Sempre caro mi fu quest’ermo colle leopardi
Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, /rovinosa, che infiniti
dolori inflisse agli Achei omero
Ritornerà sul mare / la dolcezza dei
venti
a schiuder le acque
chiare / nel verde delle correnti gatto
Imbrogliare le carte, / far perdere la partita.
È il compito
del poeta? / Lo scopo della sua vita? caproni
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri
ond’io nudriva ’l core petrarca
E quinci sian le nostre viste sazie dante
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida montale
E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio
un superstite /
lupo di mare ungaretti
Saper
scrivere, voler scrivere… riguarda solo il talento e la volontà dello scrivere?
Solo la competenza e la consapevolezza? Bastassero solo queste doti (che pure
sono imprescindibili), non sapremmo in realtà cosa o per chi scrivere: non
certo solo per noi stessi o solo di noi stessi. Scriveremmo astrattamente per
un lettore inesistente, per delle pagine progressivamente bianche, comunicando
cose incerte e inafferrabili (parole, segni, emozioni, ricordi, sentimenti).
Si scrive, forse, perché di tanto in tanto si accende un
bisogno, una sofferta ma invitante esigenza di comunicare qualcosa che ha impressionato, come la luce su una
pellicola fotografica, una serie di ombre, di figure, di paesaggi. Si scrive fisicamente
con le parti del proprio corpo che fanno scattare quella necessità (gli occhi,
le mani, lo stomaco, il cuore, il fegato, la mente, la voce) e tutto poi diventa - da fisico e naturale – psichico e
letterario, storico e immaginifico. Da soggettivo e individualistico, lo
scrivere si trasforma in pubblico e generale, plurale e oggettivo, acquistando
una vita autonoma ben oltre la paternità dell’autore, per una lettura continua,
un’interpretazione pressoché infinita che attira sempre nuovi critici e nuove
dimensioni di fruizione.
Per uno scrittore scrivere è come una malattia che si
ripresenta dolente quando dev’essere espressa, oppure come una terapia che
servirà a guarire una sofferenza procurandogli tuttavia ansia e attesa.
“Esiste una ricetta per diventare un buon romanziere?”, chiedeva Jean Stein a William Faulkner su Paris Review nel ’56 e Faulkner
rispondeva:
Un novantanove per cento di talento… un novantanove per cento di
disciplina… un novantanove per cento di lavoro. Uno scrittore non deve mai essere
soddisfatto di ciò che produce… Un artista è un uomo istigato dai propri dèmoni
interiori. Ignora perché essi lo abbiano scelto, e in generale è troppo
occupato per cercarne la ragione. Non si fa scrupoli di rubare, prendere a
prestito, mendicare o rapire a chiunque ciò di cui ha bisogno per realizzare la
propria opera… Lo scrittore non è responsabile
che della propria arte. Se egli è realmente valido, sarà privo di ogni
scrupolo… Ha un sogno. Un sogno che lo angoscia a tal punto che deve
assolutamente sbarazzarsene. Sacrificherà tutto – onore, fierezza, onestà,
sicurezza, felicità – allo scopo di poter scrivere la propria opera. 1
Sulla stessa linea Alberto Moravia dichiarava nel ’59, alla domanda sui romanzieri preferiti: “I romanzieri che preferisco
sono quelli che vuotano il sacco e dicono tutto quello che hanno da dire, fino
in fondo, senza riguardi per il conformismo
dei loro tempi e di quelli
avvenire”.
2
Questa spregiudicatezza dello scrittore – dote naturale o
talento espressivo – dovrebbe consentirgli quella consapevolezza e quella
sensibilità che “sottratte
al personaggio e assunte
dall’autore”
– come sostiene Raffaele
La Capria 3
– ricompongono i livelli di realtà e di partecipazione alla realtà che
uno scrittore guarda, esanima e vive.
1 - MENTRE MORIVO, SE Milano 1987 – Traduzione di Roberto Rossi
2 - L’UOMO COME FINE,
Bompiani, Milano 1964
3 - FALSE PARTENZE, Bompiani, Milano 1974
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