Un articolo sul Guggenheim di Gehry : Una rivoluzione per la città di Bilbao

In fondo alla pagina c'è il link dell'articolo apparso nel dicembre 2000


Queste pagine sono cortesia dello Iauv e del Professor Tentori.
Si ringarzia l'architetto Luigi Pavan per averle rese disponibili in questa versione


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A parlare del Guggenheim di Bilbao non è, questa volta, un critico o un giornalista, ma il vicesindaco e assessore all'urbanistica di Bilbao, è dunque è un testo di estremo interesse anche se ­ a me sembra ­ è ancora troppo breve il tempo dellíesperimento per trarne indicazioni sicure. Ad ogni modo vogliamo sperare anche noi che ­ come dice l'autore dell'articolo ­ la cultura non debba più essere considerata un costo, o una perdita, quanto un investimento economico sul futuro di una comunità.

Dissento solo da una frase del sottotitolo, che definisce Gehry "l'architetto che Modena ha di recente rifiutato". Come facevo rilevare in un articolo precedente, è stato il dispositivo burocratico centralizzato a Roma (ministero della cultura+ sovrintendenza+ commissioni varie) a decidere, per conto del Comune di Modena.

Francesco Tentori

L'articolo è preceduto dal seguente corsivo, siglato f. m., che introduce anche le successive interviste a Aulenti, Gregotti e Botta.

NEI giorni precedenti l'apertura del Museo Guggenheim a Bilbao, una dei tre capoluoghi dei Paesi Baschi (Euskadi nella loro lingua) inevitabili perplessità affioravano fra gli artisti, critici, architetti invitati dal mondo intero. Non era solo per la paura delle bombe ­ esplose o minacciate dall'Eta ­ bensì sul futuro di quel colossale, magnifico, bizzarro fiore (così parve alla prima occhiata) che ­ al calare del secolo e del millennio ­ era spuntato nelle triste periferia di Bilbao, e doveva riproporre il successo del parigino Beaubourg negli Anni'70. Perfino Claes Oldenburg, amico di lunga data dell'autore Frank O. Gehry, non riusciva a celare dubbi sul destino del museo Usa. La sera dell'inaugurazione ­ dopo mirabolanti fuochi d'artificio, cena e balli baschi alla presenza di re Juan Carlos e della Regina Sofia ­ una moltitudine di abitanti (che avevano in parte finanziato il progetto) accorsero ad ammirare l'edificio. La mattina successiva, cominciarono le code che non conoscono fine. Il gioviale Gehry, restìo alle etichette, divenne subito una celebrità. Anche l'uomo della strada sapeva chi era. Sull'onda di tanta gloria, il minuscolo Gehry ­ noto da principio per le sue ville e villette, costruite a forma di pesce sulla West Coast, ora dedito a opere faraoniche ­ è chiamato da ogni dove. L'Italia non ha voluto essere da meno, Modena gli ha commissionato un "lavoretto" per la Porta di Sant'Agostino nel centro storico. Di fronte alle difficoltà opposte dalla Soprintendenza, Gehry ha pensato bene di ritirarsi.

Sul "caso Bilbao" pubblichiamo un intervento di Ibon Areso Mendiguren ­ vicesindaco e assessore all'urbanistica della città basca ­ che spiega come la presenza del Guggenheim abbia permesso il rilancio non solo dell'immagine, ma anche dell'economia di Bilbao. A tre big dell'architettura nostrana abbiamo invece chiesto di commentare il caso Modena. Gehry ha parlato di "contesto impossibile" per lavorare e di "situazione inaccettabile". Ma il modello Bilbao è riproponibile in Italia? [f. m.]

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Con un ambizioso progetto culturale, una città in crisi ritrova una nuova immagine e rilancia l'economia

BILBAO
impara l'arte

Un modello di sviluppo che era stato rifiutato dalla comunità. Tutti pensavano che sarebbe stato meglio finanziare le imprese in difficoltà
A dare la scossa, è stato il Museo Guggenheim, disegnato da Ghery: l'architetto che Modena ha di recente rifiutato

di Ibon Areso Mendiguren*, nelle pagine "Cultura e spettacoli" de "La Stampa" di venerdì 29 dicembre 2000.

SONO convinto che in futuro non esisteranno città economicamente importanti che non siano, nello stesso tempo, culturalmente importanti. Questa doppia funzionalità è già riscontrabile in grandi capitali, come Londra o New York, ma oggi viene perseguita anche da città di lunga tradizione economico-commerciale come, ad esempio, Francoforte: che negli ultimi anni si è dotata di ben diciassette nuovi musei.

Nel nostro caso, il potenziamento del Museo di Belle arti e del Teatro Arriaga, il nuovo Palazzo Euskalduna dei Congressi e della Musica, la rete di biblioteche, la stagione operistica, la creazione di campi da golf ecc., sono stati considerati elementi necessari per lo sviluppo della nostra area urbana, anche se il progetto pilota di tutto il settore non può che essere il Museo Guggenheim.

La costruzione di questo museo è l'elemento più simbolico e caratterizzante, della scommessa che Bilbao ha fatto sul suo futuro; ed è quello che ha contribuito in maggior misura alla sua nuova immagine internazionale.

La scelta operata dalle istituzioni basche non fu semplice. La selezione di Bilbao come sede europea del prestigioso Museo Guggenheim di New York richiese, innanzitutto, il convincimento da parte della Fondazione omonima che la nostra proposta era seria e fattibile.

A questa selezione contribuì anche il fallimento delle trattative che la Fondazione aveva in corso con altre città europee considerate più idonee, fra cui Venezia e Salisburgo.

Ma il problema più importante fu un altro: e cioè il rifiuto che il progetto suscitò nella società bilbaìna, che non capiva per quale motivo si dovesse investire in un museo, dal momento che ­ data la crisi economica in atto ­ pareva ovvio a tutti che gli investimenti pubblici avrebbero dovuto essere destinati, prioritariamente, alla salvaguardia dei posti di lavoro, tramite finanziamenti alle industrie in crisi.

Certamente, molti soldi pubblici ­ in quegli anni ­ furono destinati alle imprese in difficoltà, ma questi aiuti, in molti casi, produssero soltanto un sostegno artificiale all'occupazione, all'interno di sistemi produttivi comunque senza futuro; mentre risultarono efficaci quando contribuirono a renderli competitivi, sostituendo mano d'opera con tecnologia, ma in questo caso incrementando, però, la disoccupazione.

Insomma: la gente non capiva che la proposta delle istituzioni basche, oltre all'aspetto culturale, presentava un'importante prospettiva economica, e che la cultura non doveva essere considerata un costo, quanto un investimento economico sul futuro.

Un'altra opposizione forte fu espressa da molti contesti culturali che si videro ridurre gli aiuti e le sovvenzioni che erano abituati a ricevere, a causa della necessità di concentrare sul nuovo museo la maggior parte delle risorse destinate alla cultura.

In questo clima di dissenso diffuso, che induceva molti a considerarci "los mas tontos de Europa", per aver accettato ciò che tutti gli altri avevano rifiutato, e per aver propiziato la cultura della Coca-Cola e dell'imperialismo americano, dovemmo concretizzare la scommessa strategica che avevamo formulato, costruendo un museo che avesse la forza di diventare l'emblema della nostra città e di inserire Bilbao nel circuito delle grandi mostre che si svolgono nelle principali capitali del mondo.

La verità è che quella scommessa superò le nostre migliori aspettative: come dimostrano le cifre riportate più avanti, e il suo successo cambiò radicalmente il clima avverso che ho prima descritto.

Il primo studio di fattibilità, stimò necessario un numero di 400 mila visitatori all'anno, per compensare l'investimento di 132,22 milioni di euro. Ci sembrava un obiettivo difficilmente raggiungibile e ­ invece ­ nel primo anno i visitatori furono 1.360.000, più di tre volte l'ipotesi iniziale. La cifra media che, oggi, ipotizziamo per il museo è di un milione di visitatori all'anno.

I 132,22 milioni di euro furono così impegnati: 84,14 per la costruzione del museo e l'urbanizzazione circostante; 36,6 per l'acquisto delle opere che andarono a costituire la collezione iniziale del Guggenheim di Bilbao; 12,2 per entrare a far parte della Fondazione, che si era impegnata a portare le sue collezioni a Bilbao con lo scopo di evitare il consueto periodo di rodaggio di un museo nuovo, e di assicurare ­ fin dall'inizio ­ un livello di qualità paragonabile a quello delle sede centrale.

La società di consulenza KPMG Peat Marwick ha studiato la situazione applicando il suo modello economico e i risultati sono eloquenti.

Nel primo anno, dal 19 ottobre '97 al 19 ottobre '98, entrarono nel Museo 1.360.000 visitatori. Nel secondo periodo, che va dal 19 ottobre '98 al 31 dicembre '99, i visitatori furono 1.265.000.

Di questi, il 79 % e l'87 %, rispettivamente, sono venuti a Bilbao ESCLUSIVAMENTE per vedere il Museo o ­ essendo venuti per altro motivo ­ hanno prolungato la loro permanenza per visitarlo. Le spese che questi visitatori hanno fatto in Euskadi, in questi due periodi, ammontano ­ in euro ­ a 433 milioni (186 e 247, rispettivamente). Il che significa che la spesa media per persona è stata di 137 e 195 euro. Le entrate derivanti dal Museo Guggenheim di Bilbao, in questi due periodi, si sono così distribuite:

­ più di 63,40 milioni, in ristoranti, bar e caffetterie nel primo anno e quasi 84,14 milioni nel secondo;

­ più di 48,70 e 60,10 milioni, in negozi e altre attività commerciali;

­ più di 39 milioni, in alberghi, pensioni o altro tipo di alloggiamento, nel primo periodo, e 56,50 nel secondo;

­ più di 10,80 milioni, in trasporti (benzina, pedaggi ecc., nel primo periodo, e 13,80 nel secondo;

­ più di 10,80 milioni, spesi nello stesso Museo (biglietti di entrata ristorante e acquisti nel bookshop, nel primo periodo, e più di 12,60 nel secondo.

Questo giro d'affari ha prodotto un valore aggiunto, nell'economia della Comunità Autonoma del Paese Basco, che ammonta a più di 337 milioni di PIL: 144 (0,47 % del PIL della Comunità) nel primo periodo, e 193 nel secondo (0,62% del PIL complessivo).

Un simile incremento di ricchezza, ha prodotto entrate aggiuntive, all'Azienda Pubblica Basca, quantificate in 63 milioni di euro derivanti dall'Iva, da imposte societarie, dall'Irpef: 27 milioni nel primo periodo e 36 nel secondo.

Lo stesso incremento ha generato 3.816 posti di lavoro (0,51% degli occupati di Euskadi) nel primo periodo e 5.083 nel secondo (0,67%). Va detto che non tutti questi posti sono totalmente nuovi: in quanto un certo numero, già esistente prima dell'apertura del Museo, è entrato a far parte del nuovo contesto produttivo.

Per dare un punto di riferimento, diciamo che il cantiere navale Euskalduna, operante nell'area in cui oggi si trova il Museo, creò ­ nei suoi anni migliori ­ 3.000 posti di lavoro diretti, e 1.000 indiretti (tramite contratti), e che negli ultimi anni impiegava dalle 2.300 alle 2.400 persone.

Nell'anno 2000, prevedendo 1 milione di visitatori, la ricchezza generata in Euskadi salirà a più di 150 milioni di PIL, con un'entrata ­ per l'Azienda Pubblica Basca ­ di 28 milioni di euro.

Riassumendo, possiamo dire che ­ se verranno mantenute le previsioni per il 2000 ­ il Museo avrà generato, dalla sua inaugurazione, più di 600 milioni di euro di attività economica e di 90 milioni di entrate fiscali.

L'incremento del PIL del primo anno ­ 144 milioni di euro ­ significa che la società basca ha recuperato, in un anno, tutto l'investimento effettuato. Se analizziamo la situazione esclusivamente dal punto di vista dell'Amministrazione, le maggiori imposte hanno permesso di recuperare ­ in tre anni ­ l'investimento pubblico destinato alla costruzione fisica del museo e ­ in poco più di quattro anni ­ l'intero investimento.

In questi dati, non abbiamo incluso altri fattori: come la promozione pubblicitaria a favore della città. Se considerassimo gli articoli sui quotidiani e sulle riviste, i servizi televisivi ecc. in tutto il mondo, e li quantificassimo come pubblicità a pagamento, gli investimenti che abbiamo destinato a questa operazione sarebbero stati interamente recuperati soltanto da questo punto di vista.

Ci sono, infine, altre ricadute positive, meno tangibili ma non per questo meno importanti. Mi riferisco al recupero di autostima della società bilbaina: che aveva vissuto un periodo di grave depressione, al momento della sua crisi industriale e delle cocenti conseguenze occupazionali da essa generate. Si è creata una forte inversione di tendenza e, anche se abbiamo ancora molto lavoro da fare, è iniziato in modo indiscutibile il percorso della riconversione economica.

In conclusione, possiamo affermare che l'operazione Guggenheim è stato un investimento, e non un costo ­ come oggi la gente ha ben capito ­ e che un investimento culturale può aiutare a generare le stesse risorse e gli stessi posti di lavoro che, in precedenza, si ottenevano con l'industria tradizionale.

*Vicesindaco e assessore all'urbanistica di Bilbao

"In Italia il Guggenheim

Bilbao

non funzionerebbe"

Le opinioni di Aulenti, Gregotti e Botta

di Fiorella Minervino, nella stessa pagina dell'articolo precedente

GAE Aulenti, autrice [ristrutturatrice] del Musée díOrsay a Parigi, di Palazzo Grassi a Venezia, delle Scuderie Papali a Roma, nonché del Museo di Arte catalana a Barcellona e quello di Arte asiatica a San Francisco, sostiene che gli amministratori di Modena si sono impegnati con Gehry senza sapere chi egli fosse, per pura moda. "Bene ha fatto Gehry a ritirarsi ­ dichiara la Aulenti, che ha appena vinto il progetto per la ristrutturazione della Venaria a Torino ­ è inutile forzare quando il progetto spaventa". Quanto a un altro Museo come Bilbao, in Italia, l'architetto ritiene che il Paese possiede troppi palazzi antichi, architetture, contesti straordinari per pensare a un nuovo edificio.

Drastico Vittorio Gregotti che ­ oltre al Centro Belem di Lisbona ­ sta preparando a Milano il Teatro degli Arcimboldi alla Bicocca, in sostituzione della Scala (in restauro per due anni). Inoltre, Gregotti è fresco d'una vittoria francese: la grande Sala per l'Orchestra di Parigi con 2000 posti, che comincerà a costruire [?] fra due mesi, da un vecchio teatro in disuso nel centro. "Le Soprintendenze hanno una tradizione di prudenza, ovunque ­ precisa ­ perfino a Yeng Ming Pei, in Francia, affidarono il Grand Louvre perché gli avevano rifiutato il progetto alla Défense. L'Italia, con tale patrimonio, ha una sua logica prudenza. Il lavoro di Gehry [a Modena] era, essenzialmente, di scultura non era del tutto necessario e si trovava in un'area dove il nuovo è difficile da unire all'antico".

Per il fenomeno Bilbao nel nostro Paese, Gregotti è negativo: "Non lo si può rifare in alcuna parte del mondo. Il Guggenheim è un'opera di ottima architettura ma, come Gaudì all'inizio del '900, è fuori dalla tradizione". La riflessione è che, avendo ottenuto un tale successo mediatico in una brutta città come Bilbao, per il costo di 1.200 miliardi, è un fatto sproporzionato ai problemi, una stranezza poco ripetibile dallo stesso autore.

Infine, lo svizzero, italiano di formazione, Mario Botta: "E' giusto che Gehry si sia ritirato ­ riferisce l'architetto che ha edificato il Museo a Tokyo, il Moma a San Francisco, il Tinguely a Basilea, e sta costruendo quello di Rovereto, che diverrà il più grande Museo d'Italia ­. "L'architettura non può essere contro la società che la determina. Se non è condiviso, meglio lasciar perdere".

Per il colosso di Bilbao, Mario Botta è convinto che il modello fatichi a entrare in Italia, così carica di storia culturale, che fa sì che ogni cosa venga guardata con sospetto. "Invece gli architetti devono battersi per il nuovo. Perché no Bilbao in Italia?

Un'opera con una comunicazione utopica, di potenza ed energia, è un fiore, per una città. Certo, non in piazza San Marco a Venezia. C'è spazio per il nuovo nelle zone da risistemare per il futuro. Il modello Bilbao lo vedrei in ogni città italiana che va riscattata nelle zone periferiche, con organismi forti o con operazioni collettive importanti: come il Teatro degli Arcimboldi di Gregotti". Conclude Botta: "Sto lavorando in Germania, Usa, India, a Gerusalemme, ma le difficoltà che incontro al Museo di Trento sono uniche, in Italia si fa in 5 anni ciò che, in Germania, si realizza in 24 mesi. Ora però sono molto contento, ho un segreto: mi hanno invitato a costruire una chiesa a Torino".

 

Un piccolo commento a caldo...

Leggendo quest'articolo su internet,mi sono venuti in mente tutti i discorsi sentiti in aula,perciò ho ritenuto opportuno riportare questa pagina che,oltre a testimoniare a livello economico una forte ripresa monetaria della città di Bilbao,mi da lo spunto per parlare di ciò che all'inizio del corso stavo introducendo legando la parola crisi con quella di avanguardia e con Terragni,autore su cui ci siamo soffermati poichè quest'anno ricorre il centenario dalla sua nascita;evento da commemorare sia per ricordarlo,ma anche per trarre spunto e proiettarlo nel futuro con una nuova architettura.

Tornando a Bilbao,vorrei fare un piccolo richiamo su alcuni concetti che avevo lanciato all'inizio del corso.Penso sia importante capire quanto oggi la comunicazione e l'informazione siano fondamentali in ogni tipo di campo e per ogni tipo di sviluppo.La società,con il tempo,si è profondamente evoluta e,si sa,l'evoluzione non può fermarsi per cui oggi,rispetto a ieri,l'informazione è alla base ed insieme motore di economie,società e culture,nonchè di nuove opere architettoniche.

Il fenomeno Bilbao è un evento molto importante di cui volente o nolente non possiamo negare.Non sono un fan di Gehry,nè di questo museo,ma ritengo che ciò che ha portato quest'architettura e quest'importante architetto,sia qualcosa di assolutamente fantastico,qualcosa di unico.Se ne è parlato e discusso molto in questi anni,ma,secondo il mio modesto parere,il discorso fondamentale da dover richiamare rimane uno solo:Le città si trasformano lentamente e rispecchiano una condizione di vita della stessa società;Bilbao necessitava di un forte cambiamento e ha saputo promuoverlo.Questo non solo ha portato moneta all'interno,ma anche una nuova veste per una città di cui molte persone non ne conoscevano addirittura l'esistenza!Il discorso non cambia,è importante comprendere che dopo una forte crisi,ci sia una rivoluzione,un forte cambiamento della società e della cultura;per questo mi piace ricollegare mentalmente lo stesso tipo di evento gia accaduto in passato(non a caso Terragni ha combattuto e portato novità che rispecchiavano un bisogno di cambiamento per la nostra società negli anni '30).Bisogna essere consapevoli che,oggi,una ripresa economica non la si deve cercare solamente nelle stesse risorse del Paese,ma è fondamentale proiettarsi e avanzare degli investimenti per il futuro.E' questo ciò che manca per il nostro Paese;sono d'accordo con quanto ha affermato Botta sulla potenzialità delle periferie ed è anche vero che i tempi di costruzione sono molto lenti e difficoltosi(questo purtroppo,anche per via della poca serietà di molte imprese).

Questo articolo sta a compimento di un concetto iniziato nel corso e di cui è stato piacevole trarne insegnamento.

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Alessandro Santoriello

Di seguito è stato riportato un'altro interessante articolo,sempre sul Geggenheim di Bilbao,dal prof.Antonino Saggio

 

O luna, luna di Bilbao
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pubblicato su "Diario" n. 48, II 10 dicembre 1997 (pp. 52-54)
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Una pagina di Internet si apre con l'esclamazione "O Luna... O Luna di Bilbao". È in una delle decine di siti dedicati
(www.fashion.at/culture/bilbao.htm)1 allo scintillante Museo Guggenheim appena completato nel capoluogo basco e progettato dall'architetto americano Frank Owen Gehry, Fog per gli amici.
L'importanza dell'evento è stata sottolineata in tutto il mondo. Time gli dedica otto pagine con copertina a Re Juan Carlos, che ha inaugurato il museo, altrettanto spazio il New Yorker, in Italia la notizia è arrivata nei telegiornali.
Centinaia i consensi, i pareri, le opinioni. Riportiamone solo tre,di artisti che hanno la capacità di forare l'immaginazione.
Ed Moses, pittore "di strada" californiano: "Frank era uno dei nostri e guarda un po' quanta strada ha fatto. È di gran lunga il più noto internazionalmente. Chi se lo sarebbe aspettato da quel piccoletto".
In risposta alla domanda se il nuovo museo funzionerà perfettamente per fruire le opere d'arte, Philip Johnson, deus ex machina dell'architettura Usa: "Quando un edificio è buono come quello, f**k the art" (eufemisticamente, chi se ne importa).
Richard Serra, geniale scultore: "Ha un movimento tremendo, come una nuova versione di Boccioni."


Boccioni? Chi, l'Umberto Boccioni propugnatore della scultura e pittura futurista, morto soldato a 34 anni durante la prima guerra mondiale? Ma allora, anche la nostra cultura ha contribuito.
Serra con l'intuito dell'artista coglie il centro (o quello che anche me è apparso tale quando ho scritto una monografia di larga diffusione su Gehry nello scorso giugno).
Boccioni a partire dal 1910 rinnovò completamente la scultura. Se i cubisti avevano infranto la cornice prospettica per una disarticolazione dei piani, egli eliminò il piedistallo che separava l'oggetto dall'ambiente circostante. Voleva creare delle sculture che trasmettessero, come delle dinamo, energia.
Per farlo le sue creazioni anti-piedistallo dovevano essere una "costruzione architettonica delle masse" che modellano "l'atmosfera che circonda le cose". In Muscoli in velocità o Forme uniche nella continuità dello spazio, il movimento si slancia fuori da sé.
La potenzialità di queste Sculture di ambiente non hanno generato una vera sperimentazione in architettura. Il messaggio rimase quasi inesplorato e la bottiglia che lo conteneva mai realmente aperta. Il manifesto dell'architettura futurista di Antonio SantíElia si mosse più sul piano dei contenuti (centrali elettriche, viadotti, ascensori, rampe, eccetera) che sulla individuazione di una legge formativa che captasse le linee dinamiche di Boccioni, il Costruttivismo russo teorizzò l'assemblaggio dei volumi e le spirali di Tatlin rimasero un sogno, alcune opere come la Torre Einstein di Erich Mendelsohn o la cappella di Ronchamp di Le Corbusier usarono la componente espressionista di Boccioni invece di quella spaziale, John Johansen, e siamo arrivati al 1969, costruì il suo Mummers theater con un processo di nuovo assemblatorio pur se aperto nello spazio, più che plastico.

È solo Gehry che capisce sino in fondo la parola futurista "traiettoria".
Le direttrici protese nello spazio, in Boccioni come in Gehry, sono sì rettilinee, ma nella tensione a fendere líaria si deformano. La retta diventa arco, parabola, appunto traiettoria.
Questa è la prima cosa che colpisce, il centro formativo dell'opera di Gehry. Come Boccioni il suo obiettivo è fare una scultura di ambiente ma questo può essere fatto solo con una specie di urbatettura (una parola di Bruno Zevi).

Gehry sceglie per il progetto un'area industriale semi abbandonata tra il centro, le nuove espansioni periferiche e che si snoda lungo il fiume. Interconnette i tre poli dimostrando come con una concezione urbana e plastica al contempo si possa valorizzare un'area di basso valore, risolvere un sito derelitto, riagganciare la città al suo fiume, la periferia al centro.
I corpi si avvinghiano e si slanciano con virulenza meccanica, ma creano cavi, piazze, banchine attrezzate, luoghi per la gente.
La grande opera è già un simbolo. Ed è un simbolo mondiale, che vale un pellegrinaggio. Come Chartres e Notre-Dame è una cattedrale, una rappresentazione della parte migliore del nostro essere oggi. Perché oggi il museo come simbolo pubblico ha preso il posto delle chiese (basti vedere l'intera cittadella delle arti che l'architetto Richard Meier sta inaugurando a Los Angeles per il Getty center, anche questo lavoro di 1000 milioni di dollari, sia detto tra parentesi, ispirato all'Italia di Villa Adriana e dei centri collinari medievali). L'investimento di 180 miliardi di lire per Bilbao (parecchio meno della sola copertura dello Stadio Olimpico di Roma, 220 miliardi, e una piccola frazione dei 3500 Miliardi stanziati per il Giubileo) è anche un affare perché il pellegrinaggio è un obbligo nel nuovo consumo culturale (o neo-spirituale?) di oggi. E ha ragione Johnson, i milioni di persone che lo visiteranno andranno in primis per l'architettura.
Il sogno di Boccioni, si tramuta in realtà attraverso Gehry. Ma Gehry a sua volta è un tipico risultato della libertà che solo in America è possibile.

Povero ebreo arrivato a Los Angeles dal Canada nel 1947, guida un camion per mantenersi agli studi. Dopo la laurea vive lavorando negli uffici di architetti affermati e solo nel 1962, a 33 anni, riesce ad aprire un proprio studio. Per quindici anni fa il professionista, sull'onda del boom edilizio della west coast, ma a 49 anni decide di ricominciare. Licenzia le 40 persone dello studio e decide di non accettare più compromessi. Ricomincia daccapo con minuscole commesse ma inseguendo la sua vera passione. L'arte. Non quella aulica e blasonata, non quella in doppiopetto di Richard Meier, ma quella dei sandali, della camicia fuori dai pantaloni, del suo essere sempre spettinato, della ricerca di se stessi. Cerca con i suoi amici pittori pop nel mondo povero degli scarti e capisce che c'è un immensa vitalità in quello che chiama cheapscape, il paesaggio povero e abbandonato delle periferie di tutto il mondo.
Passo dopo passo fa breccia. Una grande mostra organizzata da una donna coraggiosa, il critico Mildred Friedman, lo lancia in tutto il mondo nel 1986. Dopo verranno i premi e le commesse prestigiose. In Europa costruisce a Parigi, a Praga, a Barcellona, in Germania, in Svizzera. (Ma, 'Nemo propheta in patria ha infinite e ancora aperte amarezze a Los Angeles nella realizzazione dell'Auditorium Disney).
Torniamo a Bilbao. L'idea di Boccioni è una scultura architettonizzata, Gehry fa invece una architettura scultorizzata. Vogliamo dire che in Boccioni l'idea degli interni abitabili è assente, mentre l'opera di Gehry è tanto forte all'esterno quanto all'interno.

Un atrio di 50 metri di altezza (che lancia un lontano abbraccio al grande cavo del museo madre di New York, il Guggenheim di Frank Llyod Wright completato nel 1959 a forma di spirale) è uno spazio assolutamente incredibile, plasmato, contorto, aperto alla luce e ai flussi. Da questo centro si dipartano i corpi espositivi, i servizi, le librerie, le zone di ristoro. Perché il museo crea oggi spazi per la gente tanto fuori che dentro. Consente di leggere un libro, accedere ai media più diversi, chiacchierare con un panino insomma vivere dentro il museo scegliendo il grado e il tipo di coinvolgimento che si vuole con l'arte. Gli interni sono sempre vivissimi, plastici, strabilianti. Fanno guardare a testa all'insù come nelle cattedrali e trattenere il respiro. Un grande corpo allungato e arcuato, alto 30 metri e lungo più di 100, ospita le grandi installazioni e si incunea sotto il ponte che borda l'area. E accanto al ponte, come una vera cattedrale contemporanea, non vi può non essere un campanile. Quasi inutile, come quelli antichi, quanto assolutamente indispensabile. È una torre per la vista che l'architetto realizza come una forcella slanciata verso il cielo.
Il rivestimento in pannelli di titanio (realizzato da una ditta italiana di Conegliano veneto) luccica, splende, rimbalza la luce a tutte le ore e la rifrange sull'acqua. Ecco perché Luna, Luna di Bilbao.
Ma non erano i futuristi che dichiaravano "Noi vogliamo uccidere il chiaro di luna"? Sì, perché volevano proiettare il mondo al domani, eliminare i patetismi ottocenteschi e le decadenze. Non potevano pensare, non potevano neanche immaginare, forse, che un architetto americano ottanta anni dopo avrebbe potuto realizzare una gigantesca luna meccanica, avrebbe fatto una cattedrale per celebrare l'arte di oggi, l'avrebbe agganciata a un sito industriale per rilanciarlo e con essa tutta la città, avrebbe creato dei fantasmagorici spazi per usare l'arte in maniera viva "anti-museale", avrebbe saldato in una nuova sintesi paesaggio industriale e natura di fiume e di cielo.
Il ragazzo Boccioni, crediamo, sarebbe orgoglioso di quel piccoletto di Gehry e di essere ricordato come uno dei suoi padri.


Antonino Saggio

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