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CALDERINI Ercole Enrico


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Calderini Enrico

 

di Gianni Gervasoni

Enrico Calderini nacque a Bergamo il 23 settembre 1833 da Antonio e Teresa Zambelli e morì a Milano il 29 aprile 1913.

Cominciò piuttosto tardi gli studi se lo troviamo studente di prima grammatica al nostro Ginnasio a 14 anni nel 1847 e trovò poi un posto di impiegato all'Intendenza di Finanza di Bergamo.

Nel marzo 1859, ai primi sintomi di una prossima guerra contro l'Austria, egli abbandona il suo ufficio, emigra in Svizzera
e di là in Piemonte per arruolarsi nel 16° Reggimento Fanteria di linea (Divisione Cialdini), col quale si batte a Palestro il 30 e 31 maggio, cooperando a quella eroica affermazione che valse alla bandiera di quel Reggimento la medaglia d'argento al valor militare.

Seguì e prese parte ai fatti successivi della campagna dopo la quale fu congedato con le medaglie commemorative italiana e francese.

Tornò quindi al suo impiego, che abbandonò nuovamente dopo pochi mesi per partire da Bergamo la sera del 3 maggio, con tanti altri, alla volta di Genova.

Imbarcatesi a Quarto, ebbe a Talamone il comando della 1ª squadra dell'8ª « Compagnia di ferro » dei nostri bergamaschi, coi quali fu dei primi a ricevere il battesimo di fuoco e di sangue.

A Calatafimi infatti il 15 maggio da una palla borbonica rimase gravemente «ferito al terzo medio sinistro della coscia sinistra».

Ricoverato prima sopra un pagliericcio sul pavimento d'una cella al primo piano del convento dei Cappuccini di Vita, nel pomeriggio del 17 vien collocato col pagliericcio sul fondo di « un carretto a due ruote, verniciato di giallo,è istoriato con vivaci colori, a soggetti religiosi, secondo il costume di tutta l'isola, al quale carretto è attaccato  un discreto  cavalluccio »  che si dispone  a partire. « Subito ai primi passi, Calderini da segni di gran sofferenza, e grida al carrettiere di andare adagio ». Sylva ch'era con lui lo incoraggia e gli fa sperare che cesseranno, sulla strada consolare, i sobbalzi del carretto. « Invece, anche su quella strada, - narra ancora il Sylva - a ogni minimo sassolino che passi sotto le ruote, i suoi spasimi si fanno sempre maggiori, tanto che, ad un certo punto, non potendo egli più reggere, sferra di rovescio un potente pugno su le reni del conducente, e gli bestemmia di scendere e di condurre il cavallo per mano. Ubbidiente e timoroso, il povero diavolo salta dal carro e guida la sua bestia a passo lentissimo.

Ma anche questo a nulla giova poiché le sofferenze del disgraziato amico si fanno di più in più strazianti. Io non so cosa fare.
Sono disperato. Al colle Pietralunga, voltiamo a sinistra, e scendiamo a piedi del Pianto dei Romani, che giriamo, dirigendoci a NE su Calatafimi. Avremo fatto in tutto due o tre chilometri, e ce ne mancheranno ancora cinque buoni, quando Calderini, con voce quasi spenta, mi dice: « Fa fermare, perché non ne posso più.
Se si continua ancora un po', io muoio ». Il carro è arrestato immediatamente, e mi provo a confortare il poveretto, che pareva agonizzante. Un momento dopo, egli si rianima alquanto, e con flebile voce mi soggiunge: « Senti Sylva , o tu trovi modo di farmi portare a spalle, o diversamente condurrai a Calatafimi un morto ».

Lascio immaginare a chi mi legge lo schianto mio a quelle parole!
Trovarmi cosi, su di una strada deserta, lontano parecchi chilometri dall'abitato, con un amico in cotanto grave stato ed io stesso in condizioni poco allegre... Compreso della gravita del caso, senza nulla rispondergli, scendo dal carro e mi avvìo come posso attraverso la campagna, gridando aiuto, finché vedo a una certa distanza e raggiungo un gruppo di sei contadini che stanno lavorando la terra. Mi adopero per far loro intendere che trattasi di salvare la vita di un ferito quasi morente che bisogna trasportare a braccia fino a Calatafimi, che si procurino una scala a piuoli e vengano con me sulla strada, che della loro fatica saranno compensati. .
Comprendono, e mi seguono. Sono in sei, uno dei quali si reca in una baita vicina a prendere appunto uno scaletto. Sul posto chiedono sei piastre (L. 30) pel lavoro onde sono richiesti - che Calderini, il quale di denaroèè ben fornito, paga subito, pur non sapendo dissimulare la sua sgradevole impressione per una simile pretesa. A me invece non reca proprio alcuno òòstupore e anzi faccio a lui considerare come bisogni tener conto che si ha a fare con dei semplici contadini, dai quali non si può pretendere ne spirito patriottico, ne sentimentalismo umanitario, e che d'altronde non gli sarebbe toccato di meglio nelle nostre campagne. A quegl'improvvisati infermieri spiego come debbano appoggiare ben franca la scala al carro, per  indi tirare con riguardo e  dolcemente il pagliericcio su di essa.
« Così si fa infatti, e postisi due uomini alle estremità della scala, si riprende il cammino.  Gli altri quattro che seguono di scorta, ogni tanto danno il cambio ai portatori, e il carro ci viene presso. I patimenti intanto dell'amico si sono grandemente attenuati, ed io ho ripreso fiato. Quando la fortuna vuole, a circa le ore due dopo il meriggio, sotto un sole che brucia le cervella, il pietoso corteo giunge a Calatafimi diretto al convento di S. Michele, dove siamo destinati. Io sono abbastanza strapazzato, ma il mio compagno di sventuraèè giunto salvo al nuovo asilo ».

Di là ancora con Sylva (furon posti soli in un landeau perché il Calderini potesse meglio distendersi, e con altri nove compagni furono rilevati il giorno 6 giugno da una commissione di nobili e generosi signori di Castelvetrano, i quali il dì precedente s'erano presentati con una speciale lettera d'autorizzazione di Garibaldi , che all'uopo s'erano recati a pregare in Palermo per aver l'onore di meglio curare i feriti di Calatafimi. Rifecero così in migliori condizioni la strada di ventidue giorni prima, ripassarono a Vita e dopo Santa Ninfa incontrarono parecchie carrozze con cui molti altri signori di Castelvetrano erano venuti ad incontrarli, mentre altra folla sopraggiungeva via via a cavallo o a piedi.

Con ogni delicatezza « senza urto alcuno, senza un dolore, e senza aver mosso un dito » tutti e specialmente il Calderini furono posti in comodi letti nel Convento di San Domenico a Castelvetrano e visitati dalle notabilità e sollecitamente assistiti.
Ad onore di Castelvetrano e per dipingere il bel carattere e fiero del Calderini riascoltiamo il Sylva « In paeseèè corsa la parola d'ordine che da noi nessuno deve ricevere denaro, per qualsiasi acquisto si faccia. Così, quando usciamo isolati, e ci fermiamo in qualche sorbetteria a prendere un pezzo duro, a l'atto di pagare, da tutti ci si risponde: Signurinuèè paatu. Un giorno anzi ricevo incarico da Calderini, il quale incomincia a metter le gambe giù dal letto, di comperargli un taglio di tela russa per calzoni.
Vado dunque nel più elegante negozio di stoffe che ci sia, contratto, si taglia la stoffa che mi si consegna, e io metto sul banco il marengo di Calderini. Con molta gentilezza, ma con insistenza, mi respingono il denaro, ripetendomi la frase sacramentale di: Signurinuèè paatu. Io protesto e depongo la mercé, essi mi mettono il pacchetto tra le mani, scongiurandomi di non far loro un tale affronto, e tante ne dicono, che finalmente sono costretto ad andarmene con la roba e con il denaro. E' certamente una manifestazione di rara cortesia questa dei castelvetranesi, ma peòòò assai imbarazzante, poiché ci vediamo costretti a privarci talvolta di cose necessario, per ragione di delicatezza. Ritorno al convento, e depongo sul letto di Calderini e stoffa e marengo, e gli racconto quello che mièè capitato. Egli s'inquieta, s'infuria, bestemmia, prende l'involto e me lo scaraventa all'altra estremità della sala ».

La ferita del Calderini voleva una lunga cura; il 9 luglio era ancora a Castelvetrano, dove gli scrisse il Sylva in procinto di partire per Bergamo per breve convalescenza. La sua coscia soffriva di frattura complicata dal fatto che il proiettile gli si era conficcato « nell'osso, donde non fu potuto estrarre se non trentun'anni dopo, a Roma, e propriamente il 23 giugno 1891 ».
« Il Calderini durò in cura circa tre mesi, tra Vita, Calatafimi, Castelvetrano, Palermo e Milano, nel cui ultimo ospedale fini di guarire alla bell'e meglio, tanto da poter ritornare al suo corpo ancor in tempo per prender parte alla battaglia del 1° ottobre ».
« Per essersi distinto durante la campagna »òòò la menzione onorevole al valor militare e quindi, date le dimissioni da tenente dopo l'incontro di Teanòòò alle sue occupazioni e al suo posto di impiegato.

Risulta, infatti, alla data 10 aprile 1864 e 2 dicembre 1866 ch'egli era applicato di 38 classe presso la Dirczione generale del debito pubblico.
Egli poteva pur tenersi contento del piombo borbonico che conservava tra le carni; eppure nel 1866, quando nuovamente e generosamente Garibaldi chiamò a raccolta, eccolo arruolarsi il 25 maggio e accontentarsi del solo grado di sottotenente nel 7° Reggimento Fanteria del Corpo Volontari Italiani, nel quale divenne ben presto comandante di Compagnia e capitano, benché dal suo foglio di servizio (pubblicato dallo Schiarini) non risulti in tutta quella campagna altro che col grado di sottotenente.

Eppure egli singolarmente e più volte si distinse in quelle gloriose azioni garibaldine dell'infelice campagna del 1866 e
specialmente all'azione intorno al forte trentino di Ampola che Garibaldi òòò. Narra infatti il Castellini: « Parecchi erano
caduti durante l'investimento breve. I rossi del capitano Elenio , del capitano Enrico Proveda di Fano, del capitano Calderini (ferito a Calatafimi), costellavano durante l’investimento, come fiori purpurei, i prati di monte Fustaccio... ».
Allo scioglimento del Corpo Volontari il Calderini fu licenziato, come gli altri, il 28 novembre 18òòò al suo impiego dove lo raggiunse il brevetto della medaglia commemorativa per la campagna del 1866, che aggiunse alle altre del '59 e del '60. Esse, con la pensione dei Mille, formarono l'unica sua legittima ambizione di italiano prode e generoso. Al 24 luglio del 1878 lo vediamo figurare come sottotenente nella riserva, mentre in quel torno di tempo dimorava a Firenze, sempre in qualità di impiegato di Finanza. Il 13 ottobre 1881 fu promosso capitano (finalmente!) nella Milizia Territoriale e quattro anni dopoòòò alle feste solenni che Paleròòò nel 1885 per il venticinquennio dalla liberazione garibaldina. Fa cenno di lui Renato Simoni sul « Corriere della Sera» del 25 maggio 1910 nell'articolo: Da Genova a Civitavecchia con la carovana dei « Mille »: «... il comm. Calderini presenta il figlio alto e barbuto a un compagno che lo guarda stupito, sorride festoso al felice padre e il padre felice ha un luccico tremulo  di pianto negli occhi azzurrissimi ». Collocato nella riserva il 17 dicembre 1893 vi fu promosso maggiore il 4 luglio 1895.

Visse poi sempre a Milano nel meritato e onorevole riposo dategli anche dall'impiego, ricordevole delle belle imprese e degli amici e commilitoni, tra i quali gli fu singolarmente caro Guido Sylva . E a Milano, dove ebbe parte in comitati patriottici diversi e particolarmente in quello che nel 1910 raccolse assai materiale garibaldino e patriottico per il celebre Museo del Risorgimento di Milano, si spense serenamente cinque mesi prima di compire l'ottantesimo anno della sua laboriosa, eroica, generosa esistenza.

BIBLIOGRAFIA. - Elenco Uff., N. 205. - « Illustr. Ital. », p. 423, con fotografia. - 27 Maggio 1860, Appendice, p. 6. - « Archivio liceo " P. Sarpi " », anno 1847. - POMPILIO SCHIARINI, I Mille nell'esercito, in « Memorie storiche militari », pp. 559-560. - CASTELLINI, p. 331. - G. SILVA, L'VIII Compagnia dei Mille, S.E.S.A. - Bergamo, 1959, pp. 115, 119, 120, 193, 198, 255, 256, 257, 264, 265, 268, 275. - MENGHINI, Spedizione, p. 165. Notizie dal Ministero delle Finanze e dalle Anagrafi Comunali di Bergamo e di Milano. - Archivio di Stato di Torino.


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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 26/Apr/2004 alle 21:52 Etichettato con ICRA
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