversi». Pertanto,
solo attraverso una superficiale lettura delle norme o attraverso il
deliberato tentativo di non applicare la legge alterandone e confondendone il
contenuto, si può arrivare ad affermare che il riconoscimento del beneficio
previdenziale di cui si tratta sia stato subordinato dalla legge (o dalla
Corte cost.) ad una esposizione predeterminata (e tantomeno della soglia di
0,1 f/cm3 prevista dall'art. 24 D.Lgs. n. 277, il cui superamento determina
solo un aggravamento delle misure di protezione). Soprattutto
riferire una simile tesi alla Corte costituzionale condurrebbe al crollo
logico e giuridico della chiara pronuncia emessa sull'argomento.
Assumendo come elemento determinante del riconoscimento del beneficio
previdenziale la soglia predeterminata superiore a 100 fibre litro, come
pretende l'INAIL, cede tutto l'impianto della sentenza della Corte; il rinvio
al criterio del rischio morbigeno ed al sistema di assicurazione sociale non
c'entra più nulla (ed il criterio della durata non assume la «essenziale
centralità» che la sentenza gli riconosce). Va
ancora evidenziato che una tesi tanto assurda non potrebbe essere valorizzata
neppure dal fatto che la stessa L. n. 257/92, nel prevedere la cessazione
dell'impiego dell'amianto, abbia previsto all'art. 3 (pure richiamato nella
sentenza dalla Corte costituzionale nella ricostruzione del contenuto della L.
n. 257) che «la concentrazione di fibre
di amianto respirabile nei luoghi di lavoro ove si utilizza, si trasforma, si
smaltisce, si bonifica amianto ... non può superare i valori limite di cui
all'art. 31 D.Lgs. n. 277/91, come modificato dalla presente legge». Premesso che, per la verità, una simile tesi non sembra essere sostenuta da alcuno dentro e fuori da questo giudizio, deve rilevarsi comunque che l'art. 31 cit. stabilisce le misure di emergenza in caso di superamento del limite di 0,2 (ossia 200 fibre litro) per tutte le varietà di amianto oppure di 0,6 per il solo crisolito. Il
richiamo all'art. 31, nel contesto della L. n. 257/92, è riferito a
particolari categorie di lavorazioni (utilizzo, trasformazione, smaltimento e
bonifica) in corso - successivamente alla legge e nonostante il divieto del
suo utilizzo disposto con la medesima legge - per il periodo transitorio
stabilito dall'art. 1, comma 2; lavorazioni potenzialmente idonee ad esporre i
lavoratori a dosi di amianto assai elevate; il limite è stato dunque
richiamato dal legislatore nella L. n. 257 per abbassare, autonomamente, la
soglia di esposizione fissata dall'art. 31 («non può superare i valori
limite fissati dall'art. 31 »); tale norma non c'entra nulla con le
condizioni cui è subordinato il riconoscimento del beneficio contributivo
previsto dal successivo art. 13, comma 8, a tutti i lavoratori che sono stati
esposti nel passato all'amianto! Ma
in ogni caso, se si volesse istituire un (insussistente ed incongruo)
collegamento tra le due fattispecie e tra le due disposizioni, deve
riconoscersi che il risultato che ne consegue porterebbe sostegno alla tesi
esattamente contraria a quella qui disattesa: rileverebbe infatti ai fini del
beneficio l'esposizione non superiore a 200 f/l; quindi tutte le
concentrazioni che non superano quel valore.
L’illogicità di un simile modo di argomentare condurrebbe a non
riconoscere il beneficio a chi è stato esposto nel passato a limiti superiori
ed a riconoscerlo a chi è stato esposto a limiti inferiori; infatti mentre
l'art. 3 L. n. 257 stabilisce la concentrazione di fibre che non deve essere
superata in caso di determinate lavorazioni; l'art. 31 D.Lgs. n. 277/91
(intitolato «superamento dei lavori limite di esposizione») regola una
fattispecie opposta e stabilisce quali misure devono essere adottate in caso
di superamento dei valori limite di 200 fibre (prescrivendo che il datore
identifichi e rimuova la causa dell'evento; che il lavoro possa proseguire
solo se vengono adottate e se possono essere adottate tutte le misure di
prevenzione per riportare il livello ad un livello più basso). In
ogni caso non si capisce come potrebbe collegarsi l'esposizione ultradecennale
richiesta come presupposto del beneficio contributivo con i valori limite di
esposizione dell'art. 24 o dell'art. 31 che sono di vario tipo: a) in funzione
del tempo, su un periodo di riferimento di otto ore ovvero di 15 minuti per
lavorazioni suscettibili di provocare sensibili variazioni di concentrazioni;
b) in funzione del tipo di amianto, a seconda che si tratti di crisolito
ovvero di altre varietà di amianto, sia isolata sia in miscela. Ciascuno
di tali limiti è assai nocivo; essi sono stati indicati per obbligare il
datore di lavoro a rientrare nel più breve tempo possibile in limiti più
bassi, trattandosi di valori molto alti mediati in funzione di un periodo
massimo di otto ore o di 15 minuti: come è possibile richiedere che un
lavoratore per meritare un beneficio previdenziale debba dimostrare di essere
stato sottoposto a tali esorbitanti limiti per tutto il periodo di lavoro per
oltre 10 anni di lavoro? Quale
sarebbe il motivo per cui l'esposizione a 90, 50 o 30 fibre/libro dovrebbe
essere ritenuta irrilevante? Se
vigente il sistema di sicurezza previsto dal D.Lgs. n. 277/91 viene ritenuta
nociva qualsiasi esposizione; cosa si può dire dell'esposizione subita dai
lavoratori prima di tale sistema di protezione e per un periodo superiore a 10
anni? In
particolare il superamento del parametro posto dall'art. 31 serve per far
scattare obblighi specifici di attivarsi per circoscrivere nel tempo
l'esposizione maggiormente nociva (obbligo di rimuovere le cause di
superamento) nell'ambito di un complesso sistema di protezione del lavoratore
delineato con il D.Lgs. n. 277 in adempimento (tardivo) di obblighi
comunitari: come si può arrivare a sostenere che il superamento di tale
limite sia stato assunto ad elemento costitutivo per l'attribuzione di un
beneficio previdenziale ai lavoratori? Deve
essere inoltre osservato che nel decreto ministeriale 6 settembre 1995 emesso
in esecuzione della L. n. 257/92 è prevista una soglia di allarme nel
cantiere (durante interventi di bonifica) a 50 ff/ litro aerodisperse (la metà
di quelle ritenute dall'INAIL nella circolare) da cui consegue la messa in
atto di una serie di procedure tra cui: -
sigillatura di eventuali montacarichi (divieto di entrata e di uscita); -
sospensione delle attività in cantiere; raccolta di tutto il materiale
rimosso; -
ispezione delle barriere di confinamento; -
comunicazione immediata all'USL; -
nebulizzazione zona esterna ecc. Non
si capisce con quale coerenza un ordinamento possa accordare un beneficio
previdenziale a chi è stato esposto a più di 100 fibre litro (0,1 cm3) e nel
contempo prevedere che occorre sospendere le attività a 50 fibre litro. Anche
tale richiamo, conferma quindi che non possono esservi facili trasposizioni di
valori da un sistema all'altro, da una legge all'altra, senza tener conto del
fine perseguito dalla norma attraverso cui quel valore è stato posto. Rischio
generico e rischio specifico Deve
essere ora evidenziata l'infondatezza di una obiezione che viene formulata
alla tesi qui accolta. Si
sostiene che così facendo, attribuendo rilevanza alla durata dell'esposizione
senza considerare in nessuno modo il livello della dose si finirebbe per
attribuire rilievo alla presenza di amianto nell'ambiente di lavoro, anche
senza effettiva e reale esposizione ovvero ad attribuire rilevanza ad un
rischio che potrebbe essere parificabile a quello generico, siccome l'uso su
larga scala dell'amianto, la sua diffusione ubiquitaria, ha determinato anche
l'insorgenza di un rischio di natura non professionale, cui sono esposti tutti
i cittadini. E
palese l'inconsistenza dell'obiezione, ad avviso di questo giudice: per aver
diritto al beneficio non basta la semplice presenza di amianto nell'ambiente
di lavoro; occorre provare l'esposizione: occorre cioè provare che l'amianto
presente nell'ambiente non fosse segretato, non fosse in buono stato di
manutenzione oppure che venisse manipolato ed utilizzato come materia prima
oppure che se ne facesse comunque un impiego senza misure di sicurezza; in
modo che si possa parlare di esposizione a fibre aereo disperse soggette ad
essere inalate da parte del lavoratore e quindi di rischio morbigeno di natura
professionale. Il
concetto di esposizione rilevante è pure spiegato nel D.M. 6 settembre 1995,
emanato sulla base della L. n. 257/92, il quale precisa quando deve intendersi
raggiunta un'esposizione in un edificio e quando non deve dirsi raggiunta. «La
presenza di materiali contenenti amianto in un edificio non comporta di per sé
un pericolo per la salute degli occupanti. Se
il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente
improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di
amianto. Se
invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per
vandalismo, si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio
potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni o se è altamente friabile ... ». Ma
non basta: non è sufficiente ai fini della legge nemmeno la presenza di
materiali danneggiati, usurati, in cattivo stato di conservazione, ecc. perché
i lavoratori possano ottenere il beneficio in relazione ad una fattispecie di
esposizione ambientale; occorre molto di più; è necessario che questo stato
di fatto sia perdurato per più di dieci anni; in
modo tale da integrare il rischio (ed il pericolo) richiesto dalla legge. Se
questo è accaduto, ed è provato, non v'è motivo per negare il
riconoscimento anche in casi del genere (presumibilmente rari, perché non è
pensabile che un datore di lavoro mantenesse manufatti in tale stato per più
di dieci anni determinando un rischio di così elevata portata in violazione
di plurime disposizioni di legge). Sennonché
i casi che vengono in rilievo in questa sentenza non possono essere
considerati di semplice presenza di amianto nell'ambiente di lavoro, bensì di
utilizzo di materiali in amianto direttamente dai lavoratori con evidente
rilascio di fibre perché essi venivano tagliati, sagomati, adattati,
manipolati, perforati, spazzolati, direttamente dai lavoratori. Per
ciò che attiene al livello quantitativo di fibre, una volta che ne sia stata
accertata la dispersione nello stesso ambiente di lavoro inquinato in cui il
lavoratore è stato costretto a lavorare per oltre 10 anni, questo fatto, come
si è già detto, non può essere definito rischio generico in quanto deve
ritenersi, ad avviso di questo giudice, sempre ed in ogni caso un rischio
specifico siccome determinato dall'attività lavorativa; ed in quanto tale
rientrante nella tutela assicurativa (proprio perché per l'amianto non
esistono certezze sul livello di fibre nocive e perché risulta inoltre
rilevante il criterio della dose cumulativa). In
altri termini il legislatore ha individuato nella lunga durata
dell'esposizione il criterio selettivo ben sapendo che anche le basse
concentrazioni espongono a rischio; il legislatore ha ritenuto che il
raggiungimento di una soglia temporale così lunga dal punto di vista
temporale costituisse una valida giustificazione per la concessione del
beneficio perché coerente con la natura del rischio tutelato il quale
prescinde da soglie di esposizione. La
determinazione di una soglia, oltre che in contrasto con tutti gli studi
scientifici, in materia sarebbe stata ingiustificato anche sotto diverso
profilo, dal momento che avrebbe richiesto un accertamento dell'esposizione in
relazione ad un valore limite predeterminato e costante, protratto nel tempo
per più di dieci anni, per di più rispetto al passato, in relazione a
condizioni aziendali sicuramente mutate, ed in mancanza di monitoraggi
ambientali. Come
avrebbero potuto quindi i lavoratori dare la «prova ardua» che all'Enichem
fosse presente un livello di tale genere quando l'azienda contravvenendo ad un
suo preciso prioritario obbligo - di accertare cioè la pericolosità
dell'attività svolta - non effettuava alcun campionamento ambientale,
nonostante la generale e diffusa consapevolezza della nocività dell'amianto
dagli inizi del secolo ed a basse dosi a partire dal 1960 (cfr. sul punto
Cass. 11 maggio 1998); nella direttiva CEE il concetto è stato messo per
iscritto nel 1983, all'Enichem, colosso della chimica italiana, risulta un
primo campionamento nel 1992. Di tale consapevolezza erano lasciati all'oscuro
i lavoratori i quali, fino agli anni recenti, non risulta venissero neanche
informati della pericolosità dei materiali che utilizzavano e dell'ambiente
nel quale lavoravano; in spregio alle più elementari regole di prevenzione
(art. 4 D.P.R. n. 303/56). Peraltro
chi dovesse opinare diversamente (ma non si vede come allo stato delle
conoscenze scientifiche) - ritenendo che una provata esposizione
ultradecennale a fibre aerodisperse non sia sufficiente ad integrare un
rischio specifico - deve fare necessario riferimento al parametro fissato dal
D.M. 6 settembre 1995 il quale prevede la restituibilità di ambienti
bonificati solo se nei locali stessi, è presente una concentrazione media di
fibre aerodisperse non superiore alle 2 ff/litro (contro le 100 o le 200 che
secondo i convenuti sarebbero richiesti dall'art. 13, 8).
Tale concentrazione, data la funzione della specifica disposizione,
potrebbe essere assimilata a quella integrante una esposizione a rischio non
professionale, non specifico del lavoro e pertanto generico, secondo i canoni
utilizzati nell'applicazione del sistema di assicurazione obbligatoria gestito
dall'INAIL. Pertanto
solo la dimostrazione di tale livello di esposizione (non quello di 100, 90,
20 ecc.) potrebbe portare a ritenere che il lavoratore non abbia subito in
concreto sul lavoro un aggravamento di rischio siccome la norma prevede che un
edificio in cui vi sia una simile concentrazione non possa considerarsi
inquinato da amianto; a tale scopo però, ovviamente, la prova dovrà essere
fornita in giudizio dagli istituti convenuti che intendano contrastare il
conseguimento del diritto al beneficio accordato dalla legge a qualsiasi
accertata esposizione di durata superiore a 10 anni, sul presupposto, assunto
dalla legge medesima in via presuntiva e salvo appunto prova contraria, che
essa valga di per sé ad integrare un rischio di natura professionale. Il
Tribunale (omissis).
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